In avicoltura sportiva, più che in altri settori dell’allevamento, la consanguineità è considerata un fatto positivo anziché sfavorevole. In fin dei conti gli effetti nocivi della consanguineità sarebbero il prezzo minore da pagare al successo, e talora si giunge a tenerli celati.
Quante volte si sente ripetere:
“la consanguineità non mi fa paura”, oppure: “non sono ancora pronto a introdurre altro sangue nel mio allevamento”.
Così, la maggior parte degli allevamenti sportivi si ritrova minata dalla
consanguineità, testimoniata da un insieme di sintomi: debolezza, indolenza, anemia, rachitismo, difetti
di fecondazione e di sviluppo, mortalità nell’uovo o post natale.
Gli allevatori cercano di spiegare questi sintomi con motivazioni talora
strampalate, spesso fantasiose, talvolta appellandosi al paranormale, senza voler cedere all’evidenza.
Come spiegare questo paradosso? Contrariamente a quanto
accade nell’allevamento condotto per finalità economiche, l’allevamento
sportivo soffre relativamente poco per le conseguenze negative dovute alla
consanguineità. Ne soffre solo quando si giunge a una selezione direttamente
intaccata dai sintomi peggiori legati all’inincrocio spinto.
Nella valutazione di un soggetto, il Giudice fonda il suo
apprezzamento su uno o sull’altro dettaglio del piumaggio, sul colore dei
tarsi o degli orecchioni, sul portamento della coda o del petto,
indipendentemente dal vigore, dalla fertilità, dalla resistenza alle malattie
del soggetto giudicato.
Senza dubbio l’incuria degli allevatori nei confronti
della consanguineità è il risultato di quello che essi pensano: nell’allevamento
sportivo la consanguineità è il passaggio obbligato per giungere alla
perfezione. Ma attenti! Può accadere che non sopravviva neppure uno dei
pulcini nati da uno splendido gruppo!