Lessico
Pietro Aretino
Scrittore italiano (Arezzo 1492 - Venezia 1556). Figlio del calzolaio Luca del Tura, che ripudiò perfino nel nome, non perdonandogli di avere abbandonato la famiglia, si trasferì presto da Arezzo a Perugia, dove si dedicò alla pittura, e poi a Roma (ca. 1517), cercando fortuna e successo nell'ambiente cortigiano di Leone X. Amico di artisti, confidente di diplomatici, intimo dei letterati che frequentavano la corte, l'Aretino commissionava quadri, trafficava anticaglie, organizzava spettacoli e burle, scriveva versi e libelli con instancabile fervore.
Dopo la morte di Leone X si creò una fama scandalistica per le “pasquinate” (composizioni satiriche in prosa o versi, in latino, volgare o romanesco, generalmente anonime, così chiamate perché per consuetudine popolare venivano appese alla statua di Pasquino, nome dato popolarmente al gruppo scultoreo mutilo di età ellenistica raffigurante Menelao che sorregge il corpo di Patroclo), che scrisse in occasione del conclave, interpretando l'ansietà e la scontentezza dell'opinione pubblica riguardo all'elezione del nuovo pontefice.
Durante il pontificato di Adriano VI si tenne lontano da Roma, ma vi ritornò nel 1523, col pieno favore del nuovo papa, Clemente VII; non riuscì, tuttavia, a sottrarsi alla violenza dei suoi nemici, i quali, nel 1525, lo fecero pugnalare. Scampato per caso alla morte e vistosi abbandonato da Clemente VII, si rifugiò a Venezia, dove trovò l'ambiente ideale per lo sviluppo della sua personalità e per lo spettacolo inedito della sua scandalosa e inimitabile libertà.
Chiamato giustamente dall'Ariosto “flagello dei principi”, l'Aretino fece opera di eversione dei rapporti cortigiani, obbligando i potenti di ogni grado e ambiente a riconoscere e paventare il valore della pubblica opinione e soprattutto il peso dei suoi direttori e interpreti. Scrittore antipedantesco e insofferente d'ogni disciplina letteraria, dotato di una straordinaria vivacità espressiva e di un gusto sensuale del colore, lasciò il più compiuto ritratto di sé nei 6 vol. delle Lettere (1537-57), una delle opere capitali della cultura del Cinquecento. È soprattutto dalle Lettere, infatti, che si raccolgono il valore e il senso dell'enorme successo dell'attività aretiniana: con il suo epistolario l'Aretino seppe avviare in forme nuove e più intense che in ogni altra opera il suo commento violento e caustico agli “andamenti” del mondo, intervenendo in essi con un discorso continuo, variato secondo l'umore e le prospettive, spesso interessato e capzioso, talora fosco e oppressivo, oppure scintillante d'arguzia e di intelligenza critica, ravvivato sovente dalla più schietta luce di poesia.
Nei Ragionamenti (1536), dialoghi di cortigiane (cui tennero dietro i Dialoghi delle corti, 1538, e il Dialogo delle carte parlanti, 1543), rivelò, insieme al suo gusto per il particolare comico e osceno, doti di scrittore realista e beffardo. Indagine caricaturale di una società e di un costume sorpresi in un aspetto essenziale e tipico del loro essere, i Ragionamenti costituiscono, di fronte ai codici dell'amore platonico, il codice della carnalità e dell'amore profano.
Delle cinque Commedie, le prime (La cortigiana, 1525 e 1534; Il marescalco, 1527) rompono gli schemi classicheggianti, riflettendo nella comicità delle situazioni le immagini della sua esperienza delle corti e delle città. Le commedie successive (L'ipocrito, 1542; La Talanta, 1542; Il filosofo, 1546) si attengono invece al repertorio consueto.
Una tragedia dell'Aretino, l'Orazia (1546), è considerata da molti critici la migliore del Cinquecento. L'Aretino scrisse inoltre Rime amorose ed encomiastiche, poemetti cavallereschi (La Marfisa, 1535; Le lacrime di Angelica, 1538; l'Orlandino, 1540), opere devote (L'umanità di Cristo, 1535; la Vita di Maria Vergine, 1539; la Vita di Caterina vergine e martire, 1540; la Vita di San Tomaso beato, 1543). In queste ultime opere, l'Aretinocompone in fastosa eloquenza (ma anche con novità di immagini ed eleganza di visione) gli spunti manieristici del suo gusto pittorico.