Lessico
Cesare
Gaio Giulio Cesare
Caius Iulius Caesar. Condottiero e statista romano (Roma 101-44 aC). Discendente di antica famiglia patrizia, parteggiò già da giovane per le correnti popolari, anche per l'influsso esercitato su di lui dalla personalità di Mario, che aveva sposato Giulia, sorella del padre. Manifestò clamorosamente i suoi orientamenti quando rifiutò di ripudiare la moglie Cornelia, figlia di Cinna, il nemico di Silla, il quale, per tale rifiuto, lo relegò in Asia (82-78 aC).
Liberatosi fortunosamente dai pirati che si erano impadroniti di lui, rientrò a Roma dove percorse a ritmo rapido, grazie alle sue liberalità verso la plebe e con il concorso finanziario di Crasso, il cursus honorum, fino a ottenere il pontificato massimo nel 63 e la pretura nel 62. Moralmente compromesso nella cospirazione di Catilina, seppe tuttavia estraniarsene in tempo, adoperandosi poi, ma invano, per salvare dalla morte i congiurati. Dopo aver governato con abilità, pur traendone allo stesso tempo larghi profitti, la Spagna Ulteriore, nel 60 si accordò, in quello che fu chiamato primo triumvirato, con Pompeo e Crasso per l'esercizio in comune della supremazia politica.
Questo accordo gli valse da una parte il consolato per il 59, che tenne promulgando importanti leggi di riforma (tra cui due agrarie a beneficio dei veterani di Pompeo e della plebe), e dall'altra l'attribuzione, dopo il consolato, del proconsolato nelle Gallie per un quinquennio, proconsolato che gli sarà poi prorogato per altri cinque anni nell'incontro dei triumviri avvenuto a Lucca nel 56, in cambio di analoghi poteri militari concessi in Spagna a Pompeo (al quale Cesare aveva intanto dato in sposa la figlia) e a Crasso in Siria.
In otto anni di dura guerra (58-51), con una triplice campagna – contro gli Elvezi, i Belgi e gli Aquitani – Cesare conquistò tutta la Gallia, assicurandola al dominio romano. Per consolidare l'autorità di Roma, combatté vittoriosamente contro le popolazioni germaniche stanziate al di là del Reno (55) e fece due spedizioni in Britannia nel 55 e 54, tentando di soggiogare quei popoli che negli anni precedenti avevano più volte inviato aiuti ai Galli. Sarebbe riuscito certamente anche in quest'ultima impresa se non avesse dovuto far fronte a una ribellione dei Galli, i quali, superate finalmente le divisioni interne, si erano uniti sotto la guida di Vercingetorige, capo degli Arverni, contro i Romani. Con la battaglia di Alesia (52) Cesare, debellata la rivolta, poté considerare conclusa la grande impresa che, mentre dava una nuova e vasta provincia al dominio romano, assicurava la sua personale ascesa politica.
Tuttavia a Roma tanti successi furono sentiti come minaccia alla libertà repubblicana. Lo stesso Pompeo si allineò dalla parte dell'oligarchia senatoria. La rottura avvenne nel 49 quando si pretese da Cesare, quale condizione per porre la candidatura al secondo consolato promessogli a Lucca, la presenza a Roma come privato cittadino. Il conquistatore delle Gallie intuendo il pericolo di trovarsi alla mercé degli avversari, varcò in armi il Rubicone che segnava a nord il limite dell'Italia entro il quale non potevano sostare magistrati investiti di imperium provinciale.
Fu questo l'inizio della guerra civile che durò quattro anni. Preso alla sprovvista, Pompeo dovette fuggire in Grecia per raccogliervi un esercito, ma Cesare, dopo averne neutralizzato le altre forze dislocate in Spagna, lo sconfisse, nel 48, a Farsalo. Portatosi quindi in Egitto, dove punì gli uccisori di Pompeo, vi sostò qualche tempo presso Cleopatra che ripose sul trono dei Tolomei. Vinse poi nel 47 Farnace, re del Bosforo, a Zela (donde il famoso messaggio al Senato veni vidi vici), batté successivamente gli ultimi seguaci di Pompeo in Africa a Tapso (46) e in Spagna a Munda (45).
Ormai era padrone incontestato di Roma e del mondo mediterraneo. La dittatura, che nel 46 gli era stata concessa per dieci anni, gli venne ora data a vita. Ricevette inoltre la tribunicia potestas che rendeva inviolabile la sua persona. Come imperator disponeva di tutte le forze militari.
Questa somma di poteri e prerogative, che il Senato, ormai del tutto prono, ingrandì con speciali leggi, consentì a Cesare di legiferare liberamente promovendo nel giro di pochi mesi una serie di riforme: allargò i quadri del Senato, aumentò il numero dei magistrati, riformò il calendario, riorganizzò, con la Lex Iulia Municipalis, i municipi e le colonie, fondò, tra tante altre colonie a favore dei suoi veterani, quelle di Cartagine e Corinto (le città distrutte dai Romani nel 146), difese i provinciali dagli abusi dei pubblicani, contenne gli eccessi del capitale fondiario e mobiliare, stabilì un imponibile di mano d'opera libera nelle grandi aziende agricole, ecc.
La sua mira era quella di creare una grande unione politica della quale la sua persona fosse al centro, e perciò perdonò con magnanimità i suoi avversari, o addirittura li fece oggetto di benefici. Ma se in Roma esercitò il potere nel quadro delle tradizionali magistrature repubblicane, per l'Oriente reputò di dover lui stesso disporre di poteri regali, al di sopra dei re, e perciò predispose i suoi piani in tal senso. Si convinse anche che lo Stato dovesse essere modificato nelle sue strutture, con al vertice una nuova figura politica cui occorreva un fondamento di continuità, e perciò adottò il nipote Ottavio, il futuro Augusto, che mandò ad Apollonia, in Grecia, dove stava preparando la grande spedizione di rivincita contro i Parti, dalla quale, si diceva, sarebbe rientrato con l'aureola regale.
Queste innovazioni crearono disagio e timore negli esponenti dell'aristocrazia senatoria più legati alle antiche concezioni della libertà repubblicana. Anche le insegne esteriori di cui Cesare si circondò accentuarono l'avversione al suo regime personale e provocarono il formarsi di una congiura per la sua soppressione, congiura nella quale, accanto a nobili intenti, giocarono anche rivalità personali.
Il 15 marzo del 44 aC (Idi di marzo), mentre presiedeva a una seduta in Senato, Cesare fu colpito dai congiurati con 23 pugnalate, di cui una sola mortale, cadendo riverso ai piedi della statua di Pompeo.
La morte di Giulio Cesare – Vincenzo Camuccini (1798)
Il momento più drammatico della congiura contro Cesare, quando il console cade trafitto ai piedi della statua di Pompeo, è rappresentato, secondo i principi della pittura neoclassica, in questa grande tela dipinta da Vincenzo Camuccini (Roma 1771-1844). Il dipinto è oggi conservato a Napoli, presso il Museo Nazionale di Capodimonte.
La figura di Cesare va giudicata come una tra le più geniali e prestigiose dell'antica Roma, così significativa che il suo cognome divenne titolo distintivo degli imperatori romani, sopravvivendo, come sinonimo di sovrano, fino ai tempi moderni in termini come Kaiser e Zar.
Cesare fu anche uno tra i massimi scrittori della latinità. La sua opera letteraria è strettamente legata con la sua attività politica e militare.
Educato da un illustre grammatico, nativo della Gallia, Marco Antonio Gnifone, e alla scuola del famoso retore Molone di Rodi, Cesare fu celebre come oratore dall'eloquenza concreta, precisa e limpida.
da Illustrium imagines (1517)
di Andrea FULVIO (Palestrina sec. XV-XVI)
Tra le sue opere minori, di cui restano pochi frammenti, si ricordano la tragedia Oedipus, un trattatello di grammatica, De analogia, in cui sosteneva il purismo alessandrino, l'Anticato (46), libello polemico composto in risposta all'elogio di Catone Uticense scritto da Cicerone, l'Iter, un poemetto sul viaggio in Spagna.
Ci sono invece giunti completi i due capolavori di Cesare, i Commentarii de bello Gallico (Commentari della guerra gallica) e i Commentarii de bello civili (Commentari della guerra civile).
I primi sembra siano stati scritti alla fine delle vittoriose campagne in Gallia (52 o 51 aC), sulla scorta di appunti e dei rapporti via via inviati al Senato. Constano di sette libri, ognuno corrispondente a un anno di guerra (58-52). Un ottavo libro fu aggiunto da un devoto generale di Cesare, Aulo Irzio, che, narrando gli ultimi atti del governo di Cesare in Gallia nel 51 e 50, volle collegare quest'opera alla seguente, sulla guerra civile.
Anche i Commentarii de bello civili furono composti dall'autore quando ormai le operazioni militari erano concluse, nel 45, e con uno spiccato intento apologetico: quello di mostrare come egli fosse stato costretto a scendere in guerra dagli avversari, che lo avevano spogliato di ogni potere. Sono tre libri e narrano solo due anni di lotta, il 49 e il 48; la morte dell'autore ne impedì la conclusione e Aulo Irzio ancora vi aggiunse col Bellum Alexandrinum, in un libro, gli avvenimenti d'Egitto e altri, fino al 47; mentre poi gli anonimi Bellum Africanum e Bellum Hispaniense ci portano fino alla sconfitta definitiva dei Pompeiani, nel 45.
Due elementi contribuiscono al fascino di queste opere storiche di Cesare: la grandiosità delle gesta narrate e lo stile del narratore. Il De bello civili forse risente più palesemente di una necessità propagandistica, secondaria in effetti, ma pure non del tutto dimenticabile dall'autore stesso, che tratta una materia troppo incandescente, soggetta a dispute e determinante per gli sviluppi della sua politica successiva. Ma soprattutto il De Bello Gallico ci fa assistere, con una precisione di linguaggio assoluta, con una nitidezza di fantasia impressionante, con una concretezza rara di particolari, al progressivo svolgersi degli avvenimenti di una delle più grandi gesta militari di tutti i tempi. La personalità dell'artista domina il racconto con la medesima sicurezza con cui il condottiero aveva dominato i fatti in campo; lo stesso artificio di nascondersi sotto la terza persona, anziché narrare in prima persona, sottolinea l'oggettività e quindi accresce la persuasività dell'esposizione. Tanto più riescono efficaci, in queste pagine lucide, i momenti di più scoperta emozione: ma tutta l'opera, nella tensione stessa con cui la materia viene continuamente dominata, è profondamente emotiva. Né, accanto alle doti evidenti del capo, si manca di mettere in luce anche la devozione, gli eroismi e le capacità di tutti i soldati, protagonisti essi pure di questa vera epopea.
da Veterum illustrium philosophorum etc. imagines
(1685)
di Giovanni Pietro Bellori (Roma 1613-1696)