Gli studi sulla biosintesi delle melanine ha avuto come guida lo schema di Raper-Mason, secondo cui tutte le tappe che fanno seguito alla formazione del dopachinone per intervento della tirosinasi, procedono più o meno spontaneamente senza ulteriore aiuto enzimatico.
In accordo con quest’interpretazione,
le variazioni pigmentarie della pelle e dei peli sono state prevalentemente
ascritte a differenze nella velocità di sintesi e/o di attivazione della
tirosinasi, considerata come il più importante fattore di controllo della
melanogenesi.
Esistono tuttavia delle osservazioni biologiche che depongono in favore del fatto che, nonostante la tirosinasi sia essenziale per il verificarsi della melanogenesi, non è l’unico requisito. A livello cellulare questo fatto è stato osservato nei melanociti continenti dell’occhio adulto, dove l’enzima è decisamente attivo ma non si forma melanina alcuna.
Ancora più impressionante è la relazione inversa tra
entità della melanizzazione e livello dell’attività tirosinasica in
differenti comparti subcellulari dei melanociti epidermici. In modo tipico, l’attività
più elevata è presente negli acantosomi, le coated vesicles (CV), e nei premelanosomi (PMS), mentre l’attività
più bassa è presente nei melanosomi (MS) intensamente pigmentati.
Un rompicapo è stato sempre rappresentato dal perché la
formazione di pigmento non si verifichi tutte le volte che è presente un’attività
tirosinasica. Le risposte al quesito potrebbero essere numerose, tutte con un
po’ di vero nelle conclusioni, ma la molteplicità delle risposte starebbe a
indicare che il
controllo della melanogenesi va al di là di un semplice controllo dell’attività
tirosinasica. E questo perché, una volta che il dopachinone è stato
generato, il suo destino metabolico in definitiva dipende dal contenuto in sulfidrili dei melanociti.
Pertanto, gli
enzimi capaci di influenzare lo stato ossidoriduttivo del glutatione
possono indirettamente interessare il grado di melanizzazione, anche se la
tirosinasi è normalmente espressa. Inoltre, negli ultimi anni è emersa l’esistenza
di altri enzimi e cofattori che possono giocare un ruolo critico negli ultimi
passi della melanogenesi.
La cisteina è coinvolta nella sintesi delle feomelanine e dei tricocromi. Ultimamente è stato enfatizzato il ruolo di regolazione sulla sintesi delle eumelanine da parte di composti contenenti sulfidrili, specialmente il glutatione (GSH), verosimilmente attraverso un’analogia col comportamento della cisteina, analogia che consiste in un legame covalente del GSH col dopachinone.
Esistono relazioni reciproche tra pigmentazione della pelle e livello cutaneo di GSH e di GSH reduttasi, presenti in quantità significativamente inferiori nella pelle nera rispetto a quella bianca dei Caucasici. In ultima analisi, secondo precedenti vedute si sarebbe trattato di un’inibizione della tirosinasi da parte dei gruppi sulfidrilici -SH, mentre si tratterebbe in realtà del legame del GSH col dopachinone con formazione di isomeri 5-, 2- e 6- come accade per la cisdopa quando la cisteina viene aggiunta al dopachinone.
Una
correlazione di questo tipo è molto interessante per la possibilità che le
varie cisdopa possano formarsi in vivo attraverso l’idrolisi delle
corrispondenti GS-dopa anziché attraverso l’aggiunta diretta di cisteina al
dopachinone.
Gli
enzimi necessari a questa trasformazione, g-glutamil transpeptidasi (g-GPT) e peptidasi, sono di
riscontro comune nei sistemi biologici e sono stati trovati anche nel
melanoma. Il livello di g-GPT è più elevato
nelle cellule melanotiche rispetto a quelle amelanotiche e la distribuzione
intracellulare della g-GPT
va di pari passo con quella della tirosinasi, con concentrazioni massime nelle
CV piuttosto che nei melanosomi.
L’ossidazione del 5,6-diidrossindolo a melanina in
presenza di tirosinasi viene inibita da un eccesso di GSH e si pensa che
esista la possibilità che i
composti con radicali sulfidrilici possano anch’essi giocare un ruolo nella
regolazione a vari livelli nel percorso dell’eumelanina
in punti distali rispetto alla formazione del dopachinone. Non esiste tuttavia
una prova sicura di tutto ciò.
Alcuni
ioni metallici, specialmente Cu2+,
Zn2+ e Fe2+,
sono da tempo noti per essere coinvolti nella pigmentazione melanica. Una
dieta deficiente in rame conduce a una depigmentazione dei peli di ratto,
gatto, coniglio e vitello, con reintegrazione della pigmentazione in seguito a
una dieta contenente tracce di rame. Zinco e ferro da soli sono inefficaci nel
rendere reversibile la depigmentazione, anche se la loro somministrazione
insieme al rame è talora più efficace della somministrazione di solo rame.
I
3 elementi principali per formare le melanine si trovano nell’alimentazione:
tirosina,
cisteina e rame. Numerosi allevatori hanno potuto osservare che la
qualità della colorazione melanica cresce con un’alimentazione proteica
equilibrata.
Il rame alimentare non agisce come tale, ma solo in quanto è cofattore
enzimatico. Non serve dunque aggiungere rame alla razione per migliorare la
colorazione, mentre è corretto rispettare la giusta quantità di proteine.
Solo in caso di razione carente in oligoelementi, specie in rame, un
supplemento cuprico può essere giustificato.
Il
contenuto in metalli è minore nei melanosomi (MS) rispetto ai
premelanosomi (PMS) dove la melanina è assente o molto scarsa. Ciò starebbe
ad indicare che l’accumulo di ioni metallici in queste strutture non è il
semplice risultato delle proprietà leganti delle melanine, ma che è una
caratteristica biochimica intrinseca dei melanociti e che verosimilmente si
trova sotto controllo genetico.
Quest’ultimo punto merita una futura ricerca.
L’aggiunta di acetato di zinco al dopacromo dà luogo
alla formazione di un pigmento porpora con un massimo di assorbimento a
540-560 nm tipico del melanocromo. La velocità della reazione dipende dalla
concentrazione e dalla natura del metallo aggiunto e dal pH. Il rame è il
più attivo in questo senso, provocando una conversione quasi istantanea del
dopacromo in melanocromo. Gli ioni ferroso e ferrico sono meno attivi del
rame, ma più attivi dello zinco. Prota (1988) ha potuto dimostrare che la
conversione del dopacromo in melanocromo è dovuta alla capacità degli ioni
metallici di catalizzare ognuna delle due reazioni sequenziali coinvolte,
cioè il riarrangiamento del dopacromo a 5,6-diidrossindolo e la loro
successiva polimerizzazione ossidativa a melanocromo.
La storia della dopacromo tautomerasi ha inizio nel 1980 quando Pawelek descrisse, in estratti cellulari di melanoma, la presenza di fattori regolatori capaci di influenzare la formazione enzimatica di dopamelanina dopo lo stadio di dopachinone. In definitiva si tratterebbe di un solo enzima denominato dopacromo isomerasi o, in modo più appropriato, dopacromo tautomerasi (DT), capace di catalizzare un cambiamento tautomerico del dopacromo con formazione dell’isomero più stabile DHICA o acido diidrossindolcarbossilico.
Tsukamoto
(1992) ha cercato di identificare il gene che codifica l’enzima
e, tra le proteine studiate, si trova la TRP2 dotata di omologia con la
tirosinasi. Le dimensioni della TRP2 (75-80 kDa) sono un po’ maggiori
rispetto al prodotto codificato dal locus dell’albinismo, ma la forma
purificata ha mostrato di possedere l’attività della DT. La DT è da 105 a 106
volte più potente rispetto a Cu2+
nel catalizzare la reazione di riarrangiamento del dopacromo in DHICA, ma non
è detto che l’azione ionica ed enzimatica si escludano a vicenda, anzi,
potrebbero entrare in cooperazione.
Le
perossidasi sono enzimi contenenti il gruppo eme ampiamente
distribuite in animali e piante. Le perossidasi utilizzano il perossido di
idrogeno per ossidare vari substrati fenolici, inclusi i monofenoli, gli orto
e i para difenoli nonché le amine aromatiche. In realtà questi enzimi si
comportano più da agenti deidrogenanti che da agenti idrossilanti. Secondo
gli studi napoletani, la perossidasi potrebbe agire durante un altro passaggio
critico della melanogenesi, e precisamente durante la polimerizzazione ossidativa del DHI a melanina
e potrebbe anche spiegare l’incorporazione del DHICA nel polimero, vista la
scarsa ossidabilità di questo substrato da parte della tirosinasi. Le
perossidasi potrebbero anche giocare un ruolo critico nella sintesi delle
feomelanine, agendo in particolare sulla polimerizzazione ossidativa delle
cisdopa.
A questo punto vale la pena di fare una sintesi e dettare
uno schema relativo al processo di melanogenesi mettendo a fuoco i punti
fondamentali.
Il
requisito fondamentale per la melanogenesi è la presenza della tirosinasi
che catalizza la conversione della tirosina in dopachinone. Il destino
successivo di questo prodotto intermedio instabile è il risultato della sua
reattività intrinseca di concerto con l’ambiente biochimico dei comparti
subcellulari dei melanociti posto sotto controllo genetico.
In condizioni di scarso contenuto in sulfidrili, come nei
melanociti produttori di eumelanina, la maggior parte del dopachinone viene
convertito in dopacromo che può andare incontro a riarrangiamento catalizzato
da enzimi o da ioni metallici per dare origine a DHI o/ a DHICA. La successiva
polimerizzazione a melanina di questi due indoli si associa probabilmente a
deplezione delle difese antiossidanti a livello del melanosoma, che comporta
un aumento intracellulare di ossigeno reattivo. Ne consegue un’eventuale
nascita di perossido d’idrogeno che, combinato con la perossidasi, può
portare a un’efficiente polimerizzazione sia del DHI che del DHICA.
Il
perossido d’idrogeno è inoltre responsabile del successivo crollo
ossidativo di parte delle unità di 5,6-diidrossindolo nei polimeri di
pigmento, il che giustifica l’aumentata eterogeneità molecolare delle
eumelanine naturali. Non è tuttavia chiaro se questa reazione si verifichi in
seno ai melanociti oppure dopo il trasferimento dei granuli di pigmento ai
cheratinociti. Un attacco più violento dei polimeri di eumelanina da parte
del perossido d’idrogeno può ragionevolmente spiegare la formazione di
ossimelanine, ma ciò necessita di una conferma.
La citofisiologia della sintesi feomelanica è stata
ampiamente studiata a carico della formazione della banda gialla, o aguti, che riguarda la crescita dei
peli nel topo. L’attività tirosinasica è minore durante la feomelanogenesi
rispetto all’eumelanogenesi, e i meccanismi regolatori della sintesi e del
processamento della tirosinasi differiscono nei melanociti produttori di
eumelanina e di feomelanina.
Inoltre, la
commutazione tra eumelanogenesi e feomelanogenesi
si accompagna a una spiccata riduzione del contenuto totale di melanina del
pelo. Pertanto, il livello di tirosinasi nei melanociti può costituire il
fattore critico per la commutazione del meccanismo che conduce dalla sintesi
di eumelanina alla sintesi di feomelanina.
Questa interpretazione sembra contrapporsi a quanto
rilevato da King (1978) a carico dei melanociti dei follicoli di soggetti
dai capelli rossi, dove i livelli di enzima sono più elevati rispetto ai
soggetti dai capelli scuri.
Così, se si concede che la feomelanogenesi nei follicoli
piliferi del topo segue le stesse tappe dell’uomo, dovrebbe essere evidente
che il meccanismo di commutazione non è primariamente associato con uno
specifico livello di attività tirosinasica o con una sua modificazione, ma
piuttosto con un’aumentata disponibilità di sulfidrili
nei compartimenti cellulari melanogenetici delle cellule produttrici di
pigmento come già suggerito da Prota nel 1980.
Una conferma diretta di quest’affermazione proviene dagli studi comparativi dei livelli di glutatione e delle attività enzimatiche correlate nel carapace di tartaruga e nella pelle del cavia di colori diversi (nero, giallo, rosso e bianco), come pure nella pelle del topo bianco puro (a/a) e giallo (Ay/a).
Come
atteso, i livelli più bassi di attività della glutatione reduttasi si
associano con la pigmentazione eumelanica, mentre i livelli più alti sono
presenti nei melanociti produttori di feomelanina. Ciò è in accordo con gli
studi di Cleffman (1963, 1964) che avevano dimostrato come i
melanociti produttori di feomelanina diano una reazione citochimica violenta
per i gruppi -SH liberi, per cui si potrebbe pensare che un cambiamento ciclico del livello dei sulfidrili
sia il responsabile della commutazione del meccanismo che porta alla sintesi
da eumelanina a feomelanina durante la crescita del pelo aguti del topo.
La presenza contemporanea delle due melanine in uno stesso follicolo, e quindi in una stessa piuma e soprattutto in una stessa barba, è osservabile anche nel pollo. Basta pensare alla mantellina dei soggetti dorati, Bankiva o Livorno, dotati dello stesso gene e+: le lanceolate sono rosse con fiamma nera. Altro connubio tra pigmenti è quello del disegno oro orlo nero, in cui la frangia di eumelanina circonda un’area feomelanica.
Nel millefiori si susseguono feomelanina, eumelanina e un apice apigmentato, o meglio, più corretto sarebbe dire apice apigmentato, nero, rosso, in quanto è questa la sequenza dei successivi momenti di attività melanocitaria.
Nell’Aguti
si tratterebbe di una specie di interruttore che commuta la biosintesi in seno alla medesima cellula
pigmentaria. A mio parere la situazione delle piume policrome non è molto
diversa da quella presentata dall’Aguti, in quanto il melanocita del
piumaggio produce una delle due melanine, o non ne produce affatto, come si
verifica per l’apice della piuma del millefiori.
Uno studio istochimico del pigmento rosso, dell’eumelanina e della feomelanina è stato condotto su polli di 37 allevamenti. La melanina delle piume nere si presenta sotto forma di bastoncelli, quella delle piume blu è a granuli ovali o rotondeggianti, nelle piume marrone chiaro troviamo granuli ovali solubili in acido e alcali; le piume rossastre hanno pur sempre granuli ovali, ma sono insolubili in acido e molto solubili in alcali.
Tutto ciò mostra la differente natura tra pigmento nero,
marrone chiaro e rosso. È tuttora sconosciuta l’esatta natura chimica dell’arancio
rosso e del rosso marrone, simile a quella dell’eumelanina e della
feomelanina, ma che se ne discosta per caratteristiche fisicochimiche
peculiari, dimostrabili quando peli neri e piume nere vengono sbiancati con
perossido d’idrogeno ammoniacale: essi passano attraverso uno stadio rosso
del tutto simile ai capelli rossi e al piumaggio della Rhode Island red;
inoltre in questo stadio mostrano la fluorescenza caratteristica dei capelli
rossi e delle piume di tale razza.
I principali pigmenti del pollo appartengono a 2 classi:
melanine e carotenoidi. Non dimenticheremo né i tricocromi né la guanina. Le
melanine sono responsabili della colorazione delle piume, della pelle e del
tessuto connettivo; la xantofilla
colora in giallo la pelle, l’iride, il grasso e il tuorlo. Questa due classi
di pigmenti possono interagire e generare tutta una gamma di colori a carico
dell’occhio e dei tarsi.
Nonostante le piume di parecchi Uccelli debbano il loro
colore sia alle melanine che ai carotenoidi,
nel pollo domestico son solo le melanine a pigmentare il mantello.
Presenza e distribuzione delle melanine vengono complicate dalla forma e dalla
struttura delle piume, che sono differenti nei vari distretti; si creano
inoltre complesse interazioni con fattori dovuti al sesso, all’età e talora
a differenze strutturali fra parti di una stessa piuma.
Facciamo qualche esempio. Il fenotipo selvatico
del pulcino rosso della giungla è caratterizzato da un piumino marrone a
strisce brune in ambedue i sessi, sostituito poi da piume dotate di
dicromatismo sessuale: aree rosse e nere nei maschi, mantello punteggiato di
marrone scuro e petto salmone privo di punteggiatura nelle femmine. Il maschio
della Plymouth Rock barrata quando è pulcino si presenta nero con una
chiazzetta bianca sulla nuca e non mostrerà le caratteristiche piume barrate
bianco-nere fino al piumaggio successivo; il piumaggio giovanile pluriorlato
delle femmine presenta una barratura autosomica.
Le variazioni di colore in seno a una piuma sono inoltre
correlate alle differenze strutturali fra tessitura compatta del vessillo e
quella lanuginosa dell’iporachide: classico esempio è il bianco columbia
derivato dal perniciato, caratterizzato dal bianco in superficie e dalla
sfumatura grigioazzurra dell’iporachide.
Una revisione delle attuali conoscenze genetiche sulla colorazione del piumaggio amplifica a dismisura la complessità dell’argomento a causa di interazioni intra-alleliche e inter-alleliche. Esse non si verificano solo tra le mutazioni ormai ben documentate, ma possono interessare geni e complessi di geni non ancora definiti. È talora sorprendente notare quante differenti combinazioni geniche conducano a uno stesso fenotipo.
Da quanto esposto, risulta
chiaro che l’espressione
cromatica del piumaggio è una caratteristica dovuta a parecchi geni.
Talora acquista importanza maggiore la dominanza, talora l’epistasi, talora
sono altre interazioni geniche che culminano nel fenotipo finale. Ogni disegno
e colore è il risultato di una sequenza geneticamente determinata di eventi.
Se analizziamo il fenotipo
selvatico , possiamo presumere la presenza di geni in grado di
provocare la sintesi sia di eumelanina che di feomelanina. La distribuzione di
queste due melanine pare controllata da una competizione
geneticamente determinata tra i pigmenti, per cui uno gioca a detrimento dell’altro.
L’eumelanogenesi precede la feomelanogenesi, per cui la prima decisione genetica è la distribuzione dell’eumelanina. La feomelanina pigmenta le piume laddove non sono eumelanotiche; infatti, quando viene eliminata da certe mutazioni, come l’argento, si ottiene un piumaggio bianco e nero oppure grigiastro, quindi non completamente nero.
Ambedue le melanine vengono diluite,
dando il fenotipo blu, fulvo e crema. Come risultato di mutazioni epistatiche
o di interazioni geniche si creano piumaggi parzialmente o totalmente bianchi.
Le cellule produttrici di pigmento nero si comportano in modo diverso da quelle che producono pigmento rosso.
Gli eumelanociti fabbricano rapidamente una gran quantità di vescicole cilindriche entro le quali depositano l’eumelanina, che assume forma bastoncellare prima che la cellula sia in grado di incorporarvi lo zolfo.
I
feomelanociti si comportano in modo diverso:
fabbricano un numero ridotto di granuli e con velocità minore, i granuli
hanno forma sferica oppure ovoidale e vengono immagazzinati nelle vescicole
dopo che la cellula vi ha incorporato lo zolfo.
Brumbaugh, producendo barre nere su piume rosse e barre
rosse su piume nere, stimolando o rallentando la velocità di crescita del
piumaggio, dimostrò che la
crescita rapida favorisce la produzione di eumelanina, mentre una crescita
rallentata tende a favorire la colorazione rossa.
Quest’affermazione non dovrebbe destare meraviglia negli allevatori, i quali
hanno senz’altro potuto osservare la crescita di qualche stria rossa in
piume nere di qualche soggetto che abbia avuto un temporaneo arresto di
crescita.
Sempre Cleffman aveva visto in una cultura di tessuto di
follicoli del topo aguti che i melanociti produttori di feomelanina producono
solo pigmento nero ma che ritornano a produrre feomelanina qualora si aggiunga
al mezzo nutritivo una quantità sufficiente di glutatione o di cisteina. La
quantità di composti sulfidrilici richiesta per la riconversione dipende
dalla costituzione genetica del ceppo.
Mentre l’effetto della cisteina sull’attività
sintetica dei melanociti non coinvolge alcun sistema enzimatico addizionale,
la partecipazione del GSH nella sintesi delle feomelanine è più complessa,
dal momento che richiede l’intervento di enzimi idrolitici per il rilascio
del legame del residuo di cisteina dopo l’accoppiamento del gruppo tiolico
col chinone.
A questo punto possiamo renderci conto che il sistema
pigmentario costituisce un meccanismo complesso in cui i vari ingranaggi
vengono attivati in modo sincrono oppure vengono inibiti in risposta a fattori
costituzionali oppure a situazioni contingenti. Esistono ancora parecchi
aspetti che attendono un chiarimento sia a livello biologico che chimico.
Abbiamo visto come nell’epidermide si trovino due tipi
di cellule: i cheratinociti che producono la cheratina e che desquamano, e i
melanociti i quali elaborano un particolare pigmento, la melanina. La mancanza
di questo pigmento nell’epidermide dipende o dall’assenza di melanociti o
dall’incapacità di questi nel produrre melanina, come nell’albinismo.
Nell’uomo, fra il terzo e il sesto mese di vita
embrionale, i melanoblasti migrano dalla cresta neurale alla cute. Qui essi si
stabiliscono nel derma, e in numero più elevato nello strato basale e spinoso
dell’epidermide, diventando melanociti. Si tratta di cellule del tutto
caratteristiche: infatti dal loro corpo cellulare si staccano numerosi lunghi
processi citoplasmatici che si infiltrano tra le cellule dello strato
malpighiano. Per queste loro ramificazioni vengono anche dette cellule
dendritiche. I melanociti non sono congiunti da desmosomi alle altre
cellule, non contengono tonofilamenti e non desquamano.
Nell’epidermide povera di pigmento i melanociti si
mostrano come cellule chiare e nei comuni preparati istologici non sono
evidenziabili. Si possono tuttavia mettere in evidenza per mezzo di un test
istochimico, la DOPA
reazione: con tale tecnica i melanociti si colorano in nero
poiché l’enzima tirosinasi converte la dopamina in melanina.
I melanociti mostrano un apparato di Golgi notevolmente sviluppato,
abbondante REG e formazioni
particolari, i melanosomi.