Vol. 2° -  XXVIII.11.

NEUROMELANINA

La neuromelanina è un pigmento marrone scuro tipico dei neuroni nigrostriali del peduncolo cerebrale dell’uomo.

A partire dalle prime descrizioni di d’Azur (1786), l’interesse per questo pigmento è stato continuo per le sue possibili implicazioni nel morbo di Parkinson. La struttura della neuromelanina non è nota, e si può dire che è chimicamente differente dalle melanine prodotte dai melanociti epidermici.

La neuromelanina è presente nelle seguenti famiglie:

o  Hominoidea

o  Cercopithecoidea

o  Ceboidea

o  Lemuroidea, ma solo in un membro di questa famiglia.

La quota di pigmento contenuta nelle strutture nervose decresce nelle varie famiglie man mano che la relazione con l’uomo si affievolisce, come i carnivori e gli equidi. Animali da laboratorio come ratto, topo, cavia e coniglio, hanno una quantità scarsa oppure nulla di neuromelanina. Gli studi sul cervello umano adulto hanno dimostrato che il pigmento è presente quasi esclusivamente nei neuroni catecolaminergici coinvolti nella percezione cosciente, nei movimenti, nelle emozioni e nella memoria.

Nei neuroni intensamente pigmentati i granuli di neuromelanina sono strettamente impacchettati, dispersi nel citoplasma, e si estendono alla radice dell’assone e nella sua parte iniziale. La neuromelanina è meno abbondante nei dendriti, è assente nei prolungamenti neuronici distanti dal corpo cellulare, e manca anche nelle cellule della glia. I livelli più elevati si trovano nella substantia nigra e nel locus caeruleus contenenti concentrazioni relativamente elevate rispettivamente di dopamina e di epinefrina.

Col passare degli anni si verifica un graduale accumulo di neuromelanina nei neuroni dopaminergici, con un massimo a 60 anni, seguito da un declino durante la senescenza. In base alle osservazioni fatte nel ratto, si suppone che i neuroni intensamente pigmentati vengano di preferenza persi, per cui esisterebbe uno stretto rapporto tra sintesi-accumulo di neuromelanina e degenerazione cellulare.

Non è chiaro il motivo della riduzione della neuromelanina durante la senescenza, anche se dipende in modo evidente da una perdita selettiva dei neuroni dopaminergici, come nel morbo di Parkinson [1] .

La neuromelanina sembra essere dotata di elevata stabilità e abitualmente non viene escreta dalle cellule in cui si forma. Può essere solamente rilasciata dalle cellule in degenerazione, per essere quindi fagocitata dalle cellule della glia. Gli studi di Graham (1979) porterebbero a concludere che l’accumulo di neuromelanina ha delle conseguenze deleterie sulla biologia della cellula.

Gli studi ultrastrutturali e istochimici dei granuli di neuromelanina a carico della substantia nigra e del locus caeruleus del cervello umano indicano una somiglianza coi granuli di pigmento marrone detto lipofuscina, in quanto la neuromelanina intraneuronale presenta una morfologia lobulare grossolanamente tripartita e i granuli di lipofuscina sono bipartiti.

Ambedue i tipi di granuli sono positivi per l’attività acido-idrolasica e si pensa che rappresentino dei residui di corpi lisosomiali contenenti prodotti finali della demolizione ossidativa dei lipidi.

La neuromelanina sbiancata con perossido d’idrogeno al 10% diventa fluorescente ai raggi UV come la lipofuscina. In sintesi, si potrebbe concludere con Barden (1969) che la lipofuscina ha le proprietà della neuromelanina sbiancata e che la neuromelanina è una lipofuscina melanizzata.

In base alla capacità della neuromelanina, condivisa anche dalle eumelanine, di legare sostanze estranee e di trattenerle a lungo, si può supporre che la neuromelanina protegga le cellule circostanti da sostanze potenzialmente nocive, rilasciandole poi lentamente e in forma non tossica.

Oggetto di controversia è il ruolo svolto dalla neuromelanina nell’induzione del morbo di Parkinson e se essa sia causa oppure conseguenza della degradazione dei neuroni dopaminergici. La cronica esposizione alla polvere di manganese, come accade nelle miniere, è in grado di interessare il sistema nervoso con insorgenza di sintomi simili a quelli del morbo di Parkinson, con danno prevalente delle cellule contenenti melanina della substantia nigra, forse attraverso un’auto-ossidazione della dopamina catalizzata dal metallo e formazione di chinoni citotossici.

Dall’analisi dell’azione di altre sostanze capaci di determinare sintomi parkinsoniani, come la MPTP (una tetraidropiridina meperidinosimile), si potrebbe concludere che in ultima analisi nella patogenesi del parkinsonismo il ruolo fondamentale sarebbe giocato da un bilanciamento tra produzione e distribuzione di radicali liberi.

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[1] Il morbo di Parkinson deve il suo nome a James Parkinson (Hoxton, Middlesex, 1755 - Londra 1824). Questo medico inglese svolse la sua attività a Londra occupandosi di medicina, chimica, geologia e paleontologia. Il morbo di Parkinson consiste in un disordine attribuibile alla degenerazione del corpo striato e della substantia nigra, associata a una ridotta concentrazione di dopamina nelle aree colpite. Clinicamente si manifesta in due forme principali: forma idiopatica o paralisi agitante, che insorge nella mezza o tarda età, l’altra forma è la varietà postencefalitica che si sviluppa come postumo di un’encefalite letargica, con manifestazioni simili alla precedente, ma in cui sono frequenti anche spasmi oculogiri e demenza.