Lessico
Giovanni Boccaccio
Ritratto
eseguito da Andrea del Castagno - circa 1450
Andrea del Castagno è il soprannome di Andrea di Bartolo di Bargilla
(Castagno d'Andrea, San Godenzo nel Mugello - FI, ca. 1421 - Firenze 1457)
Scrittore italiano (Firenze o piuttosto Certaldo (FI) o, secondo alcuni, Parigi, 1313 - Certaldo 1375). È uno dei più grandi novellieri del mondo e ha una sua importante posizione nella storia dell'Umanesimo. Come una delle “tre Corone” (Dante, Petrarca, Boccaccio), appartiene all'età di trapasso fra il Medioevo e il Rinascimento; come uomo di cultura partecipa a un mondo di rinnovamento nel ritorno all'antichità e alle lettere greche e latine e, come novelliere e poeta, riecheggia motivi letterari del tardo Medioevo romanzo, in particolare francese.
La critica prima lo reputò più “moderno” di Petrarca, poi lo valutò nella sua complessa natura passionale e sentimentale intimamente connessa con la civiltà comunale al “tramonto” del Medioevo.
Figlio naturale del mercante certaldese Boccaccio di Chellino (detto anche Boccaccino), dal padre, che si era trasferito a Firenze, fu indirizzato agli studi commerciali e giuridici, ma con scarso frutto. Dapprima istruito da Giovanni da Strada (padre del suo amico Zanobi da Strada), venne inviato a Napoli, presso i Bardi, fiorenti per banche e mercanzie, coi quali il padre era in relazione di affari; in seguito venne introdotto alla corte del re Roberto d'Angiò.
Giovanni, per sei anni in faccende di mercatura e per altri sei in studi canonici, non fece alcun profitto ma imparò a comprendere i classici antichi e a vivere nella splendida società del regno. Fu così familiare di valenti personaggi quali il genovese Andalò da Negro (dotto in astronomia) e Paolo da Perugia, bibliotecario (che lo istruì nella mitologia), mentre Dionigi da Borgo Sansepolcro e il notaio regio Barbato da Sulmona, ammiratori e amici di Petrarca, influenzarono la sua vita indirizzando verso l'Umanesimo i suoi studi, già condotti nella conoscenza del greco col monaco calabrese Barlaam (e poi approfonditi, dopo il ritorno a Firenze, sotto la guida dell'altro calabrese Leonzio Pilato, lettore in quello Studio e primo traduttore di Omero in latino).
Forse a Napoli Boccaccio conobbe anche Cino da Pistoia in occasione di un viaggio del famoso giurista e poeta. L'amore della poesia interruppe decisamente gli studi legali.
La leggenda, che molte tracce ha lasciato nella biografia del poeta, si è valsa di raffigurazioni autobiografiche riguardo all'amore per una gentildonna napoletana, celebrata col nome letterario di Fiammetta. A 23 anni, nell'ottavo anno di soggiorno a Napoli, Boccaccio incontrò nella mattina del sabato santo 1336, nella chiesa di S. Lorenzo, la giovane che la tradizione disse (tuttavia senza alcuna prova) Maria dei conti d'Aquino, figlia naturale del re Roberto e sposa di un gentiluomo di corte. Essa avrebbe spronato Boccaccio all'amore per la poesia, ispirandolo per opere oggi famose: il Filostrato, poema d'argomento classico in 9 canti, composto fra il 1337 e il 1339 e ambientato al tempo della guerra di Troia, vivace per episodi e analisi psicologica dei personaggi; il Filocolo, romanzo in prosa steso nel predetto periodo, ma finito a Firenze fra il 1341 e il 1345, rielaborazione, in alcune parti suggestiva per descrizioni della natura e analisi di caratteri, della storia leggendaria di Florio e Biancofiore; il Teseida (comunemente Teseide), poema in 12 libri, appartenente allo stesso periodo napoletano e impostato su vicende leggendarie delle Amazzoni, con episodi romanzeschi e quadri storici.
Ancora all'ispirazione di Maria d'Aquino sono dovuti: il Ninfale d'Ameto, detto anche Commedia delle ninfe fiorentine, favola idillico-allegorica in prosa intercalata da brani in terza rima sulle pene e le dolcezze d'amore nello sfondo della bella natura (l'opera fu compiuta verso il 1342); l'Amorosa visione, poema allegorico in 50 brevi canti in terzine (scritto nel 1342), con immaginazioni e dissertazioni simboliche sull'amore.
Documento del legame fra Boccaccio e Maria d'Aquino (idillicamente condotto dal 1336 al 1339) fu l'Elegia di Madonna Fiammetta (1343-44, il primo romanzo psicologico moderno), dove l'autore, trascurato e infine abbandonato, finge che l'eroina stessa sia così maltrattata dall'infido Panfilo. Invece dai sospetti per la volubilità della sua amata (rispecchiati in un sonetto contro gli ozi di Baia) il giovane poeta passò alla più amara delusione.
Nel frattempo Boccaccino ebbe dissesti nel suo commercio per il fallimento della banca dei Bardi e nel dicembre 1340 fece tornare il figlio a Firenze. Qui Boccaccio continuò a studiare i classici e a scrivere opere in volgare: da menzionare, per la loro importanza (oltre il Ninfale d'Ameto e l'Elegia di Madonna Fiammetta), l'Amorosa visione e il Ninfale fiesolano. Si sente, nelle descrizioni della natura e nell'esame psicologico dell'amore e di altre passioni, che l'autore ha fatto tesoro dei classici e che rende con vivacità l'ambiente sociale a lui contemporaneo, sia toscano sia napoletano.
Apprezzato dai Fiorentini, Boccaccio fu mandato in ambasceria a Ravenna nel 1346 e 1347: le sue qualità di letterato sono riconosciute come degne di lode nella tradizione cancelleresca e diplomatica ai primordi dell'Umanesimo. Assente da Firenze durante la peste nera del 1348, per vari anni fu onorato e stimato dalla Repubblica ed ebbe incarichi onorevoli: nel 1350 fu inviato ambasciatore in Romagna con l'incombenza di dare dieci fiorini d'oro a Bice, figlia di Dante, monaca in Ravenna; nello stesso anno salutò fuori Firenze il suo ammirato Petrarca di passaggio da Parma a Roma per il giubileo e poi fu mandato a Padova, nuova dimora del poeta, per restituirgli i beni del padre, confiscati dopo il suo esilio, e per invitare l'insigne letterato a tenere lezione nello studio (ma il Petrarca non accettò di trasferirsi). Entrato nell'ufficio dei Camerlenghi del Comune, andò in ambasceria a Napoli e quindi nel Tirolo (da Ludovico di Baviera).
Iniziato nel 1349, il Decameron venne da lui compiuto con assiduo lavoro nel 1351. L'opera, in prosa (con intercalati alcuni componimenti in versi), è preceduta da una famosa introduzione, che presenta una brigata di fiorentini, tre giovani e sette giovanette, i quali fuggono la peste (1348) e in villa trascorrono il tempo narrando novelle per dieci giornate. L'opera è detta anche Centonovelle ed è tutta varia per argomenti, per lo più amorosi, e celebre per le sue descrizioni realistiche e psicologiche che ne hanno fatto uno dei libri più citati nei secoli.
Di un fatto, presto diventato leggendario, è giusto ora dire: quello della visita fatta a Boccaccio, nella primavera del 1362, dal monaco Gioacchino Ciani, a lui mandato dal santo certosino senese Pietro Petroni, con l'invito a tralasciare le opere mondane e a scrivere opere ascetiche e religiose. Si è affermato che lo scrittore rimase sconvolto per i danni che il Decameron (detto comunemente “prencipe Galeotto”) avrebbe recato alle coscienze e che, aborrendo dallo stendere nuove opere mondane, si diede a studi eruditi e meditativi. In realtà, una vena di religiosità semplice, e forse anche popolaresca per sincerità e schiettezza, era sempre stata in Boccaccio: per di più egli aveva ricevuto gli ordini minori, dimostrando pietà e dedizione al suo ufficio sacro.
Spinto da un'interiore forza a fuggire il mondo, Boccaccio scrisse a Petrarca per averne consiglio; e gli giunsero in risposta saggi e austeri argomenti. Giovanni li accolse e rimase fedele alla poesia; nello spirito dell'Umanesimo si diede a opere erudite. Già in passato si era sentito stanco e disilluso; quando una vedova gli negò amore (1354), inviperito scrisse il Corbaccio per combattere l'intero sesso femminile.
Ma il pensiero della morte era già in lui e non credeva più che bagordi e amori potessero dare gioia: del resto, i fervori della giovinezza e lo splendido sfondo della marina di Napoli erano dimenticati. Con rinnovato fervore scrisse opere latine di poesia e soprattutto di erudizione. In volgare stese però fino al canto XVII dell'Inferno il suo commento all'amato Dante Alighieri (per cui era stato incaricato dalla Repubblica di far pubbliche lezioni in Santo Stefano di Badia).
Le opere di erudizione si andavano intrecciando con le incombenze assegnategli nella sua qualità di dotto; ma profondo era in lui il bisogno di solitudine e di meditazione.
Tornò a Napoli, invitato da Niccolò Acciaioli e da Francesco Nelli, già priore dei SS. Apostoli a Firenze, e colà “spenditore” del gran siniscalco (1362), ma rimase deluso dell'accoglienza riservatagli. Andò anche a Venezia a trovare l'ammirato Petrarca, sua guida intellettuale e morale. Per mandato dei Fiorentini si recò come ambasciatore presso Carlo IV imperatore e anche presso papa Urbano ad Avignone e poi a Roma.
Un nuovo viaggio a Venezia, dove in assenza di Petrarca (1367) lo accolse la figlia Francesca, e un ritorno a Napoli (1370) sono estremi atti di pubblici uffici. Non resta che la solitudine tranquilla di Certaldo, intramezzata da qualche viaggio a Firenze.
L'incarico di leggere la Divina Commedia ai Fiorentini e di spiegarla con un commento erudito, come si compete ai libri dei classici, è interrotto da incomprensioni e dissapori, dopo 60 lezioni svolte fervidamente e con grande cura. La malattia (anche la scabbia noiosissima) e le tristezze incombenti in un animo semplice e buono spiegano la grande ultima dedizione alla cultura, con ricerche un po' affastellate, con un impegno da neofita. Ma c'è in lui un sentimento della vita che continua, come già nei poemi, nelle liriche e nelle novelle, per il desiderio di tutto conoscere del mondo degli uomini, dalla genesi delle passioni alla religione: Petrarca gli fu guida nel fondere l'esigenza morale del mondo pagano con gli aneliti del mondo cristiano.
Se le opere volgari, e in particolare le più rappresentative accanto al Decameron, il capolavoro, meritano di essere illustrate a parte per la loro importanza storica, gli scritti di erudizione vanno qui presentati nella loro complessità. Sono documento di umanesimo e offrono elemento di meditazione storica e letteraria.
Un tenace studio degli antichi è attestato da un componimento poetico, Bucolicum carmen, dove si raffigurano, al modo delle Bucoliche virgiliane, eventi contemporanei.
Recano traccia di un tentativo di sistemazione storica, date le innumerevoli fonti usate, il De casibus illustrium virorum in 9 libri, in cui le ombre dei grandi infelici, da Adamo al cacciato Duca d'Atene e a Petrarca, in sogno narrano a Boccaccio le proprie sventure, e il De claris mulieribus, dedicato ad Andreina, contessa d'Altavilla, sorella del gran siniscalco Acciaioli, con biografie di illustri dame, dall'antichità a Giovanna regina di Napoli.
Da un manoscritto del De casibus illustrium virorum
Quest'ultima opera appare come un complemento al De viris illustribus di Petrarca e ha pagine brillanti e sagaci che vanno collegate con quelle più tipiche delle opere in volgare per un fresco abbandono alla vita, alla grazia delle donne e perfino alla loro inimitabile malizia.
In apparenza farraginosa per il modo di esporre, ma insigne per lo sforzo di fondere più tradizioni culturali e tendenze fra loro contrastanti, è la Genealogia deorum gentilium in 15 libri, ricchi di citazioni e dissertazioni in campo mitologico. Anche nel Commento alla “Commedia” si nota il tentativo di spiegare razionalmente il mito, scorgendo dantescamente nella poesia un «velame delli versi strani».
Meramente erudito ma denso di riferimenti a tutta l'antichità è il De montibus... con un lungo titolo dove si citano selve, laghi e altri luoghi naturali in una fitta nomenclatura.
Negli ultimi anni della sua vita solinga e meditativa, Boccaccio apparve simbolo di poesia e di cultura. Spentosi il 21 dicembre 1375, Boccaccio venne sepolto in Certaldo, nella chiesa dei SS. Michele e Iacopo, con un'epigrafe di Coluccio Salutati e un busto dove è raffigurato in veste d'umanista; e come tale anche Andrea del Castagno lo dipinse, a Firenze, in Sant'Apollonia. I suoi libri passarono a Fra' Martino da Signa, nel convento di S. Spirito, a Firenze.
Uffizi di Firenze