Vol. 2° -  XXIII.6.1.

La consanguineità nell’allevamento sportivo

In avicoltura sportiva, più che in altri settori dell’allevamento, la consanguineità è considerata un fatto positivo anziché sfavorevole. In fin dei conti gli effetti nocivi della consanguineità sarebbero il prezzo minore da pagare al successo, e talora si giunge a tenerli celati.

Quante volte si sente ripetere: “la consanguineità non mi fa paura”, oppure: “non sono ancora pronto a introdurre altro sangue nel mio allevamento”. Così, la maggior parte degli allevamenti sportivi si ritrova minata dalla consanguineità, testimoniata da un insieme di sintomi: debolezza, indolenza, anemia, rachitismo, difetti di fecondazione e di sviluppo, mortalità nell’uovo o post natale. Gli allevatori cercano di spiegare questi sintomi con motivazioni talora strampalate, spesso fantasiose, talvolta appellandosi al paranormale, senza voler cedere all’evidenza.

Come spiegare questo paradosso? Contrariamente a quanto accade nell’allevamento condotto per finalità economiche, l’allevamento sportivo soffre relativamente poco per le conseguenze negative dovute alla consanguineità. Ne soffre solo quando si giunge a una selezione direttamente intaccata dai sintomi peggiori legati all’inincrocio spinto.

Nella valutazione di un soggetto, il Giudice fonda il suo apprezzamento su uno o sull’altro dettaglio del piumaggio, sul colore dei tarsi o degli orecchioni, sul portamento della coda o del petto, indipendentemente dal vigore, dalla fertilità, dalla resistenza alle malattie del soggetto giudicato.

Senza dubbio l’incuria degli allevatori nei confronti della consanguineità è il risultato di quello che essi pensano: nell’allevamento sportivo la consanguineità è il passaggio obbligato per giungere alla perfezione. Ma attenti! Può accadere che non sopravviva neppure uno dei pulcini nati da uno splendido gruppo!

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