Lessico


La produzione di proteine vegetali per l’alimentazione animale
Alternative alle importazioni di proteaginose straniere OGM

di Giorgio Scelsi

2013

Le proteaginose sono le colture industriali i cui prodotti sono destinati alla produzione di mangimi ad alto tenore proteico. La definizione si applica per estensione a tutte le leguminose da granella o civaie, ad eccezione dell'arachide e della soia, che, essendo destinate principalmente alla produzione di grassi alimentari, sono definite oleoproteaginose.

Quando ho letto, riportato dalle riviste specializzate di agricoltura, che nella UE ogni anno per l’alimentazione degli animali allevati si importano oltre 40 milioni di tonnellate di proteaginose quasi esclusivamente OGM (organismo geneticamente modificato), sono rimasto allibito per due motivi. Il primo è che la così detta progredita e moderna agricoltura europea non ha saputo programmare le produzioni agricole necessarie per l’alimentazione della popolazione aumentata notevolmente dopo la seconda guerra mondiale. Anzi, dopo aver perso molti milioni di ettari un tempo adibiti alle attività agricole a causa dell’urbanizzazione, delle attività industriali e servizi, ha messo in pratica il famoso detto "la botte piena e la moglie ubriaca".

Spiegazione. Sulla superficie agricola sfruttabile europea si è voluto produrre enormi quantità di cereali e nel contempo nutrire centinaia di milioni di animali che per crescere velocemente avevano purtroppo bisogno di grandi quantità di proteine vegetali che però sulle stesse superfici non potavano essere prodotte. Di qui l’obbligato ricorso alle importazioni di proteine vegetali estere oggi OGM.

Il secondo motivo è questo: come è possibile che la UE a livello politico continui a sostenere con leggi ad hoc le produzioni zootecniche dette di qualità quando è palese che alimentando gli animali con proteine di importazione OGM si è messa in crisi la produzione di derrate di qualità?

Inserendo nell’alimentazione del bestiame cereali e proteaginose manipolate dall’uomo moderno, si annullano i rigorosi disciplinari di produzione tramandati da secoli. Gli scellerati esperimenti umani si sono sostituiti alle leggi immutabili della natura e così i consumatori non trovano più gli alimenti di origine animale naturali. Oggi anche in Italia dobbiamo registrare la stessa situazione della UE. Dopo selvagge cementificazioni degli ultimi 50 anni, gli agricoltori italiani sono rimasti con poca terra sfruttabile per le produzioni agricole e zootecniche. In circa 10 milioni di ettari si pretende di produrre ingenti quantità di cereali, di ortaggi, di frutta, di uva da vino e da tavola, di olio d'oliva, di foraggi per il bestiame che rispetto al passato è aumentato enormemente e ora in più si vuole produrre biomasse per impianti energetici.

Gli agricoltori hanno praticamente dimenticato che per le produzioni zootecniche sono necessarie le coltivazioni delle leguminose proteiche. È da 60 anni che i mangimi sono prodotti con l’aggiunta di proteine vegetali provenienti dall’estero, soprattutto derivate dalla lavorazione della soia, del girasole, della colza oggi OGM. Lo scrivente, agricoltore e allevatore piemontese del Monferrato, ha da sempre avuto un particolare riguardo verso le leguminose proteiche nostrane. Oltre ai foraggi sia essiccati che insilati derivati da leguminose come la medica, i trifogli, la lupinella ecc., si è rivolto particolarmente allo studio e alla sperimentazione in campo di leguminose da granella quali favino,  pisello da foraggio (Pisum arvense), pisello proteico (Pisum sativum), veccia.

Il motivo di questo mio interessamento verso queste leguminose è  stato quello di cercare di trovare soluzioni alternative alle produzioni abituali millenarie messe in atto dagli agricoltori piemontesi, cioè la coltivazione quasi esclusiva dei cereali autunnali e primaverili e nel contempo aumentare la fertilità dei terreni, riducendo le concimazioni chimiche e i diserbi, e così facendo tentare di migliorare l’ambiente delle nostre campagne da decenni inquinato.

Per la verità i primi esperimenti iniziarono oltre 30 anni fa quando in Italia la soia non era ancora coltivata ma importata dall’America. Un mio amico, rappresentante di mangimi, mi propose di provare a confrontare la resa tra la soia e il favino. A tale scopo riuscì a procurarmi alcuni kg di seme di soia e di un particolare tipo di favino di selezione straniera. Seminai a febbraio il favino e ai primi di maggio la soia. Nonostante il clima fosse scarso di precipitazioni, sia il favino che la soia nacquero regolarmente. La favetta non risentì della siccità e le piante fiorirono abbondantemente e poi emisero lunghi baccelli contenenti 10 semi per baccello. A luglio furono trebbiate e dettero una produzione di granella abbondante. La soia invece, durante l’estate soffrì molto la siccità e quando a fine settembre fu raccolta, la resa fu piuttosto esigua. Praticamente il favino, rapportato a ettaro, avrebbe reso oltre 50 q di granella mentre la soia si sarebbe attestata intorno ai 25 q.

Da questa esperienza ho capito che la soia nei terreni collinari è da escludere poiché è intollerante verso la siccità. Dopo questo piccolo esperimento ho iniziato un serio studio sul favino e ho cercato di procurarmi quella semente che era stata impiegata nel confronto con la soia, per controllare la reale produzione in pieno campo, ma purtroppo non mi fu più possibile reperire quella particolare semente. Seminai quello che trovai in commercio, cioè lo stesso seme usato per l’alimentazione animale. La germinazione fu regolare e le piante raggiunsero il metro di altezza e fiorirono normalmente, ma i baccelli erano corti con solo tre o quattro semi. In concomitanza col riempimento dei baccelli, le piante furono parassitate dai pidocchi neri che pregiudicarono il normale sviluppo della granella, per cui decisi di procedere all’insilamento del favino, perché attendere l’essiccazione avrebbe dato una resa esigua economicamente inadeguata.

Purtroppo la favetta, anche seminata in consociazione con altre leguminose e cereali per erbai da insilare, presenta sempre lo stesso problema di infestazione da pidocchi. Per chi pratica l’agricoltura naturale senza il ricorso alla chimica, come lo scrivente, la coltivazione di questa leguminosa non è da prendere in considerazione. E così mi sono rivolto allo studio del pisello proteico. Si tratta di una varietà nana di Pisum sativum che assomiglia al pisello nano da orto, ma più rustica e più produttiva. Si adatta molto bene ai terreni collinari argillosi e produce grande quantità di baccelli in proporzione al suo ridotto sviluppo. Matura velocemente, intorno al 20 giugno è pronta per la trebbiatura. Pur essendo una leguminosa molto valida come produttrice di proteine, sono stato costretto a interrompere la produzione per due motivi. Il primo è quello che viene sopraffatto dalle erbe infestanti a causa della sua ridotta taglia. Il secondo motivo è alquanto singolare. È molto appetito dai cinghiali che vanno matti per il seme, distruggendo interi appezzamenti. Se capitano in un campo appena seminato, seguono le file e non lasciano neppure un seme. Dopo il loro passaggio il campo sembra arato.

Dovevo trovare delle leguminose che fossero tolleranti verso i parassiti e le erbe infestanti, ma sopra tutto non fossero oggetto di attenzione da parte dei cinghiali. Osservando in natura le leguminose spontanee ho visto che una fonte proteica notevole, trascurata e addirittura combattuta dagli agricoltori, poteva essere la coltivazione delle veccie e del pisello campestre, erbe rustiche e non prese in considerazione dai nocivi. Ho iniziato a coltivare in miscuglio per erbaio da insilare a maturazione cerosa della granella, veccia comune invernale mescolata a pisello arvense e come tutore l’avena, varietà a semina autunnale. Tale erbaio, quando veniva insilato, presentava un trinciato più o meno ricco di granella proteica a seconda delle varietà di veccia e pisello impiegate. Era molto appetito dai bovini che acquistavano una performance notevole quando lo utilizzavano durante i mesi invernali.

Una decina di anni fa mi fu proposto dalla ditta sementiera mia fornitrice di sostituire la normale veccia comune con una varietà di veccia di selezione francese. Alla nascita di tale varietà notai subito la differenza. Le piantine avevano un vigore eccezionale, tanto da tollerare senza nessun danno i rigori invernali. Alla ripresa primaverile le piantine accestirono emettendo diversi culmi ognuna e crebbero velocemente tanto da superare in altezza l’avena che di norma raggiunge i 150 cm. Quando fiorirono emisero molti baccelli che contenevano almeno 10 granelli. L’erbaio in campo presentava una massa di sostanza verde doppia rispetto al solito. Quando fu trinciato a maturazione cerosa della granella, fui molto impressionato dalla grande quantità di materia da insilare, ma soprattutto rimasi stupito dalla quantità di granella di veccia nel miscuglio. E così oltre al trinciato, decisi di lasciare essiccare alcuni appezzamenti di tale miscuglio e trebbiarli per capire quale potesse essere la resa della granella secca.

La produzione fu di 50 q per ettaro. Ogni quintale risultò composto da 60% di seme di avena, 25% di seme di veccia e 15% di seme di pisello arvense. Praticamente ottenni da ogni quintale il 40% di seme di leguminose proteiche. Soddisfatto del risultato ho continuato a produrre tale miscuglio per vari anni.

Nell’autunno 2012 fu impossibile reperire la veccia di origine francese e così la ditta sementiera mi suggerì di provare  a seminare la veccia pannonica o veccia ungherese. Mi propose anche di inserire nel miscuglio una varietà di pisello campestre di grande accrescimento denominato "arwica". Accettai e così preparai il miscuglio e lo seminai nel mese di novembre. Durante l’inverno uscì dal terreno l’avena e a fine febbraio nacque il pisello e la veccia e in breve tempo si svilupparono alla pari del cereale. Alla levata primaverile notai la differenza del pisello e della veccia da quelli che avevo sempre seminato. Le piante delle due leguminose avevano il fusto con portamento eretto come quello della soia, ma, a differenza di quest’ultima che presenta un fusto rigido legnoso, le due leguminose  si sostenevano al cereale tutore e anche tra di loro con i caratteristici viticci. Il pisello iniziò a fiorire alla fine di aprile e continuò fino a metà maggio, raggiungendo un’altezza di 150 cm e oltre con emissione di molti baccelli contenenti ciascuno 7 o 8 semi.

Campo in fioritura del miscuglio
di avena, pisello varietà arvica e veccia pannonica.

La veccia ungherese, mentre il pisello fioriva, accresceva il fusto e l’apparato fogliare e, a differenza della veccia comune che fiorisce con temperatura primaverile, iniziò la fioritura oltre il 20 di maggio quando il clima era quasi estivo e proseguì fino ai primi giorni di luglio quando le piante cessarono di vegetare e iniziarono a essiccare. I baccelli sono attaccati con un cortissimo picciolo al fusto, disposti, come nella soia, a palchi distanti 6 o 7 cm l’uno dall’altro a partire da circa 40 cm da terra fino alla cima della pianta. A  seconda del loro sviluppo in altezza le piante presentano da 20 a 30 baccelli che contengono da 5 a 7 semi ognuno. Praticamente da ogni seme che nasce si possono ottenere da 100 a 150 granelli. Il miscuglio alla fine di luglio fu trebbiato e dette una resa di 50 q per ettaro in terreno collinare dove la soia non ha mai raggiunto i 30 q. Ogni quintale risultò composto dal 43% di veccia, 22% di pisello, 35% di avena. Quindi ben il 65% di semi di leguminose proteiche.

Questi esperimenti vogliono dimostrare che, se si vuole, si può produrre in campagna un mangime completo per gli animali rigorosamente naturale senza interventi chimici, con grande beneficio per l’ambiente e per la salute umana. Si dimostra anche che dallo stesso terreno si possono produrre contemporaneamente cereali, leguminose che con particolari macchinari potrebbero essere commercializzati separatamente e dai residui pagliosi un foraggio appetito dai bovini. In più dallo studio della veccia ungherese ho scoperto che si può ottenere un prodotto molto ricercato, il miele.

Come apicoltore amatoriale avevo sempre notato che le api trascuravano i fiori della veccia comune in quanto non riuscivano a penetrare all’interno per suggere il nettare. Anche il fiore della veccia pannonica sembrava uguale alle altre veccie. Però quando mi avvicinai ai campi fioriti vidi milioni di api che passavano da un fiore all’altro senza tralasciarne alcuno. Si posavano sulla parete esterna del fiore e andavano alla ricerca di qualcosa che a prima vista non sono riuscito a capire. Ma seguendo di proposito un’ape che si era posata su un fiore, vidi che si fermava dove il calice si innestava sul corto picciolo di attacco alla pianta. Aguzzando la vista, vidi che in quella posizione c’era nel calice un minuscolo forellino dove l’ape introdusse l’apparato succhiatore del nettare. Ecco spiegato il grande afflusso di api nei campi in fioritura di questa veccia, afflusso molto superiore a quello della fioritura dell’acacia. La produzione di nettare è ingente perché la fioritura dura più di un mese. Non penso che i nostri apicoltori professionisti ne siano a conoscenza dal momento che in Italia è praticamente sconosciuta agli agricoltori, tantomeno coltivata per granella.

Ho scritto questo articolo, divulgato su internet, per questi motivi:

1°) per informare gli agricoltori che allevano animali che possono produrre nei terreni delle loro aziende un mangime composto naturale con oltre il 20% di proteine;

2°) che possono assicurare ai consumatori l’assoluta qualità dei prodotti derivati dagli animali così alimentati, senza dover ricorrere a mais e proteaginose di  importazione ormai del tutto OGM;

3°) che possono avere un notevole beneficio economico nel risparmiare sull’acquisto di mangimi composti industriali;

4°) grande risparmio di concimi chimici e diserbanti nella conduzione dei terreni aziendali;

5°) assicurare il ripristino dell’equilibrio biologico dell’ambiente delle nostre campagne.

Spero che questa mia esperienza sia di stimolo ai giovani agricoltori per tentare di trovare le formule giuste per innovare l’agricoltura italiana ancora oggi così tradizionalista, per nulla competitiva nei riguardi del mercato globale.