Lessico
Giobbe
Giobbe
- 1934
Francesco Messina (Linguaglossa, Catania, 1900 - Milano 1995)
Personaggio principale dell'omonimo libro sapienziale dell'Antico Testamento, complesso sia a causa della lingua, ricca di termini altrimenti sconosciuti, sia a causa della tematica che non è stata ancora chiaramente identificata.
L'opera, che probabilmente prende le mosse da un nucleo derivante da antiche narrazioni popolari, mostra diverse stratificazioni interne: il prologo e l'epilogo vengono fatti risalire all'epoca che precede l'esilio degli Ebrei (VII-VI secolo aC), mentre il corpus in poesia è collocato dalla critica biblica in un'epoca individuabile tra il 450 e il 400 aC. Certamente il testo era completo nel 190 aC quando viene citato dal Siracide o Ecclesiaste.
Secondo la maggioranza dei critici il libro tratta del giusto sofferente e della giustizia divina; secondo altri, tema centrale è quello del comportamento da assumere nella sofferenza, ovvero se sia possibile credere in Dio o continuare a credere in un mondo retto dall'ingiustizia.
Si suddivide in cinque sezioni: un prologo in prosa (capp. 1-2); una serie di dialoghi tra Giobbe e tre suoi amici, Elifaz, Bildad e Zofar (capp. 3-31), un dialogo tra Giobbe ed Eliu (capp. 32-37), il discorso di Dio nel turbine (38:1-42:6), in poesia, e un epilogo in prosa (42:7-17).
Prologo - Satana, personaggio della corte divina (non ancora, dunque, il Diavolo) propone a Dio di mettere alla prova la fede di Giobbe convinto che quest'ultimo, ricco e sereno, sia anche pio e credente solo perché felice. Dio, pur mettendosi dalla parte di Giobbe, acconsente. Privato di tutti i suoi beni e con il corpo coperto di piaghe, Giobbe rifiuta comunque di offendere Dio, accettandone la volontà.
Giobbe e i tre amici - Tre amici, venuti per compiangere Giobbe, affermano che le sue pene e i suoi patimenti devono essere la punizione per qualche suo comportamento malvagio, ma Giobbe ribadisce categorico la propria innocenza, adirandosi poi per la superficialità dei giudizi degli amici e continuando a cercare una spiegazione alle proprie sofferenze.
Giobbe ed Eliu - Eliu, un quarto amico, interviene nella discussione e si infuria tanto con Giobbe quanto con i tre amici. Sostiene che Giobbe, contestando il giudizio di Dio, "aggiunge al suo peccato la rivolta" (34:37), e controbatte le sue asserzioni affermando che "l'Onnipotente noi non lo possiamo raggiungere, sublime in potenza e rettitudine e grande per giustizia" (37:23).
Dio parla - Dio si manifesta nel turbine della sua trascendenza e, con parole che risultano di straordinaria forza e di sottilissima ironia, chiede a Giobbe, in una sequenza di domande, di offrire quelle risposte che va cercando. L'impossibilità di una replica da parte di Giobbe non va intesa però come un ritorno all'idea della pura imperscrutabilità di Dio, sostenuta anche da Eliu: Dio infatti rimanda a uno splendore della creazione che pur tuttavia si intravede accanto all'esperienza del dolore umano. Questa rivelazione di Dio a Giobbe (si noti che Dio parla solo con Giobbe e non con i suoi "devoti" amici) impedisce quindi di venire a capo definitivamente, in termini umani e dominabili, dell'enigma del male e richiede a Giobbe il silenzio di fronte all'origine ultima del dolore, che rimane oltre ogni pretesa di definizione umana.
Epilogo - Dio rimprovera i tre amici di Giobbe (Eliu non compare) perché "non avete detto di me cose rette come il mio servo Giobbe" (42:7). Infine, concede a Giobbe il doppio delle ricchezze che possedeva, sette figli, tre belle figlie e una serena vecchiaia. - L'epilogo, come il prologo, è in prosa e riflette più chiaramente lo stile dei racconti popolari che sono probabilmente all'origine dei discorsi poetici.
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Giobbe viene festeggiato come santo il 10 maggio
Satana
colpisce Giobbe con le piaghe
William Blake – 1826
Poeta, incisore e pittore inglese (Londra 1757-1827).
Spirito ribelle, inquieto, visionario, è il più immediato precursore del romanticismo inglese.
Siracide o Ecclesiaste
Libro dell'Antico Testamento che si reputa iscritto nel canone alessandrino, ma non entrato a far parte dell'elenco degli scritti sacri della comunità ebraica palestinese. Pertanto il testo è accettato dai cattolici (che lo definiscono precisamente "deuterocanonico") e dagli ortodossi, mentre i protestanti e gli ebrei lo ritengono apocrifo.
L'opera, pervenutaci in greco, ma risalente a un originale ebraico di cui sono stati rinvenuti ampi frammenti in manoscritti ritrovati al Cairo (1896) e a Qumran (1955), è certamente attribuibile (unico caso nella Bibbia) all'autore indicato nell'apertura del testo: Gesù ben Sira (Gesù figlio di Sira). Il titolo latino, Ecclesiasticus (liber), Ecclesiastico, allude al suo utilizzo ufficiale nella liturgia della Chiesa, mentre la designazione di Siracide, con cui il libro è oggi preferibilmente conosciuto (insieme alla forma Sapienza di Ben Sira), deriva dalla trascrizione greca, Sirach, del nome ebraico.
Scritto probabilmente intorno al 190 aC, il testo introduce nel prologo anche la figura del nipote dell'autore, il quale avrebbe compiuto la traduzione dell'originale. Ben Sira viene presentato come personaggio prestigioso, versato nella conoscenza della Legge (Torah), dei Profeti e degli Scritti, e animato dal desiderio di comunicare la vera sapienza divina.
Lo scritto può essere diviso in due parti: la prima (capitoli 1-23) esalta la sapienza che proviene da Dio e alla quale si riconnettono le virtù dell'umiltà, della pazienza, dell'obbedienza ai comandamenti e della misericordia. Vengono impartiti insegnamenti e consigli in vista dell'acquisizione della saggezza, mentre si ribadisce la dottrina di Dio creatore e si promette la ricompensa ai giusti. Nella seconda parte (capitoli 24-50) si identifica la sapienza con la Legge di Mosè e brevi massime su numerosi e disparati temi accompagnano la celebrazione della gloria di Dio nel creato (42:15-43:33) e nella storia (44:1-50:29).
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