Lessico
La
produzione di foraggi spontanei
per l’alimentazione dei bovini
2012
Tra i molteplici esperimenti susseguitisi in 45 anni di attività agricola rivolti allo studio delle essenze foraggere più consone all’allevamento bovino, è importante segnalare l’impiego di foraggi spontanei. Quando si parla di foraggere spontanee, gli agricoltori più giovani dell’ultima generazione credono che si faccia riferimento all’erba dei prati permanenti. Ho detto giovani agricoltori odierni, perché i contadini di 50 anni fa sapevano a quali erbe ci si riferiva e su quali terreni nascevano e crescevano spontaneamente senza alcun intervento umano. In parole povere potrebbe sembrare che i vecchi operatori agricoli avessero una cultura superiore alle generazioni odierne di agricoltori.
Posso dire invece che i giovani contadini culturalmente sono molto superiori alle passate generazioni e che l’ignoranza menzionata è esclusivamente dovuta ai progressi della chimica moderna. Qualcuno potrebbe pensare che io stia vaneggiando nell’associare ignoranza ai progressi della chimica. Nessun vaneggiamento da parte mia. E ora la spiegazione.
Da circa cinquant’anni l’industria chimica ha messo a disposizione dell’agricoltura centinaia di tipi di diserbanti che, sistematicamente usati dagli agricoltori sulle coltivazioni di cereali invernali, primaverili e estivi, hanno praticamente distrutto le ottime essenze foraggere spontanee, e quindi i giovani agricoltori non le conoscono.
Lo scrivente allevatore è da molti anni che basa l’alimentazione dei suoi bovini, per vari mesi all’anno, sulle foraggere spontanee. La mia azienda è sempre stata condotta nel totale rispetto della natura, senza l’impiego di prodotti chimici, per cui le erbe spontanee hanno sempre trionfato e prodotto grandi quantità di foraggi. Dalle mie esperienze posso affermare che dal mese di aprile fino a settembre, se il clima è favorevole, vi è la possibilità di alimentare gli animali quotidianamente con le graminacee spontanee, quindi notevoli risparmi economici nella conduzione di un allevamento bovino sia da carne che da latte.
Veniamo ora a far conoscere alle giovani generazioni di agricoltori che usano internet queste ottime foraggere tanto combattute dai diserbanti. Inizio a presentare una graminacea eccezionale, la coda di topo detta anche codolina, fleolo dei prati, nome scientifico Phleum pratense, foraggera spontanea nei seminativi di cereali, talvolta tanto abbondante da far apparire da lontano foltissima una seminagione di frumento eccessivamente rado. E a questo proposito voglio raccontare un episodio che mi ha fatto comprendere quanto poteva essere importante la coda di topo nella gestione di un allevamento bovino.
Nell’autunno 1965, ancora studente di agraria, avevo seminato tutti i campi dell’azienda a grano. Nella primavera del 1966 il frumento risultò così rigoglioso da non poter distinguere una fila dall’altra. Quando emise la spiga, mi accorsi che lo spazio tra le file era occupato dalla coda di topo che ha una infiorescenza a panico spiciforme cilindrico a punta quasi tronca che rassomiglia alla coda di un topo. Nonostante l’infestazione, alla mietitura il grano dette un’ottima resa in granella e la paglia fu così abbondante da generare problemi di stoccaggio delle balle in cascina per mancanza di spazio. Da notare che quel tipo di paglia risultò molto gradito al bestiame che se ne cibava avidamente. Nell’autunno 1966 le stoppie a causa di forti piogge non poterono essere preparate per le semine dei cereali e rimasero incolte. Verso la metà di ottobre si trasformarono in un fitto prato di coda di topo. Poi, durante l’inverno, furono ricoperte dalla neve e quando questa si sciolse a febbraio, la vegetazione iniziò la crescita che fu straordinariamente veloce tanto che la foraggera a metà aprile era già completamente sviluppata con un’altezza di 120—130 cm e con la spiga a maturazione lattiginosa dei semi.
Si iniziò il taglio per l’essicazione il 20 aprile 1967 con grande difficoltà di lavoro delle falciatrici a causa dell’elevata fittezza della cotica erbosa. Venne prodotta una enorme quantità di ottimo fieno almeno doppia di quella che si ottiene dai prati permanenti. In effetti, secondo esperimenti eseguiti da stazioni di praticoltura italiane e straniere, la coda di topo dà una resa tra i 170 e i 220 quintali di fieno per ettaro, superando le rese di gran parte delle graminacee foraggere.
Da questa esperienza mi resi conto che gestendo oculatamente i terreni della mia azienda, avrei potuto alimentare a sostanza verde spontanea i miei bovini per un lungo periodo di tempo nell’arco dell’anno. Poiché la coda di topo è molto precoce con produzioni ingenti al primo taglio, ma quasi insignificanti al secondo se la stagione è siccitosa, bisognava trovare una foraggera che maturasse circa un mese dopo per poter continuare nell’alimentazione verde.
La individuai nel loglio italico detto anche loietto, loiessa, nome scientifico Lolium italicum, anch’esso considerato pianta infestante i cereali e perciò combattuta. Seminai alcuni appezzamenti a loglio italico che giunge a maturazione tra metà maggio e metà giugno. Dopo quella semina negli anni successivi il loglio si propagò spontaneamente, avendo i suoi semi l’attitudine a nascere pur se lattiginosi o non perfettamente maturi all’epoca della disseminazione. Ricordo che oggi, a differenza di 40 anni fa, per quanto riguarda il loietto italico, favorendo la naturale disseminazione delle varietà frutto della avanzata ricerca genetica straniera, si possono ottenere per vari anni raccolti eccellenti.
A questo proposito desidero segnalare il risultato di un esperimento eseguito nella mia azienda. A ottobre 2010 un appezzamento della superficie di 2 ettari è stato suddiviso in tre parti uguali e seminato a loglio italico con seme certificato. Il primo lotto con semente frutto della ricerca genetica italiana, il secondo con seme prodotto dalla genetica statunitense, il terzo con seme originale certificato tedesco. Già a metà novembre si potevano notare le differenze. L’appezzamento a loglio di origine americana presentava un eccezionale accestimento con copertura totale del terreno, quello tedesco denotava un normale accestimento, mentre quello di origine italiana era esile con scarso accestimento.
In primavera, nel periodo di maggior crescita, il campo con il loietto americano appariva come un muro verde impenetrabile, con produzione di piante con una fogliosità straordinaria, quello tedesco era nella norma, mentre quello italiano era sempre esile con scarso accestimento, poco foglioso e, a differenza degli altri, anche senza eventi temporaleschi si coricò integralmente. Alla fine di maggio gli appezzamenti furono insilati e così ho potuto constatare la resa.
Si procedette allo sfalcio mediante macchina falcia condizionatrice andanatrice. Due andane di loglio italico origine USA della lunghezza di 200 m ciascuna erano sufficienti a riempire un rimorchio di trinciato, ce ne volevano tre di loglio di origine tedesca e ben cinque di loglio di origine italiana. Alla fine di giugno abbiamo avuto il secondo taglio e a questo punto ho potuto comprendere a quale alto livello sia giunta la genetica straniera. Il secondo taglio del loietto di origine USA ha dato una resa inferiore al primo solo del 30 per cento, sempre con una fogliosità incredibile, il secondo taglio di quello di origine tedesca ha dato una resa del 50 per cento rispetto al primo e invece il loglio di origine italiana non ha prodotto il secondo taglio. Lascio a chi legge le considerazioni del caso, specialmente se è un allevatore.
Dopo questa parentesi torno all’argomento principale, la produzione di foraggi spontanei. In alcuni terreni che da prato permanente erano stati già da vari anni convertiti in seminativi, cominciarono ad apparire delle chiazze verdi formate da cespi di una graminacea che crescendo raggiungeva quasi 2 m di altezza. Era l’erba altissima o avena altissima, nome scientifico Avena elatior, graminacea perenne con radici fibrose e bulbose, che in poco tempo si espanse sugli interi appezzamenti e iniziò a produrre ingenti quantità di foraggio che veniva a maturazione verso la fine di giugno-primi di luglio. In alcuni campi visse e produsse masse di foraggio consistenti per circa 20 anni. Con queste foraggere spontanee avevo così la possibilità di mantenere i bovini ad alimentazione verde da metà aprile alla metà di luglio.
Bisognava perciò individuare un’essenza foraggera spontanea che permettesse di continuare l’approvvigionamento di erba verde per gli animali nel periodo più siccitoso dell’anno, quando il caldo si faceva veramente sentire bloccando la crescita delle graminacee pratensi che subivano gravi stress idrici. Per molti anni non trovai per l’estate alcun genere di erba spontanea, per cui fui costretto a seminare sorgo per alimentare gli animali. Una decina di anni fa nei terreni più freschi e ricchi di humus del fondovalle cominciarono a nascere all’inizio di giugno, sparse qua e là, delle erbe che rassomigliavano a un panico selvatico. Avevano un grande apparato radicale e crebbero velocemente fin quasi a raggiungere i 2 m di altezza, emettendo una infiorescenza che aveva una rassomiglianza con quella del panico. Anche se il clima era torrido non denotavano alcun segno di stress idrico come invece avveniva per il sorgo. I culmi erano teneri e succosi con lunghe foglie.
Consultai il dizionario delle graminacee e così venni a sapere che si trattava del giavone, graminacea annuale i cui semi germinano all’inizio dell’estate, che fa parte della famiglia delle poacee, sottofamiglia panicoidee, nome scientifico Echinochloa crus galli o Panicum crus galli, da lungo tempo considerata grande infestante nelle risaie dove può procurare gravi danni al riso e perciò combattuta dai diserbanti. A me sembrò invece una foraggera estiva spontanea da prendere molto in considerazione nei nostri terreni non irrigui del Monferrato, dove di norma le precipitazioni estive sono assai rare. Da quelle prime piante lasciai che i semi cadessero sul terreno e così in 2 anni gli appezzamenti furono completamente colonizzati dal giavone. Ogni anno in quei campi, dopo la raccolta dell’erbaio primaverile, ai primi di giugno nasce il giavone che a metà luglio raggiunge un’altezza di 150 cm e è pronto per il primo taglio. Un mese dopo abbiamo il secondo e a metà settembre il terzo taglio con crescita e quantità ridotte. Poi ricaccia solamente delle infiorescenze che velocemente si riempiono di semi che vengono, quando le piante muoiono alle prime brinate, rilasciati sul terreno dove rimangono dormienti fino all’inizio dell’estate successiva.
Queste esperienze rivolte ad assecondare la natura rispettando integralmente quell’equilibrio biologico che da millenni la stessa natura ha creato per la salvaguardia degli esseri viventi su questa terra, vegetali e animali, mi hanno fatto comprendere che è possibile gestire i terreni con poche spese e ottime rese ma innanzitutto con grandi benefici per l’ambiente.
Tutti i problemi che oggi gli agricoltori hanno nella gestione delle superfici agricole coltivabili sono esclusivamente imputabili all’uomo che ha voluto, sempre per fini economici, sostituirsi alla natura. Gli operatori agricoli odierni, tranne poche eccezioni, hanno dimenticato una regola basilare che da millenni si è tramandata fino a cinquant'anni fa cioè lo spirito di osservazione, fondamentale per la coltivazione dei campi e la tutela dell’ambiente.
Oggi i terreni agricoli sono trattati alla stregua di una catena di montaggio industriale con conseguenti gravissimi danni all’ecosistema. Spero che le generazioni future comprendano quanto sia molto più saggio produrre qualche quintale di cereali in meno per ettaro pur di favorire in tutti i modi il ripristino dell’equilibrio biologico nelle campagne, quindi nell’ambiente in cui operano e vivono. Questo equilibrio è talmente importante che, se continuamente alterato, potrebbe, come diceva il grande Albert Einstein, portare alla scomparsa dell’umanità.