Vol. 2° -  XXVIII.3.4.

Aspetti biologici e funzionali della tirosinasi

A partire dai microrganismi, la tirosinasi è ampiamente distribuita in seno alla scala filogenetica: piante e animali, uomo incluso. I vari tipi di tirosinasi differiscono circa peso molecolare, sequenza aminoacidica e struttura proteica.

Nonostante ciò, sembra che tutte le tirosinasi si siano evolute da un antenato proteico comune contenente gli elementi strutturali essenziali per lo svolgimento dell’attività catalitica. La presenza di tirosinasi in organismi privi di melanina non ha una chiara interpretazione. Lasciamo da parte le tirosinasi di batteri e piante, per dedicarci direttamente alle tirosinasi degli animali, nei riguardi delle quali la letteratura non è abbondante come per quelle vegetali, pur essendo ampiamente distribuite in seno al regno animale.

L’elettroforesi su gel di poliacrilamide di preparazioni provenienti da tre specie strettamente correlate, Octopus vulgaris, Sepia officinalis e Loligo vulgaris, ha rivelato una singola banda di L-tirosina con peso molecolare pari a circa 205kDa per Octopus, 125kDa per Sepia e 135kDa per Loligo. Nonostante il peso molecolare diverso e la diversa mobilità elettroforetica, le proprietà degli enzimi dei cefalopodi appare parallela a quella di tirosinasi provenienti da altre fonti.

Una caratteristica che distingue le tirosinasi degli insetti è la loro frequente presenza sotto forma di pro-tirosinasi inattiva che diventa attiva attraverso una tappa proteolitica. Il proenzima di Bombyx mori, il baco da seta, consiste di due subunità di 40 kDa con un solo atomo di rame bivalente per ogni subunità, e diventa attiva grazie a una proteasi che determina il rilascio di un piccolo peptide. Situazione simile si verifica anche nella Rana pipiens e nella Rana esculenta ridibunda, in cui però il proenzima è sotto forma di dimero e l’enzima come tetramero.

La struttura proteica delle tirosinasi dei mammiferi non può essere caratterizzata agevolmente attraverso le tecniche di sequenziamento convenzionali a causa della loro scarsa concentrazione (meno dello 0,01% del contenuto proteico dei melanociti), della presenza di un’estremità N, o amino-terminale, bloccata, nonché a causa della natura pesantemente glicosilata dell’enzima che determina una spiccata resistenza agli enzimi proteolitici. A causa di queste difficoltà, le informazioni sulla struttura delle tirosinasi dei mammiferi derivano prevalentemente da cloni di cDNA melanocito-specifici che possono codificare per l’enzima. La sequenza aminoacidica così dedotta dal clone di cDNA umano ha una struttura simile a quella del topo, e consiste di 529 residui aminoacidici con peso molecolare di circa 59 kDa.

Il rame è il cofattore essenziale per l’azione catalitica della tirosinasi. Nella maggior parte dei casi il sito attivo dell’enzima contiene due atomi di rame accoppiati allo stato cuprico bivalente, avvicinati quanto basta a permettere l’interazione e l’accoppiamento antiferromagnetico del singolo elettrone presente su ogni atomo.

I ligandi di uno dei due ioni cuprici sono rappresentati da 3 residui di istidina altamente foto-ossidabili presenti nel sito attivo. Le molecole di istidina fotolabili sono state identificate come His-188, His-193 e His-289 della sequenza.

Al di là dell’inattivazione fotochimica, la tirosina soffre di un’inattivazione graduale e irreversibile col procedere dell’ossidazione del substrato. Questo processo è accompagnato dalla distruzione selettiva di un residuo di istidina, His-306, e questa distruzione si associa alla perdita di 1 g-atomo di rame per mole di enzima a inattivazione completata. Gli altri residui di istidina vengono distrutti durante la foto-ossidazione dell’apotirosinasi.

I substrati tipici della tirosinasi sono i mono e gli o-difenoli (catechols), anche se l’enzima mostra un’affinità maggiore per gli o-difenoli. Il precursore della melanina 5,6-diidrossindolo è generalmente considerato come un substrato dotato di elevata affinità per la tirosinasi. In condizioni sperimentali abituali il composto è altamente suscettibile all’auto-ossidazione, specialmente in presenza di ioni metallici, per cui diventa difficile stabilire i parametri della cinetica enzimatica.

I residui di tirosina appartenenti alle proteine possono venir ossidati dalla tirosinasi. Una caratteristica distintiva della cinetica ossidativa della tirosina e di altri monofenoli per opera della tirosinasi è un periodo di latenza, spesso definito come tempo di induzione, che precede l’avvio della reazione. Questo periodo è soggetto all’influenza di numerosi fattori che includono: concentrazione del substrato e dell’enzima, pH del mezzo, presenza di donatori di idrogeno, specialmente di L-dopa. Altri composti catechol come dopamina, adrenalina e noradrenalina, possono accorciare il tempo di latenza ma non possono eliminarlo anche se aggiunti in concentrazione elevata.

Sta di fatto che la dopa è il cofattore naturale dell’attivazione della tirosinasi in vivo, ma non essendo un aminoacido abituale il problema si sposta nel chiedersi come la tirosinasi venga attivata a produrre il suo stesso cofattore. Recenti ricerche hanno dimostrato che quantità catalitiche di ione ferroso sono in grado di attivare la tirosinasi in assenza di dopa e che l’effetto è altamente specifico per lo ione ferro allo stato ridotto, senza che venga soppresso da scavengers, o spazzini, di radicali ossigeno attraverso la riduzione nel sito attivo degli ioni cuprici allo stato ramoso. D’altro canto la tirosinasi e altri enzimi contenenti rame sono in grado di catalizzare l’ossidazione del Fe bivalente a Fe trivalente.

La velocità di idrossilazione della tirosina a dopa e quindi a dopachinone è proporzionale alla concentrazione dell’enzima in forma ridotta. In condizioni di riposo gran parte dell’enzima si trova nella forma bicuprica ed è inattivo, a meno che non sia presente un donatore di idrogeno. Questa funzione può essere svolta dalla dopa o da altri catechols che si legano alla tirosina per dar luogo alla forma ridotta attraverso un processo di trasferimento di due elettroni. Trascorso il periodo di induzione, la rapidità di ossidazione della tirosina è identica a quella della dopa, dal momento che la dopa è contemporaneamente un prodotto dell’ossidazione della tirosina, è un substrato ed è un attivatore dell’enzima.

Pochi enzimi sono stati studiati come la tirosinasi allo scopo di trovare il modo per inibirne l’azione catalitica, in quanto l’industria alimentare ha la necessità di impedire lo scurimento di diversi tipi di frutta e di vegetali soggetti ad immagazzinamento protratto. Tuttavia, lo stimolo maggiore per questo tipo di ricerche è partito dalla necessità di porre un limite alle svariate forme di disturbo della pigmentazione cutanea dell’uomo, in quanto si tratta non solo di agire sulle antiestetiche macchie marroni, sul cloasma e sul melasma, ma anche sul melanoma cutaneo. Composti sulfidrilici come cisteina e glutatione non esercitano un effetto sulla tirosinasi, in quanto si limitano far scomparire il dopachinone derivato dall’ossidazione della tirosina.

Inibitori veri della tirosinasi sono gli agenti chelanti del rame, capaci cioè di legarsi al rame presente nel sito attivo dell’enzima. Possiamo citare la mimosina, analogo alla dopa e presente in natura, e un antibiotico prodotto da un ceppo di Streptomyces. Altri esempi sono forniti dal tropolone, uno dei più potenti inibitori della tirosinasi, l’acido benzidroxamico, la feniltiourea (PTU), il dietilditiocarbamato (DDC).

Un’altra categoria di inibitori della tirosinasi appartiene agli acidi carbossilici, in base alla constatazione che l’inibizione aumenta col diminuire del pH del mezzo ambiente. Si verificherebbe un’interazione acido-base tra l’istidina del ligando a livello del sito attivo contenente rame.

Una delle caratteristiche distintive della tirosinasi, scoperta contemporaneamente all’enzima, è la tendenza ad andare incontro a rapida inattivazione durante l’attività catalitica stessa, specialmente in presenza di substrati catechol. Si ratta di uno dei primi esempi di inattivazione suicida: durante l’ossidazione aerobica dei catechols la velocità di consumo d’ossigeno decresce rapidamente a partire dal momento d’inizio della reazione, e l’ossidazione si arresta prima del completamento, a meno che non si ricorra a un largo impiego di enzima. Le ultime indagini hanno messo in evidenza la perdita di uno dei nove residui di istidina, precisamente il residuo His-306, con ogni probabilità a causa di un attacco della molecola da parte di molecole altamente reattive originate dall’ossigeno molecolare, quasi certamente da parte di radicali idrossilici OH+.

La cosiddetta attività dopa-ossidasica di Ageboom e Adam, altro non è che l’attività tirosinasica caratterizzata da un intervallo di induzione così protratto da far sì che l’enzima non sembri correlato con l’ossidazione della tirosina. In presenza di quantità catalitiche di dopa, questo periodo di induzione viene accorciato secondo un andamento logaritmico, e precisamente in accordo con il logaritmo della concentrazione della dopa aggiunta alle preparazioni sperimentali. Pertanto, la dopa può agire da catalizzatore durante il processo di ossidazione della tirosina a dopa. Inoltre, si è visto che nei tessuti di mammifero la tirosinasi purificata può catalizzare le prime due tappe di conversione della tirosina a dopa e quindi da dopa a dopachinone.

La dimostrazione che nei vertebrati la tirosina è il precursore della melanina è stata fornita da Brunet, Fitzpatrick e Kukita: iniettando tirosina marcata nel sacco vitellino al 5° giorno di sviluppo del pulcino, si è visto che la tirosina viene incorporata nelle piume dell’embrione di Minorca nera, ma ciò non accade per le piume della Livorno bianca.

La melanina neoformata è sotto forma di granuli che si presentano di color marrone in modo uniforme. La struttura dei granuli di pigmento presenti nel citoplasma dei melanociti invece non è uniforme, in quanto si trovano in vari stadi di sviluppo a seconda del momento in cui vengono osservati. Essi iniziano con l’assumere una forma vacuolare vuota, e l’etimologia di vacuolo significa appunto piccola cavità vuota. Successivamente compare del materiale sotto forma di lamelle ripiegate che rapidamente si ispessiscono per meglio definirsi grazie alla deposizione di ulteriore materiale più denso.

L’indagine al microscopio elettronico ha dimostrato che la sintesi della tirosinasi avviene sui ribosomi, da dove l’enzima viene trasferito, attraverso il reticolo endoplasmatico, ai futuri granuli di pigmento dove viene immagazzinato. I granuli di pre-pigmento così formati vengono gradualmente melanizzati fino a diventare, eventualmente, uniformemente densi, assumendo l’aspetto di particelle prive di struttura, i melanosomi, incapaci di un’ulteriore sintesi melanica e pronti a essere trasferiti in altre cellule.

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