Nel fegato degli anfibi e dei rettili si possono abitualmente osservare grappoli di cellule fornite di pigmento nero o marrone localizzate per lo più in vicinanza dei vasi sanguigni e nel tessuto connettivo. A differenza dei melanofori del derma, le cellule pigmentarie del fegato hanno forma globosa e non dendritica, e contengono, oltre alla melanina, anche emosiderina e lipofuscina.
Dal
momento che queste cellule non prendono origine dalla cresta neurale, sono
state a lungo ritenute dei semplici melanofagi, incapaci pertanto di sintesi
melanica.
L’iniezione intraperitoneale in rane viventi di tirosina marcata con 14C comporta un significativo incorporamento del tracciante radioisotopico sia nelle cellule melaniche della cute che in quelle del fegato, e qui si è verificato un accumulo specifico nelle cellule di Kupffer.
Si è visto inoltre che le caratteristiche delle melanine
nei due diversi distretti sono strutturalmente simili riguardo composizione e
comportamento durante la degradazione. Pertanto le cellule di Kupffer
sarebbero in grado di sintetizzare esse stesse la melanina attraverso un
percorso biochimico simile a quello dei melanofori del derma, e sono state
perciò classificate come cellule
pigmentarie extracutanee di origine istocitica
(Sichel, 1988).
In base alla capacità della melanina di intrappolare il superossido si può pensare che il pigmento presente a livello epatico possa liberare l’organismo dai radicali liberi temporaneamente generati durante i processi ossidativi.
Quanto detto vuole sottolineare l’esistenza di certe
somiglianze tra i granuli di pigmento presenti nel fegato e nel rene dei
vertebrati pecilotermi con il materiale melanico trovato nel cuore e in altri
organi di persone attempate. Se tutto ciò venisse provato, si aprirebbero
nuovi orizzonti nell’interpretazione del significato fisiologico e
patologico delle melanine presenti nei visceri.