Col termine di eredità atavica o atavismo, un tempo frequentemente usato in zootecnia, si intende la comparsa di caratteri non presenti nei genitori, ma che provengono dai nonni o da generazioni ancestrali più remote. I trattatisti distinguevano infatti
un atavismo di famiglia quando il carattere poteva essere rintracciato nei nonni, bisavi o trisavi;
un atavismo di razza quando il carattere proveniva verosimilmente da antenati remoti vissuti all'epoca della formazione della razza stessa;
un atavismo di specie se il carattere, decisamente aberrante (ad es. polidattilia nel cavallo) poteva essere ricondotto addirittura a specie estinte e progenitrici della specie domestica.
Galton,
nella sua teoria dell'eredità ancestrale, discusse l’esistenza di questi
fenomeni ammettendo che, per cause ignote, la parte del patrimonio ereditario
che proveniva da un antenato potesse intensificarsi fino al punto da rendersi
di nuovo visibile.
Zwaenepoel aveva notato che i fenomeni di atavismo sono
frequenti nelle razze di formazione recente e nelle popolazioni meticcie,
mentre sono rari nelle razze antiche soggette da molto tempo alla selezione.
Allo stato attuale delle nostre conoscenze è facile dare una spiegazione di
questi fenomeni: l’atavismo vero, quello cioè che si può documentare
nell'ambito di qualche generazione di ascendenti, è semplicemente dovuto alla legge mendeliana della disgiunzione,
per cui da genitori eterozigoti Aa
si possono ottenere figli omozigoti aa
nei quali ricompare appunto un carattere recessivo già presente in qualche
avo o bisavo.
Vi è poi un falso
atavismo, che consiste nella comparsa di caratteri nuovi, o
comunque di differenze fenotipiche, che dipendono da fenomeni di interazione
genica o di epistasi, che un tempo erano arbitrariamente considerati quali
espressioni di un ritorno verso caratteristiche ancestrali. Tali fenomeni, e
soprattutto quelli pertinenti ai cosiddetti atavismi di razza e di specie,
debbono essere attualmente interpretati come mutazioni di geni da domestici
- ormai fissati dalla selezione - in geni primitivi,
a comportamento dominante, e perciò di immediata espressione fenotipica.
Anche molti caratteri nuovi o aberranti, oltre che da nuove combinazioni
genotipiche, possono essere determinati da mutazioni, il che è confermato
sostanzialmente dalla rarità di queste manifestazioni ereditarie.
A certi allevatori accade che il termine consanguineità
o inincrocio rappresenti una situazione minacciosa e foriera di guai.
L’allevatore deve selezionare un certo tipo o una data prestazione, e dopo
poche generazioni deve ottenere un gruppo di soggetti che in maggioranza
presentino le caratteristiche volute. Però a questo punto la maggior parte
degli individui è imparentata e l’allevatore, conscio dei rischi derivanti
dall’inincrocio, non sa che strada imboccare. Da una parte vorrebbe
proseguire con il suo ceppo se non fosse per il rischio di degenerazioni
insite nell’inincrocio; dall’altra, ricorrendo a sangue nuovo per evitare
i danni dell’inincrocio, potrebbe introdurre nuovi geni in grado di
vanificare anni di selezione.
Da sempre la società umana ha imposto ferree restrizioni
ai matrimoni consanguinei. Chi si dedica al miglioramento delle razze
domestiche sa che incrociando soggetti imparentati rischia di ottenere
risultati sfavorevoli, soprattutto circa taglia,
fertilità e vigore, caratteristiche dalle quali il valore economico degli
animali dipende in modo diretto.
Un’infusione di sangue nuovo può far più male che bene, specie quando le qualità introdotte sono inferiori a quelle del proprio ceppo. Il problema si presentò in modo acuto in Inghilterra all’inizio del 1700, quando il miglioramento delle razze bovine e ovine richiese considerevoli sforzi.
Alcuni allevatori, incluso Robert
Bakewell (1725-1795), riconosciuto primo grande
pioniere nel campo del moderno allevamento, non esitarono a snobbare i tabù
ancestrali ricorrendo alla consanguineità. Il risultato fu un’uniformità
dei loro capi di bestiame, che suscitò l’entusiasmo dei colleghi e una
generalizzazione della pratica. Tuttavia gli inconvenienti finirono per
manifestarsi ben presto e scoraggiarono gli allevatori a proseguire su questo
cammino. Si continuò a tenere dei registri d’allevamento, a stabilire dei
pedigree e a fare un uso moderato della consanguineità per selezionare i
riproduttori migliori.
Allievo di Bakewell fu Charles Colling, creatore della Shorthorn, destinata a diventare
la razza bovina più famosa del 1800, impiegata poi per modellare altre razze.
Era un’epoca in cui non si conoscevano ancora le leggi della genetica, e
corre voce che Colling affermasse che c’erano almeno cento uomini capaci di
svolgere il compito di Primo Ministro contro uno solo in grado di giudicare i
reali meriti della sua Shorthorn.
Nell’accezione corrente, una razza è ritenuta pura
quando si riproduce identica a se stessa, indefinitamente, senza il riapparire
atavico di caratteri non distintivi. In allevamento sportivo si dice che la
razza è fissata, alludendo così al
lungo e laborioso lavoro per conseguire i risultati voluti. La genetica ci
insegna tuttavia che non si può arrivare a fissare una razza se non
aumentando la consanguineità accompagnata da un grado elevatissimo di
omozigosi. La razza pura è ottenuta al limite di questo processo, quando
tutti i geni sono allo stato omozigote. A questo punto, attraverso la
selezione, nulla è più suscettibile di modificazioni, né in bene né in
male. La razza è ben fissata.
Si può obiettare che la purezza di razza è una nozione relativa, definita attraverso un
numero limitato di caratteri scelti più o meno arbitrariamente;
la perfezione si limita a fissare caratteri così prescelti e non richiede un’omogeneità
genetica assoluta.
Sfortunatamente le tecniche di cui dispone l’allevatore
non permettono di agire sui caratteri in modo indipendente: agendo su un
carattere, si trascinano nella stessa direzione tutti gli altri. Inoltre, l’omogeneità
genetica è tanto più indispensabile quanto più elevato è il numero di
caratteri che si vogliono fissare. Nell’allevamento sportivo è grande la
tentazione di definire le razze nei minimi dettagli sotto forma di standard,
dove i caratteri distintivi sono spesso descritti con grande minuzia. In
questo caso la perfezione non può essere raggiunta che a prezzo di un’omogeneità
genetica molto spinta, ricorrendo alla consanguineità ad oltranza associata a
una selezione severa.
In pratica, non si giungerà mai al risultato voluto
perché, durante il cammino, il
vigore dei soggetti, la fecondità e la stessa vitalità non mancheranno
presto o tardi di alterarsi. Abbiamo visto che Charles Colling attraverso le
sue osservazioni, la sua intelligenza e le sue esperienze, era arrivato a
rimarchevoli risultati nell’allevamento della Shorthorn, ricorrendo alla
consanguineità, senza tuttavia perdere la qualità dei soggetti causa della
sua fama. Tuttavia, a posteriori, sulla base dei pedigree, si è potuto
stabilire che procedeva in modo tale che il tasso di consanguineità non superasse il 40%.
Un tale valore è già elevato, e non può essere ottenuto senza rischi se non
da allevatori di grande talento. Ancora, non poté evitare di fissare certi
caratteri indesiderabili, come una debole fertilità, il che spiega perché,
dopo la sua morte, divenne difficile conservare la sua linea allo stato puro.
Nell’allevamento sportivo è molto raro che questo
valore non venga oltrepassato, bastano infatti 2 generazioni di incrocio tra
fratello e sorella oppure tra padre e figlia, per raggiungere una
consanguineità del 37,5%.