vol. 3° - IX.

L’uovo di Aldrovandi

 


15. Il colore del guscio

Dalle ricerche effettuate sotto la preziosa guida del Prof Filippo Capponi si è giunti alla conclusione che gli antichi autori, a partire da Aristotele, e tutti quanti dell'area mediterranea, davano forse per scontato che il guscio dell'uovo di gallina fosse bianco.

A questa deduzione si è giunti attraverso l'analisi del testo pliniano che ricalca fedelmente quello di Aristotele. Il Professor Capponi mi ha concesso di scrivere che questa conclusione può essere giustificata da una analogia, cioè dal fatto che anche nel piccione, forse l'animale più antico dal punto di vista domestico, il guscio dell'uovo è bianco, salvo casi eccezionali come in Columba oenas il cui il guscio possiede una leggera sfumatura crema.

Vorrei tuttavia aggiungere, senza entrare nel vivo della polemica, che semmai, stando al racconto biblico - ignorato, credo, sia da Aristotele che da Plinio - è la tortora a essere stata addomesticata per prima [1] . Ma nulla cambia, perché anche in tutte le nostre tortore - Streptopelia turtur, orientalis, decaocto e senegalensis - le uova sono bianche.

Le ricerche sul colore del guscio di uovo di gallina in Italia, e quindi nel bacino del Mediterraneo, presero il via quando agli inizi del 1997 il Professor George Carter della Texas A&M University mi pose un quesito preciso: cosa riferiva Aldrovandi circa il guscio di gallina nella sua Ornithologia?  

Fig. IX. 22 - Il Professor George Carter, qui ritratto nel 1990 quando fu insignito del Gold Medal Award, non si è limitato a lanciarmi un uovo affinché cercassi di dimostrargli che nel bacino del Mediterraneo il guscio fosse rimasto bianco perlomeno fino a tutto il XVI secolo.

Infatti, giunto alla sintesi finale delle mie deduzioni, gli proposi il mio testo non ancora tornito e lisciato: fu entusiasta dei risultati della ricerca. Allora si lasciò sfuggire queste parole, che non so se merito davvero: "I continue to admire your pursuit of the white egg problem. I consider it worth publishing and I would be glad to recommend it for publication."

Fu inutile cercare un chiaro riferimento al colore dell'uovo di gallina nella prolissa e ossessiva e quanto mai precisa Ornithologia di Aldrovandi. Forse anch'egli, come gli antichi, dava per scontato che nelle galline il guscio fosse bianco.

Di questo possiamo avere la quasi certezza da una domanda quasi angosciosa che si poneva un altro contemporaneo di Ulisse, anch’egli luminare della scienza, la cui luce sprizzava però da Padova e non da Bologna: Girolamo Fabrizi d'Acquapendente.

Il Fabrizi si domandò ripetute volte: perché il guscio è bianco? E giù a darne la spiegazione, che purtroppo quasi rasenta il filosofico e che, qualora ci lasciassimo trascinare da un’insulsa critica, ci farebbe solo sentire dei saputelli del XXI secolo.

Girolamo Fabrizi d'Acquapendente
De formatione ovi et pulli - postumo - 1621

Esisteva tuttavia nel testo di Ulisse un episodio che poteva far supporre la presenza, perlomeno in Italia, del guscio marrone già nel XVI secolo. Quando parla dei diversi modi di cucinare le uova e se siano migliori sode, fritte, à la coque eccetera, egli si sofferma per un attimo a riferire sulle uova di Pasqua, che consistevano in uova sode portate in chiesa per essere benedette e offerte al clero in occasione di tale festività.

Senza citare che fonte avesse a sua disposizione, cioè se scritta oppure orale, egli riporta telegraficamente quanto segue:

Dura ad coquendum sunt difficilia, tarde descendunt, crassiusque alimentum corpori tribuunt, quinimo et viscosum: alvum constipant, adeo ut Brasavolus referat, monachum quendam Franciscanum, cum in festo Paschatis collecta a se eiuscemodi ova alba, et rubra ad saturitatem edisset, astricto ventre, ut neque clysteribus, neque medicamentis cederet, obiisse.

Le uova sode sono più difficili da digerire, percorrono l’intestino con lentezza e procurano all’organismo un cibo piuttosto denso nonché vischioso: danno costipazione intestinale, tant’è che Brasavola [2] riferisce che a un monaco francescano, dopo aver mangiato a sazietà siffatte uova bianche e rosse che lui stesso aveva raccolto in occasione della festività di Pasqua, gli si costipò l’intestino tanto da non rispondere né ai clisteri né ai farmaci, e morì.

Se ci affidiamo al significato dell'aggettivo latino ruber - come dimostra Capponi nel suo esauriente studio – esso può significare non solo rosso come può esserlo un papavero, ma anche bruno rossiccio, quindi un colore che i geni responsabili della presenza di porfirina determinano nello strato più esterno del guscio. Non è superfluo ricordare che le tonalità prodotte dai geni della porfirina variano secondo una gamma di ben 13 colorazioni.

Carter si oppone energicamente alla possibilità che uova dal guscio marrone o rossiccio fossero presenti nell'area mediterranea prima del XIX secolo, prima cioè che giungessero in Europa le cosiddette razze asiatiche o i loro ibridi che ancor oggi, seppure in modo economicamente meno redditizio, riempiono di uova marroni gli scaffali di qualunque supermercato italiano.

Carter abbozza un'ipotesi: non si trattava per caso di uova colorate con sostanze tossiche, come avviene nel caso dell'usanza cinese di colorare un uovo sodo con cinabro che è solfuro di mercurio, sgusciarlo, mangiarne il contenuto con la sicurezza di scacciare il karma cattivo [3] ? Il monaco magari aveva mangiato troppe uova colorate in questo modo, uova che avevano magari assorbito il mercurio, o qualsivoglia altra sostanza, per cui era morto non di indigestione e costipazione intestinale, ma di avvelenamento. Carter crede che io sia contrario alla sua teoria secondo cui i geni della porfirina partirono dall'Asia solo nel XIX secolo per raggiungere l'Europa, ma ciò non è assolutamente vero, e pertanto gli preciso che sto facendo l'avvocato del diavolo allo scopo di avvalorare, se possibile, la sua tesi.

Così, una volta per tutte, sotto la guida del Professor Capponi, mi getto a capofitto a scandagliare la letteratura antica e ciò che i lessici rendono disponibile circa i termini ovum, testa e putamen, cioè uovo e guscio.

Alla fine delle ricerche il Prof Capponi mi ha autorizzato a trascrivere ciò che lui pensa su questo argomento: 

“Finora è possibile affermare che nei tempi antichi nel bacino del Mediterraneo gli antichi autori davano per scontato che nel pollo il guscio dell’uovo era bianco.”

Su cosa si basa una simile affermazione di Capponi?

Plinio cita letteralmente ciò che scrisse Aristotele:

"Ovorum alia sunt candida, ut columbis, perdicibus, alia pallida, ut aquaticis, alia punctis distincta, ut meleagridibus, phasianis, alia rubri coloris, ut cenchridi" (Naturalis Historia, X, 144)

Tradotto letteralmente:

"Alcune delle uova sono bianche come la neve, come nei piccioni, nelle pernici, alcune sono pallide, come negli uccelli acquatici, altre sono macchiettate in modo puntiforme come nei meleagridi, nei fagiani, altre sono di colore rosso, come nel gheppio [Falco tinnunculus tinnunculus]."

Tra le uova di pernice, quello più biancastro che ho trovato nell’apposito libro di Colin Harrison è di Ammoperdix griseogularis: questo uovo è color crema, forse come in Gallus gallus. Quindi, Plinio e Aristotele stanno forse sbagliando quando dicono che l’uovo di pernice è bianco neve. Neanche l’uovo di Alectoris graeca è biancastro e penso che Aristotele abbia avuto a disposizione questa pernice, il cui areale corrisponde essenzialmente alla Penisola Balcanica, pur spingendosi in alcune regioni dell’Italia.

Secondo Capponi il termine latino pallida, riferito alle uova di uccelli acquatici, sta a significare bianco-pallido, tendente al fosco, ma tralascio l’analisi delle differenti uova di questi uccelli. Sul gheppio avremo modo di soffermarci più avanti.

I dati suddetti sono gli unici disponibili sul colore del guscio dell’uovo nell’antichità. Né Varrone né Columella parlano di questo argomento.

A dire il vero in Europa esistevano uova dal guscio rossiccio prima del XIX secolo, ma per entrarne in contatto dobbiamo abbandonare le coste del Mediterraneo e raggiungere quelle dell'Atlantico. Infatti Jean Claude Périquet, nei suoi volumi dedicati ai polli francesi, ci racconta la storia della gallina dalle uova d'oro, la Marans, che depone uova di un marrone rossiccio molto intenso :

“Spesso la creazione di una razza è circondata dal mistero, dal caso o dalla confusione. Per la Marans le cose non stanno assolutamente così. Attraverso la letteratura avicola è possibile rintracciare l’itinerario di questo pollo. Questa razza porta il nome di una città portuale del dipartimento della Charente-Maritime. Il porto di Marans aveva una speciale vocazione commerciale, particolarmente del frumento. E siccome i monaci dei monasteri circostanti, peraltro abbastanza numerosi, erano spesso sottoposti al digiuno e pertanto obbligati a mangiare uova, questa regione aveva tutte le probabilità di diventare una regione avicola. Inoltre, le navi avevano l’abitudine di imbarcare polli vivi come cibo. Le stesse imbarcazioni portavano dall’Africa, dall’Asia e dall’Inghilterra altri soggetti sconosciuti in questa regione.

“A causa del matrimonio con Enrico Plantageneto duca d’Anjou (1133 - 1189) – che divenne Enrico II d’Inghilterra [4] Eleonora d’Aquitania (1122 circa - 1204) portò in dote una parte del Sudovest: Poitou, Saintonge, Aunis, Périgord, Limousin. La dominazione inglese durò due secoli. Le navi inglesi spesso facevano scalo a La Rochelle, vicina a Marans, e sbarcavano galli combattenti, talora dei sopravvissuti ai combattimenti fra galli organizzati a bordo. Si verificarono parecchi incroci fra questi combattenti e le comuni galline dell’Aunis e del Saintonge; queste galline erano piccole e nere, allevate nelle paludi. La prole di questi incroci aveva una silhouette più tarchiata e deponeva uova assai colorate. I galli da combattimento esistevano in numerose colorazioni, ciò che potrebbe spiegare le numerose attuali varietà della Marans.”

Per saperne di più sulla Marans, molto di più e in modo accattivante, vale senz'altro la pena di leggere la monografia stilata da Paolo Rasoini.

E ora torniamo al Mediterraneo per prendere in considerazione alcune razze spagnole la cui storia non è così definita come quella della Marans:

-  Catalana del Prat: questa razza appartiene all’area dei dintorni di Barcellona, ha orecchioni bianchi, è più pesante delle abituali razze mediterranee, depone uova marrone chiaro. Circa la sua origine si accetta abitualmente il fatto che i polli locali vennero incrociati con la Cocincina fulva giunta in Europa fra il 1850 e il 1880. Questa razza è stata fissata da Salvador Castelló che eliminò i soggetti dai tarsi impiumati. Ma Fernando Orozco scrive che forse i geni del guscio marrone provengono da nord, passando attraverso la catena dei Pirenei. Dobbiamo ricordare che negli incroci fra popolazioni a guscio bianco con quelle a guscio marrone l’intensità del colore del guscio è intermedia rispetto ai ceppi parentali (Hall, 1944).

-  Vilafranquina negra: questa razza di Vilafranca del Penedés – presso Barcellona – andò persa e fu recuperata a partire dal 1932 usando soggetti di quest’area dalle uova molto colorate in marrone. Orecchioni bianchi. Questa razza è una varietà nera della seguente:

- Penedesenca: razza che possiede 4 diverse colorazioni del piumaggio (nera, perniciata, frumento, barrata); le sue uova sono marrone molto scuro, gli orecchioni bianchi. Fu creata intorno al 1930.

-  Empordanesa: creata intorno al 1930 nel distretto di Empordá, presso Gerona a nord di Barcellona. Come per la Penedesenca, si iniziò con polli locali dalle uova assai colorate in marrone. Orecchioni rossi.

A me pare corrispondere al vero ciò che Fernando Orozco suppone: un arrivo da nord in una ristretta area della Spagna - la Catalogna - di geni del guscio marrone. Dobbiamo ricordare che la francese Marans fu creata non molto lontano dai Pirenei. E vorrei sottolineare che guardando nel libro di Orozco le foto delle uova di Penedesenca e di Empordanesa mi sembra di osservare lo stesso colore delle uova di Marans.

A questo punto si rende necessaria un'indagine storica sull'usanza di colorare le uova, e magari di colorare proprio le uova bianche solo in rosso. Servendomi della posta elettronica diffondo la domanda a ventaglio, raccogliendo notizie di sicuro interesse. Una prima notizia proviene dalla ricerca della Dsa Irina Moiseyeva che così riferisce:

“L’usanza di presentare uova rosse riguarda Maria Maddalena. Dopo l’ascensione di Cristo visitò Roma e presentò un uovo rosso all’imperatore Tiberio con queste parole: «Cristo ha una resurrezione». Un uovo è un simbolo di vita e il suo colore rosso è un simbolo del sangue di Cristo (Enciclopedia della Bibbia, 1991).”

Probabilmente la notizia relativa a Maria Maddalena proviene da uno scritto apocrifo slavo o da qualche scritto apocrifo non a mia disposizione. Sta di fatto che Maria Maddalena aveva promesso di recarsi a Roma e così fece, in quanto Tiberio scrisse a Pilato di averla ricevuta alla sua presenza.

Dai Vangeli della Passione e della Risurrezione - Vangelo di Nicodemo:

"Maria Maddalena disse piangendo: - Ascoltate, popoli, nazioni, e razze, e apprendete con quale morte gli empii Giudei hanno ricambiato gli innumerevoli benefici loro fatti! Ascoltate e meravigliatevi! Chi farà udire queste cose per tutto il mondo? Io, sola. Andrò a Roma, da Cesare, e gli riferirò quale delitto ha commesso Pilato, per dar retta agli empi Giudei!"

Dai Vangeli della Passione e della Risurrezione, ciclo di Pilato - Lettera di Tiberio a Pilato:

"Però, che spietatezza e durezza di cuore, la tua! Io, da quando ho udito queste cose con le mie orecchie, soffro nell'animo e mi sento sconvolgere le viscere. Si è infatti presentata da me una donna, di nome Maria Maddalena, che dice di essere una sua discepola, e dalla quale affermano che egli ha espulso sette demoni: essa testimonia che egli ha operato miracolose guarigioni […]"

Altri interessanti notizie mi vengono fornite dal Dr Mikhail Romanov:

“Cercherò di riportare alcuni commenti sulle uova dipinte che furono incriminate di dare come risultato la morte di un monaco. In effetti la pratica di colorare le uova sembra essere molto antica. Sfortunatamente non ho con me [Romanov lavorava allora al Roslin Institute di Edimburgo] l’enciclopedia biblica scritta da un archimandrita russo. Ma ricordo che ha fornito alcuni resoconti su questa antica tradizione religiosa di colorare le uova. Posso aggiungere che in Russia, per produrre uova pasquali rosse, esiste la vecchia usanza di colorarle con il rivestimento essiccato di cipolle rosso-marrone. Ciò conferisce un ricco colore bruno-rossastro al guscio quando le uova vengono cotte insieme alla tunica della cipolla. Le uova così colorate sono assolutamente sane e non velenose. Questa tradizione è oggigiorno ampiamente diffusa in Russia, Ucraina, Bielorussia e alcuni altri paesi dell’Europa orientale . Allo stesso scopo si usa talora anche la barbabietola rossa. Ma non sono a conoscenza di altre sostanze impiegate per colorare in rossiccio le uova pasquali, soprattutto, sostanze capaci di rendere le uova tossiche.”

Talora, se di un dato non possiamo avere certezza in modo diretto, è prassi affidarsi a una dimostrazione della sua veridicità ricorrendo a metodi indiretti. È quanto emerge dalla ricerca di Capponi nel Thesaurus Linguae Latinae, nel quale, alla voce ovum, vengono riportati due avvenimenti relativi alla vita di imperatori romani e che, data la loro eccezionalità, furono considerati come omina imperii, cioè presagi augurali.

Ambedue gli autori che citeremo vissero ai tempi dell’imperatore Diocleziano (284-305).

Spartianus – Vita di Geta (imperatore romano: 189-212 dC – fratello di Caracalla):

[…] statim ut natus est, nuntiatum est ovum gallinam in aula peperisse purpureum.

[…] non appena [Geta] fu nato, fu annunciato che nel pollaio della corte / che nel palazzo imperiale una gallina aveva deposto un uovo purpureo.

Lampridius – Vita di Alessandro Severo (imperatore romano: 208-235):

[…] ovum purpurei coloris […] palumbinum.

[…] un uovo di color porpora […] di piccione.

Conviene essere prudenti e non lasciarsi cogliere dall'istinto di rinnegare a ogni costo la possibilità di eventi così singolari nonostante siano di difficile interpretazione. Una soffusione ematica uniforme del guscio dovuta a trauma da parto è una motivazione troppo semplice da addurre, senza tuttavia scordare che talora la spiegazione più verosimile è quella meno cervellotica. Ma non è il caso che io mi comprometta abbozzando altre ipotesi, anche perché, a dire il vero, non ne ho più a disposizione. Inoltre, ciò che dei due eventi ci interessa è la loro eccezionalità rispetto a una regola: il guscio era scontatamente bianco.

L’aggettivo purpureus ha avuto attraverso i millenni tutta una gamma di significati e questo suo vagabondare non è certo arrivato in porto. Tanto per dirne una, mi ha reso di sasso l'essere venuto a conoscenza che nel medioevo la porpora fosse più una materia che una tinta: era porpora un tessuto di seta spessa, il quale poteva essere indifferentemente bianco o verde.

A creare le prime confusioni cromatiche ci ha pensato lo stesso Plinio nel descrivere il nostro Martin pescatore, quello euroasiatico, Alcedo atthis .

Ipsa avis [Halcyon] paulo amplior passere, colore cyanea et parte inferiore tantum purpurea, candidis admixta pinnis collo, gracili ac procero rostro. (X, 89)

L’uccello è poco più grande d’un passero, di colore azzurro scuro, e purpureo solo nella parte inferiore, il collo è variegato di penne candide, il becco è gracile e allungato.

Sfido chiunque a definire color porpora le piume che ricoprono una piccola parte della faccia e tutto il petto e l’addome di Alcedo atthis. Sono di un bel marrone carico tendente al fulvo. Come fa notare Filippo Capponi, in questo caso purpureus sta a indicare il castano rossiccio o il lionato cupo.

Ma l’aggettivo purpureus non corrisponde neppure all’attuale colore che distingue i cardinali della Chiesa Cattolica, cioè quel rosso molto brillante che prende anche il nome di rosso cardinale. Ancor oggi, nel III millennio, in campo cromatico non siamo assolutamente aggiornati e stiamo ancora parlando di porpora cardinalizia, così come in termini astronomici - senza minimamente scomporci  - diciamo ancora che il sole tramonta, quando siamo perfettamente consci che invece sono i monti a trasolare.

Solo fino al 1464 la porpora cardinalizia rimase effettivamente porpora, in quanto sino a quel momento i cardinali portavano un manto violetto e solo in quell’anno, sotto il pontificato di Paolo II, venne loro dato un mantello rosso, rosso papavero [5] , quello che oggi noi tutti conosciamo. E ancor oggi, forse a causa della potenza temporale della Chiesa nei tempi passati, quando vogliamo definire un personaggio eminente, diciamo che egli è un pezzo grosso, un grosso papavero, locuzione che si può già riscontrare nel 1623 quando L. Zuccolo scriveva: “avrebbero decimato tutti i papaveri più alti”.

Ma chissà perché – forse a causa delle persistenti ingerenze della Chiesa di Roma nella cultura italiana – l’etimologico di Cortelazzo-Zolli (C-Z) non ne dà il significato semantico. Ciò che è certo, è che né il Partito Comunista con la sua bandiera rossa né il Partito Socialista col suo garofano rosso erano già in voga nel 1623, ma il rosso cardinalizio – o papaveroide - lo era, eccome! Carenze culturali, queste, che lasciano dei black hole, dei buchi neri che solo i posteri potranno colmare se verrà loro concesso.

A onor del vero questo incarico se l’è già preso la Treccani: esiste la leggenda romana secondo cui Tarquinio il Superbo  (? – Cuma, circa 495 aC), per mostrare al figlio Sesto Tarquinio il metodo più sicuro per impossessarsi di Gabi – 20 km a est di Roma –, fece abbattere con un bastone i papaveri più alti del suo giardino, volendo con ciò significare che per raggiungere lo scopo andavano tolti di mezzo i cittadini più eminenti di Gabi. La notizia viene riferita da Tito Livio nel suo Ab urbe condita I 54.

Il C-Z non cita assolutamente questa leggenda. Alla leggenda c’è da credere, ma, visto il silenzio del C-Z, potete credete anche a me: nel 1623 i papaveri più alti erano rappresentati da quei cardinali più eminenti delle altre eminenze.

Comunque stiano le cose, verso la fine del 1300 Cennino Cennini non commetteva alcun errore quando, nel dare i consigli ai pittori su come fabbricarsi i colori, diceva di usare l’amatito, pietra fortissima e soda, per ottenere un colore cardinalesco, o ver pagonazzo [cioè paonazzo].

È necessaria una digressione su paonazzo.

L’etimologico di C-Z afferma che l’aggettivo paonazzo significa di colore bluastro o violaceo; dal latino pavonaceus: simile alla coda del pavone.

Il vocabolario di latino del Georges-Calonghi (G-C) definisce allo stesso modo pavonaceus: simile alla coda del pavone. Cita solamente Plinio, essendo probabilmente l’unico autore antico ad aver usato pavonaceus, senza però riferire in quali libri e paragrafi egli usò tale aggettivo, come invece si comporta in svariate altre situazioni.

Non so se la suddetta definizione di pavonaceus sia un assioma del G-C ripresa dal C-Z o viceversa, oppure se si tratti di un assioma che è balenato contemporaneamente agli autori dei due vocabolari.

Il vocabolario di italiano della Treccani dice che paonazzo deriva da paone, pavone, perché è uno dei colori della sua coda; come aggettivo significa colore rosso viola piuttosto scuro, come sostantivo esprime il colore viola scuro. A proposito del pavone sottolinea che le ocellature della coda sono caratterizzate da una macchia azzurra su fondo castano.

Di tre fonti, non una è in grado di guidare il lettore.

Il vocabolario del G-C è reo di non soccorrere un patito di etimologia nel suo intento di identificare il passo o i passi pliniani in cui l’aggettivo pavonaceus viene impiegato nell’unica opera superstite di Plinio, la Naturalis historia. Fortuna vuole che ci abbia pensato Bill Thayer con la sua edizione on line di questo imponente monumento al sapere che risale a due millenni fa.

L’etimologico di C-Z è forse il più colpevole dei tre, in quanto adduce il significato italiano corrente di paonazzo per poi limitarsi a dire ciò che afferma il G-C: deriva dal latino pavonaceus che significa simile alla coda del pavone.

Ne trarremmo pertanto la conclusione che la coda del pavone è tutta quanta e perennemente paonazza, il che non corrisponde minimamente al vero. Inoltre, Plinio impiegò pavonaceus per ben altri scopi, per scopi che non hanno alcun addentellato cromatico.

Credo inutile che io stia a scomodarmi per segnalare tale manchevolezza agli autori del C-Z, in quanto già in passato una promessa non venne mantenuta. Anni fa scrissi a Cortelazzo che lagoftalmo deriva dal greco lagòs, lepre, come lui giustamente affermava, senza spingersi oltre, e pertanto gli precisai che la motivazione è dovuta alle credenze antiche che immaginavano una lepre sempre all’erta, con gli occhi spalancati anche di notte mentre dormiva. Cortelazzo mi ringraziò e mi promise un aggiornamento esplicativo nella prossima edizione del suo dizionario etimologico. Sappiate che neppure il CD del 2000 è in grado di far comprendere al lettore perché mai la medicina abbia scelto questo termine per indicare una delle conseguenze della paralisi del nervo faciale, che consiste nell’impossibilità di chiudere la rima palpebrale, per cui il paziente si trova ad avere costantemente un occhio leporino.

Chi più si avvicina alla verità circa paonazzo è il vocabolario Treccani, ma anch’esso lascia aperto uno dei tanti black hole culturali. Bastava che questo vocabolario, parlando del pavone, aggiungesse un fenomeno così frequente da essere visibile anche sulle piume del comunissimo pollo, e cioè che la macchia azzurra su fondo castano delle ocellature del pavone può talora assumere una tonalità violacea a causa del generarsi di colori per interferenza, come insegna la fisica dei colori.

Ma credo che il vocabolario Treccani si sarebbe fatto maggiormente onore qualora avesse puntualizzato pochi dati ulteriori senza ricorrere alle mie lungaggini. Il Pavo cristatus - o Pavone indiano, o Pavone comune, o Paon bleu, originario dell’India e di Ceylon - è l’unica specie descritta dagli autori greci e latini, secondo i quali era uccello d’importazione proveniente dall’Oriente. Infatti cominciò la sua migrazione verso occidente circa 4.000 anni fa servendosi delle strade carovaniere per raggiungere dapprima i popoli della Mesopotamia e poi quelli del Mediterraneo.

Come giustamente afferma Capponi:

“Dal testo di Plinio non ci è dato conoscere negli individui adulti né il colore azzurro con riflessi aurati al capo, sul collo e sulla prima parte del petto, né il colore blu cupo del dorso con piume verdi splendenti con margini di color bronzo. [...] L’osservazione pliniana pare descrivere, preferentemente, ma con sufficienza, la coda.”

Ecco il passo di Plinio (X,43 e 44):

Itaque praecedent et ordine, omnesque reliquas in iis pavonum genus cum forma tum intellectu eius et gloria. Gemmantes laudatus expandit colores, adverso maxime sole, quia sic fulgentius radiant. Simul umbrae quosdam repercussus ceteris, qui et in opaco clarius micant, conchata quaerit cauda omnesque in acervum contrahit pinnarum quos spectari gaudet oculos. Idem cauda annuis vicibus amissa cum foliis arborum, donec renascatur alia cum flore, pudibundus ac maerens quaerit latebram. Vivit annis XXV. Colores fundere incipit in trimatu. Ab auctoribus non gloriosum tantum animal hoc traditur, sed et malivolum, sicut anserem verecundum, quoniam has quoque quidam addiderunt notas in iis, haut probatas mihi.

Così [tra gli uccelli di cui parleremo] verranno per primi in ordine, e fra questi, prima di tutti gli altri, i pavoni, sia per la loro bellezza che per la consapevolezza di essere belli, e per il loro orgoglio. Quando viene lodato, il pavone allarga i suoi colori splendenti come gemme, soprattutto mettendosi contro il sole, perché così risplendono con più fulgore. Nello stesso tempo, incurvando la coda a forma di conchiglia, cerca effetti di ombra per gli altri colori che nell’oscurità brillano più chiaramente e raccoglie tutte le sue penne munite di occhi e gode che questi siano visti. Lo stesso animale perde la coda ogni anno al cadere delle foglie degli alberi; allora, finché non gliene rinasce un’altra con la fioritura primaverile, se ne sta nascosto pieno di vergogna e di dolore. Vive 25 anni. Comincia a 3 anni a mostrare i suoi colori. Dalle nostre fonti questo animale viene definito non soltanto vanitoso, ma anche malevolo, come si definisce modesta l’oca; in effetti alcuni autori hanno aggiunto anche questo tipo di rilievi, che io non condivido.

L’altro pavone a noi noto ma non agli antichi e che avrebbe da tempo soppiantato il Pavo cristatus se fosse altrettanto resistente ai rigori del clima e se la sua patria fosse stata meno distante dalle antiche rotte commerciali, è il Pavo muticus o Pavone spicifero [6] , o Pavone verde, originario dell’Indocina e dell’isola di Giava. È detto pavone verde in quanto il blu è assai scarso, essendo relegato alle spalle e alle ocellature.

Non bisogna essere consulenti di vocabolari e neppure di enciclopedie o di trattati di genetica animale per definire in due parole il blu del pavone, sia comune che spicifero. Sono rimasto allibito quando Diego Arlandini - giovanissimo e appena liceale figlio di un mio carissimo collega - mi disse che il blu del pavone è un blu elettrico. Sì, azzeccatissimo: il blu elettrico, di cui mi ero quasi dimenticato, tanto di moda parecchi lustri orsono quando Diego era solo nei disegni di Dio.

Ma, ciò che Diego ha messo maggiormente in evidenza, è che nel Pavo cristatus le aree blu elettrico maggiormente evidenti - e che quindi più colpiscono l’occhio - sono quelle della testa, del collo e del petto, non certo il blu delle ocellature. Quasi contemporaneamente ci siamo ritrovati a citare le esibizioni sia cromatiche sia dello strascico di quel pavone che in questi giorni - marzo 2001 - hanno cominciato ad avvincere i telespettatori nello spot di presentazione di una nuova autovettura della Peugeot. Per un attimo, e solo alla fine dello spot, il collo e il petto di questo pavone, dapprima perennemente blu elettrico, diventano di colpo paonazzi. Poi lo spot finisce. Quindi, il pavone dello spot è diventato paonazzo per puri fenomeni di interferenza luminosa e non certo a carico dello strascico, che in quel momento il caso vuole sia nascosto e chiuso anziché aperto a conchiglia. L’ampiezza della superficie per un attimo paonazza è più che sufficiente ad attirare la nostra attenzione, senza che per raggiungere questo scopo diventino paonazze anche le ocellature, le quali, viste le loro ridotte dimensioni, si confonderebbero coi riflessi verdi dell’abbondante piumaggio circostante.

Ma i fenomeni di iridescenza responsabili del rosso violaceo a carico del piumaggio del pavone non si verificano solo nelle aree blu. E non ci vuole neppure molta pazienza per poterli osservare: basta che un pavone ci passeggi davanti con lo strascico rinserrato ed ecco che il verde, sia dello strascico che quello di altri distretti del mantello, viene a turno improvvisamente tinto di rosso violaceo. Se poi, con un po’ più di pazienza, aspettiamo che il pavone se ne stia immobile e impalato a far frusciare la sua ruota, bastano i movimenti tremuli delle penne per renderne cangianti tutti i colori.

L’unico non colpevole in tutta questa storia è Plinio, che in XXXVI,159 dice:

In Belgica provincia candidum lapidem serra, qua lignum, faciliusque etiam secant tantum ad tegularum et imbricum vicem vel, si libeat, quae vocant pavonacea tegendi genera.

Dicono che nella provincia Belgica tagliano una pietra bianca con una sega da legno e che la tagliano anche più facilmente, sia a mo’ di tegole ed embrici, e anche, se uno volesse, per tipi di coperture che chiamano pavonacee.

La pietra bianca è forse la steatite, che è una varietà bianca e compatta di talco detta anche pietra saponaria; per intenderci: quella usata dai sarti, e che coloro che hanno i capelli almeno brizzolati ricorderanno molto bene. La steatite è tanto molle da aver preso il nome dal greco stéar - genitivo stéatos - che significa grasso, adipe, sego o sevo (in latino sebum).

Le tegole romane avevano forma piatta e rettangolare: la tegola che stava più in alto ricopriva parzialmente quella inferiore, e le linee di giuntura fra i bordi laterali - che ovviamente non erano sovrapposti - venivano ricoperti dagli embrici, che consistevano in semicilindri cavi i quali avevano la funzione di impedire la penetrazione dell’imber, cioè degli acquazzoni, ma ovviamente anche della pioggia meno violenta e improvvisa.

Fig. IX. 23 - Tetto romano

In alto tegole e embrici in sezione trasversale.
In basso tegole e embrici posizionati a formare il tetto.

Secondo James Yates i pavonacea tegendi genera consistevano in un tipo di tegolato detto pavonaceus perché probabilmente le tegole erano semicircolari in corrispondenza del bordo più basso e si coprivano le une con le altre come fanno le penne nello strascico di un pavone:

“Pliny mentions a kind of tiling under the name pavonaceum, so called probably because the tiles were semicircular at their lower edge, and overlapped one another like the feathers in the train of a peacock.” (Article by James Yates, M.A., F.R.S., on pp 1098-1099 of William Smith, D.C.L., LL.D.: A Dictionary of Greek and Roman Antiquities, John Murray, London, 1875)

Sappiamo per certo che in natura le ocellature possono garantire una certa incolumità: un predatore attirato dalle ocellature della farfalla Inachis io - detta Occhio di pavone - -   - colpirà l’ala della farfalla ma non il corpo, permettendole di sopravvivere se l’aggressore si accontenta di un piccolo boccone.

Se la Inachis io riesce spesso a turlupinare un predone, stavolta le ocellature della coda del pavone hanno attirato nel tranello non solo C-Z e Treccani, ma hanno ammaliato anche James Yates.

Quindi, nell’aggettivo pavonaceus usato da Plinio non è contenuta alcuna allusione cromatica alla coda del pavone, come invece saremmo portati a credere dall’etimologico di C-Z. E su questo non esistono dubbi in quanto, innanzitutto, non possiamo mettere in discussione la preparazione ornitologica sui classici greci e latini di Capponi: sui colori del pavone Plinio è muto, come spesso gli accade quando ci aspettiamo di venire a conoscenza di altri particolari su ciò che sta descrivendo. Ma dobbiamo perdonarlo: aveva una mentalità militare dovuta, o connaturata, alla sua professione, e i militari sono spesso drastici e di poche parole. Lo denota anche il suo stile sincopato, che certo non vorremmo fosse facile alla stregua di quello di un politico come Cesare e di un oratore come Cicerone, ma almeno un po’ meno ermetico, come per fortuna lo è quello di Varrone e di Columella.

Ma c’è dell’altro, che è ben più grave: se pavonaceus non viene impiegato da Plinio in senso cromatico e men che meno per indicare un colore molto transitorio del piumaggio del pavone, pavonaceus ricorre - e solo per motivi edilizi - una sola volta in tutta la Naturalis historia.

Si tratta perciò, come dicono i tecnici, di un hápax legómenon, che in greco significa detto una sola volta.

Eppure, pur trattandosi di un hápax legómenon edilizio, Treccani e C-Z si permettono di citarlo sulla scia del G-C, il primo vocabolario deducendo - in modo indiretto - similitudini cromatiche con le cromaticamente insignificanti piccole aree blu delle ocellature della coda, e senza che il C-Z adduca - omissione quindi molto grave - il ben che minimo riferimento alle ocellature blu.

A mio avviso l’abbaglio linguistico è enorme, anche da parte di James Yates, perché, se nel Pavo cristatus vogliamo ammirare un bel tegolato uniforme costituito da tegole ben embricate e slargate nella porzione che rimane scoperta, basta osservare le piume del dorso, sia quando le copritrici della coda - o meglio dello strascico - sono in posizione di riposo, sia soprattutto quando le piume del dorso vengono sollevate da quelle dello strascico durante l’esibizione della ruota .

Se non bastasse, le ocellature sono sì nette, ma sono circondate da abbondati barbe disunite che non danno assolutamente l’idea di compattezza, necessaria a garantire a un edificio una copertura soddisfacente contro le intemperie.

Piume come quelle del dorso non sono presenti solo nel pavone. Le troviamo anche nel collo della pavonessa come dimostra la precisa iconografia di Aldrovandi, che è precisa per ambo i sessi, mettendo in evidenza anche l’embricatura perfetta e compatta del dorso del maschio, che invece al collo possiede piume fluenti e non compatte. Tali piume a foggia semicircolare, che son dette flabellate e sul cui significato non mi ripeto [Volume I, V, 4.4.], sono abbastanza comuni: si pensi al collo del Fagiano dorato e del Fagiano di Lady Amherst - rispettivamente Chrysolophus pictus e amherstiae -, a quello del Pavo muticus sconosciuto a Plinio e noto ad Aldrovandi come Pavo Iaponensis; e per noi che ci interessiamo di polli basti pensare alla mantellina del maschio di Gallus varius.

Fig. IX. 24 - Pavo nostras di Aldrovandi: cioè il Pavone nostrano, che corrisponde al Pavo cristatus. Le piume flabellate e embricate del dorso del maschio e del collo della femmina attirano subito l’occhio per la loro regolarità. Esatta anche la raffigurazione delle piume del collo del maschio. Questi soggetti furono descritti e dipinti dal vivo.

Fig. IX. 25 - Pavo Iaponensis di Aldrovandi: queste rappresentazioni di Pavo muticus  provengono dal Giappone. Furono un omaggio che il Re [sic] del Giappone [7] fece a un Papa, e il Marchese Facchinetti le ricevette in dono dallo zio paterno Innocenzo IX anch’egli bolognese e che fu Papa dall'ottobre al dicembre del 1591. Esatta la raffigurazione delle piume del collo e del petto in ambedue i sessi.

Chi invece maneggia con la dovuta cautela l’aggettivo pavonacea traducendolo con “pavonacei”, e ponendo la traduzione proprio fra virgolette, è l’edizione della Naturalis historia di Giulio Einaudi. A mio avviso l’interpretazione di pavonaceus che vi viene riportata a piè pagina potrebbe benissimo corrispondere al vero. Vista l’importanza dell’argomento, nonché l’uggiosa diatriba con cui vi ho finora intrattenuto, ritengo indispensabile citarla integralmente. Traduzione e note sono di Antonio Corso, Rossana Mugellesi e Gianpiero Rosati:

Pavonaceus, con significato architettonico, è altrimenti ignoto. Per analogia con la coda del pavone, si può proporre che esso designi il tetto conico, con file di lastre litiche disposte a raggiera e restringentisi progressivamente verso l’alto. La designazione di un tetto come «pavonaceo» rientra nell’uso di termini comunemente riferiti a uccelli con significato tecnico architettonico (cfr., ad esempio, plumula, lett. «piccola piuma», con significato di «piccola fronte» di edificio: A. W. von Buren, R. M. Kennedy, in Journal of Roman Studies, IX, 1919, pp. 59-66). Il tetto conico non è infrequente nell’architettura romana, per la sua adattabilità a coperture cupoliformi, il suo comodo inserimento in monumenti a thólos e in quanto poteva essere un esito geometrizzato della tradizione italica del tumulo (cfr., ad es., L. Crema, L’architettura romana, Torino 1959, figg. 118, 247, 263 sg., 282-84, 382 sg., 626). Plinio testimonierebbe pertanto la recezione nella Belgica di soluzioni architettoniche (tetti conici o a falde a tegole ed embrici) proprie del mondo romano, realizzato con materiali e tecniche locali (e dunque da maestranze «indigene»); il successo del tetto conico in area belga potrebbe forse dipendere in parte dalla persistenza in loco della capanna circolare.”

Nonostante Aldrovandi avesse una profonda conoscenza non solo di Plinio ma di moltissimi autori di un passato più o meno recente - tra i quali non possiamo escludere a priori Cennino Cennini - manco gli passò per l’anticamera del cervello di usare il termine pliniano pavonaceus nel descrivere i meravigliosi e cangianti colori del pavone. L’unico termine in qualche modo ricollegabile a paonazzo che Aldrovandi impiega per sottolineare il viraggio cromatico da dorato a bronzo quando il pavone compie piccoli movimenti di inclinazione, è l’aggettivo aereus:

[...] qui ante aureus videbatur, mox inclinante se paululum Pavone, aereus conspicitur.

Inoltre, sempre secondo Aldrovandi, le ocellature dello strascico sono sì affascinanti, ma c’è qualcosa che è in grado di oscurarne la bellezza e di distogliere lo sguardo dalle lunghe penne in cui sono incastonate. Premesso che il suo termine uropygium io lo chiamerei dorso [8] , ecco la frase che sottolinea una parte del mantello in cui la tegolatura delle penne è tanto perfetta da diventare il centro dell’attenzione:

Uropygium intense viret, quod una cum cauda longa erigit: cuius pennae breves sunt, atque ita dispositae, ut tanquam Draconis Aethiopici squamas aemulentur, et partem pennarum caudae longarum obscurent, ac conspectum eripiant. [9]

La tegolatura del piumaggio viene sottolineata anche nella femmina, nella quale le piume non sono paragonate alle squame del drago etiopico, ma più poeticamente vengono assimilate alle onde:

Colli pennae undatim positae virides, prope pectus in extremitatibus albae sunt.

Questa volta non voglio privarvi del piacere di essere voi stessi a tradurre il brano che segue. Non è particolarmente difficile. Oltretutto, vista la dovizie di particolari esatti, non è quasi necessario usare il vocabolario di latino. Basta avere sott’occhio una foto del pavone .

In hoc itaque genere mas toto (quod aiunt) caelo a faemina [femina] discrepat. Mas capite, collo et pectoris initio coloris est intense caerulei, vel, ut Albertus ait, saphiri [sapphiri]. Caput pro corporis portione exiguum, ac quodam modo, ut annotat idem Albertus, serpentinum, maculis ornatum duabus oblongis, candidis, quarum una oculos superequitat, altera brevior, at longe crassior subiacet, quam dein alia nigra excipit, caetero, ut dixi, caeruleum, et in vertice apicem, non ut in quibusdam aliis avibus integrum, at e nudis quodammodo scapis tenerrimis viridescentibus, in summitate eiusdem coloris veluti liliorum flores ferentibus, conspicuum. De quo pulcherrimo apice loquens Plinius [10] Pavonis apicem, inquit, crinitae arbusculae constituunt: et revera non pennae videntur, sed erumpentia primum plantarum germina.

Rostrum candicat, et insigniter hiat, in extremo aliquantulum recurvum, quale fere est omnibus granivoris, et in eo nares satis patulae.

Collum longiusculum, et proportione longitudinis, admodum tenue et exile.

Dorsum ex albo cinereum est, maculis quamplurimis atris transversalibus conspersum. Alae clausae (apertas videre non datur mihi, qui depictum ad vivum in libris meis describo) superius qua dorsum spectant, nigrae, inferius, qua ventrem atque intus pariter russae.

Cauda ita disposita est, ut quasi in duas dividatur; nam quando eam in rotam extendit, minores quaedam pennae integram veluti per se caudam constituentes, et alterius etiam coloris, nempe fusci, non ut longiores rigent, sed ut in reliquis ferme avibus extensae conspiciuntur, adeo ut longiores indubitanter alii musculo inseri necesse sit, cuius beneficio ac opera ita erigi atque extendi queant.

Hasce longas Petrus Bellonius ex superiori dorso prope podicem oriri, hoc est, ex uropygio tradit, minoresque alias a Natura factas, ut longiores sustineant.

Uropygium intense viret, quod una cum cauda longa erigit: cuius pennae breves sunt, atque ita dispositae, ut tanquam Draconis Aethyopici [Aethiopici] squamas aemulentur, et partem pennarum caudae longarum obscurent, ac conspectum eripiant. Pennae longiores extensae omnes castanei sunt coloris, lineis aureis elegantissimis sursum repentibus decoratae, in extremitate vero in intensissimi coloris viridis plumas, easque bifurcatas et Hirundinum caudam aemulantes desinunt.

Orbiculi, vel, ut Plinius vocat, pennarum oculi, vel ut Theoph. Scolasticus, oftalmòs tu pteru, ex viridi quasi chrysolithi splendore, et auri et saphiri coloribus distinguuntur. Eiuscemodi oculi quatuor circulis constant, aureo primo, secundo castaneo, tertio viridi, medium locum caeruleus seu saphirinus obtinet, figura quodammodo ac magnitudine phaseoli. Sub oculis rursus alia macula est, modo viridis, modo castanea. Mirum quomodo eiuscemodi colores ad solis splendorem varient circumagente ac seipsam admirante alite, paulatim in alios atque alios transeuntes. Nam qui ante aureus videbatur, mox inclinante se paululum Pavone, aereus conspicitur, et rursum quod ad solem caeruleum erat, ubi sub umbram sese recipit, viride quasi evadit: tantam, inquam, ad luminis vicissitudinem, pennarum ille decor varietatem admittit, de qua ita canebat Lucretius:

Caudaque Pavonis larga cum luce repleta est,  
Consimili mutat ratione obversa colores,  
Qui quoniam quodam gignuntur luminis ictu  
Scire licet sine eo fieri non posse putandum.

Poëtae pro cauda alas quandoque accipiunt, quemadmodum hoc disticho Martialis:

Miraris quoties gemmantes explicat alas,  
Et potes hunc saevo tradere dure coco.

[... nella femmina]

Colli pennae undatim positae virides, prope pectus in extremitatibus albae sunt.

Torniamo al colore cardinalesco.

I cardinali non hanno conquistato il loro attuale ambìto colore distintivo in un’unica tornata. Nel 1200 ancora una volta moltissime disposizioni cercavano di disciplinare l’abbigliamento ecclesiastico, escludendo le fogge ricercate e i colori vistosi: rosso, verde, glauco, giallo, rosato. Si trattava quindi di precetti negativi.

Nel 1200 vennero però dettati anche precetti positivi, come quello del cappello rosso per i cardinali: era il 1245 e al concilio di Lione Innocenzo IV volle dotarli di un copricapo rosso a calotta bassissima e a larghe ali piatte, fornito di un cordone terminato da una frangia a ghiande che veniva legato sotto il mento quando il cardinale andava a cavallo, copricapo che è passato nell’araldica cardinalizia. Il colore rosso fu scelto per simboleggiare la disponibilità dei cardinali a versare il loro sangue per la Chiesa, ma ebbero modo di prendere fiato prima di impegnarsi in una siffatta testimonianza, in quanto dovettero sospirare sino al novembre del 1246, quando il cappello venne effettivamente consegnato, mentre la corte pontificia si trovava a Cluny.

Per ogni fatto o idea che si rispetti esiste di norma un distinguo e talora un subdistinguo: il cappello rosso venne concesso da Innocenzo IV ai cardinali secolari, mentre ai cardinali scelti in seno agli ordini religiosi tale copricapo venne concesso solo nel 1591 da Gregorio XIV, ma essi dovevano continuare a vestire l’abito distintivo dell’ordine d’appartenenza.

Bilmeyer & Tuechle, in Storia della Chiesa, concordano sul 1245 per il cappello rosso - e dicono proprio rosso – e poi si discostano per altri versi circa il manto. Infatti essi parlano di manto purpureo, che secondo la tradizione venne probabilmente attribuito ai principi della Chiesa da Bonifacio VIII, o forse solo da Paolo II nel 1464. Ricordiamo per inciso che Bonifacio VIII fu papa dal 1294 al 1303 e che nel 1605 venne aperta la sua tomba: era vestito con tunica e dalmatica di seta nera, pianeta larga con fregio d’oro intessuto in campo violaceo, cioè porpora.

Secondo Franco Brunello – che ha commentato il trattato di Cennino Cennini – l’attribuzione del manto rosso ai cardinali risale al 1464, mentre Rosita Levi Pisetzky non ne fa assolutamente menzione. La nostra Rosita si limita a dire che un complemento dell’abbigliamento ecclesiastico, la berretta clericale – biretum di colore rosso, venne concessa ai cardinali da Paolo II nel 1464, ma solo ai cardinali appartenenti al clero secolare. Questo biretum si presentava un po’ depresso al centro dove era ornato da un fiocco. Allo stesso tempo Paolo II concedeva ai cardinali di portare lo zucchetto rosso. Lo fece per motivi di equilibrio cromatico oppure per abrogare a sé la possibilità di portare lo zucchetto bianco, a quei tempi abitualmente portato dai cardinali?

Insomma, un’altra cosa rossa, e non purpurea, viene concessa ai cardinali – biretum e zucchetto – per cui c’è da credere che Paolo II abbia contemporaneamente concesso ai suoi collaboratori qualcos’altro di rosso: il manto, come afferma Franco Brunello.

Così, l’abbigliamento del cardinale Nicolò di Rouen – quello dell’occhialino, affrescato nel 1352 – è storicamente corretto: cappello rosso e manto porpora, e renderebbe falsa la tradizione che vorrebbe Bonifacio VIII elargitore del manto rosso. Così, suona storicamente corretta anche la frase del 1623 di L. Zuccolo: “avrebbero decimato tutti i papaveri più alti”.

L’esatto, camaleontico e cangiante significato dell’aggettivo latino purpureus è uno dei seguenti: bruno, bruno scuro, rosso profondo, scuro, persino viola. In araldica il colore porpora proviene dalla miscela di lacca cremisi [11] e blu di Prussia [12] in parti uguali.

Questa mescolanza in parti uguali ci richiama immediatamente un colore arcinoto agli appassionati di fotografia che spesso sono costretti a eliminarlo in quanto, come dominante cromatica, si permette di inficiare piuttosto volentieri la bellezza degli altri colori. Si tratta del magenta, un color porpora carico dice la Treccani, venuto di moda dopo la battaglia di Magenta del 4 giugno 1859 grazie alla tinta dei pantaloni degli Zuavi che al servizio di Napoleone III collaborarono a scacciare gli Austriaci da Milano e dalla Lombardia. Ho tuttavia dei dubbi che il magenta degli Zuavi corrispondesse all’odierno magenta fotografico, ma non posseggo elementi probanti per dimostrarlo.

Posto che R = red (rosso), G = green (verde) e B = blue (blu) , posto inoltre che 255 è il valore massimo per un colore, ecco quali sono le loro quote in varie tinte secondo il software Photo Paint della Corel :

tinta

R

G

 B

magenta

255

 

255

porpora

153

 

204

porpora blu

153

 

255

porpora regale

153

51

204

porpora chiaro

204

102

255

rosso neon [papavero]

255

 

102

rosso regale

204

51

102

rosso

255

 

 

Vediamo cosa dice in merito alla porpora l’Enciclopedia Treccani. Bisogna premettere che il termine porpora deriva dal latino purpura a sua volta derivato dal greco porphýra, ma è meglio non scervellarci nel capire perché porphýra attraverso il semitico o il sanscrito stia a indicare ciò di cui ci stiamo occupando. Ciò che è certo è che la porpora deriva da uno speciale prodotto di secrezione di molluschi gasteropodi appartenenti alla famiglia di Muricidi , per i cui dettagli si rimanda alla successiva lettura storica dedicata alla porpora.

Una ghiandola della superficie interna del mantello di tali molluschi, situata presso il retto, secerne una sostanza densa bianco-giallastra di odore nauseabondo, considerata come un cromogeno incolore e denominata purpurina che sotto l’azione di un fermento - purpurasi - si trasforma in porpora, appartenente ai coloranti indigoidi. Chimicamente è il 4,4’ o il 6,6’-dibromoindaco.

La porpora, sostanza assai rara e pregiata nell’antichità, era usata per tingere tessuti. Il metodo meno raffinato era il seguente: le stoffe venivano immerse in un tino contenente i molluschi messi a bagno con acqua e lasciati putrefare, e poi si esponevano all’aria che provocava l’ossidazione della leucobase facendola diventare viola rossastro: rosso porpora o, semplicemente, porpora. Occorrevano migliaia di animali per tingere una semplice tunica. Se chimicamente la porpora è 4,4’ o 6,6’-dibromoindaco, l’indaco è uno dei sette colori dell’iride compreso fra blu e violetto e con lunghezza d’onda compresa fra 0,45 ÷ 0,42 µm .

Attenzione: la Treccani dice viola rossastro e non rosso violaceo. A me pare importante.

Insomma, il porpora è un colore dai confini imprecisati, tanto che la linguistica stenta a trovare sinonimi o equivalenze lessicali.

Non solo per la linguistica il porpora è un colore dai confini poco precisi. Innanzitutto non è un colore dello spettro visibile, bensì una sensazione prodotta dalla percezione congiunta dei due estremi dello spettro, rosso e blu-violetto. Poi, senza un’analisi spettrale, è difficile affermare se un colore è viola, e quindi presente nello spettro visibile, oppure se è porpora, dovuto cioè alla miscela di blu e rosso.

Dopo il bianco e il nero, legati alla sensazione di luminosità, il terzo colore emerso nel corso della storia delle culture umane fu il rosso, e probabilmente più il rosso del mattone che quello del papavero, tant’è che per indicare il rosso vivo fu necessario ricorrere a termini come vermiglio e scarlatto, anche se taluni usano scarlatto per porpora. Presso i Romani le stoffe tinte di porpora assursero a segno esteriore di dignità: una striscia di porpora sovrapposta alla tunica indicava, se larga (latus clavus), l’appartenenza all’ordine senatorio, se stretta (angustus clavus), all’ordine equestre. Più tardi vesti e ornamenti colorati in porpora furono prerogativa di sovrani, specialmente degli imperatori bizantini .

Si può dire che il mondo tardoantico addirittura delirava per la porpora. Nel produrla i Fenici debbono essersi arricchiti assai: un rapido accertamento fiscale può essere fatto attraverso la quantità di molluschi che raccolsero e dei quali rimangono ancora imponenti tracce. C’era un motivo ben preciso per arricchirsi a spese di chi delirava per la porpora: il suo fascino. Infatti essa è cangiante e i colori cangianti sono dotati di un fascino cui è difficile sottrarsi.

È stato proprio il suo riscopritore moderno Bartolomeo Bizio [13] ad affermare che il cangiante della porpora è dovuto all’iridescenza delle stoffe intrise del prezioso succo dei murici, iridescenza dovuta alla diffrazione della luce provocata dalle screpolature del sottile strato di colorante sulle fibre del tessuto.

Eccoci alla sintesi suprema di questa lunga peregrinazione: se un colore è iridescente, non è un colore fisso e definibile con un solo attributo cromatico, in quanto cambia col mutare dell’angolo visuale, mentre un colore non iridescente appare sempre uguale, qualunque sia l’angolo da cui viene osservato.

È ciò che accade per il piumaggio nero dei polli, che a seconda dell’angolo visuale può diventare di un verde metallico o di un viola intenso a seconda della fortuna maggiore o minore dell’allevatore. Nel caso del pollo sembra non sia in gioco la diffrazione (come per es. nell’iridescenza di un CD), bensì la diffusione di Tyndall associata all’interferenza luminosa dovuta ai granuli di melanina, un’interferenza, questa, che è in grado di generare un’iridescenza [14] .

Che Sparziano e Lampridio nella loro scelta del termine purpureus siano stati condizionati, oltre che dall’enorme pregio della porpora, anche da esigenze di corte? Infatti a partire da Diocleziano (284-305) e Costantino (280-337) la porpora divenne simbolo dell'imperatore, un attributo che culminò con la civiltà bizantina. Per il cristianesimo la porpora passò a indicare il colore del sangue di Cristo. E il sangue non è solo arterioso, ma anche venoso, e il venoso non è certo rosso brillante [15] .

16. I murici e la porpora

I fiumaroli del Nilo non avevano bisogno di avvistare le staffette che la precedevano per sapere del sopraggiungere della nave reale e pertanto dover accostare per darle il passo. Bastava loro scorgere da lontano quell’unica vela in tutto l’Egitto a essere tinta di porpora: la vela del Faraone.

Però quella vela, pur essendo un segno e un simbolo preciso della maestà egizia, non era un prodotto nazionale: come riuscire a conferire quella tinta alle stoffe solo i Fenici lo sapevano con esattezza, cioè òi Phoinikéioi, quelli dello scarlatto, dal greco phoinìsso insanguinare, fare arrossire, arrossare, imporporare.

Questo della porpora è stato uno dei brevetti e monopoli industriali meglio mantenuti e difesi di tutta la storia. Diventata più stretta esclusiva dei Fenici dal 300 aC al 150 dC, l’attività ancora persisteva all’epoca di Carlo Magno (VIII secolo), ma poco dopo andò persa. Dopo alcuni tentativi parzialmente riusciti di Réaumur nella prima metà del 1700, solo nella seconda metà del 1800 Lacaze-Duthiers riuscì a ricomprendere del tutto il procedimento, anche sulla base delle descrizioni lasciate da Aristotele e da Plinio rivelatesi abbastanza precise.

Il processo si basa fondamentalmente su due murici mediterranei, il Murex brandaris o Murex ramosus - Murice spinoso - e il Trunculariopsis trunculus o Murex trunculus - Garusolo o Murice -, cui via via, a seconda dei luoghi e dei tempi, si sono aggiunte e sostituite altre specie.

Murex brandaris/Murex ramosus/Haustellum brandaris (Linneo, 1758)

Murex trunculus/Trunculariopsis trunculus/Hexaplex trunculus (Linneo, 1758)

Lana immersa in una soluzione ottenuta da Murex trunculus

La leggenda vuole che la scoperta sia dovuta a un pastore greco che avrebbe visto tingersi di porpora la bocca del fido cane avendo questi addentato un murice sulle rive del mare: ma la reazione chimica non è così rapida, salvo si fosse trattato non di uno dei due murici bensì di una Thais haemostoma o Purpura haemostoma - Porpora -, entrata invece nell’uso un po’ successivamente, che scarica una tinta a viraggio più rapido.

Thais haemostoma / Purpura haemostoma

In effetti la scoperta del fatto che questi animali marini secernono un umore di possibile utilizzo tintorio doveva con ogni probabilità esser già avvenuta nell’ambito delle culture neolitiche occidentali, ma la prima notizia databile non va al di là del 1600 aC, relativa alla civiltà cretese nel suo culmine, all’apice del III periodo minoico medio.

Ma, come spesso accade, l’idea non finisce per essere merito di chi l’ha concepita, bensì di chi ha saputo impadronirsene per poi sfruttarla in lungo e in largo. E fu allora un popolo semita stanziato nel Mediterraneo orientale, in quella stretta fascia di terra siriaca alle pendici del Libano, cioè i Fenici, a realizzare - come s’è visto anche dal nome - il brevetto della porpora.

Non incidentalmente si trattava di un prodotto estremamente costoso, potendosi calcolare una parità media di 15 grammi di lana trattata per 1 grammo d’oro.

Né d’altro canto, così come i Fenici l’avevano progressivamente perfezionata, era una lavorazione semplice, comoda, spiccia: era invece complessa, repellente e laboriosamente protratta.

Innanzitutto era d’uopo procurarsi i murici e ammassarne delle quantità veramente immense, dal momento che ognuno di essi non dà che due o tre gocce di colorante, e in tempi recenti s’è constatato che occorre sacrificare ben 12.000 Murex brandaris per ottenerne 1,5 grammi, sufficienti a tingere appena un fazzoletto.

All’approssimarsi della primavera vi era quindi una prima fase di intensa pesca fatta con nasse la cui esca era costituita da rifiuti di cucina, macelleria e pescheria, e che a seconda dell’andamento poteva durare anche una settimana o più, nel cui frattempo ci si preoccupava di mantenere vivi i murici via via catturati, “…perché se muoiono anticipatamente essi vomitano al tempo stesso l’umore. Vengono perciò custoditi nelle nasse fino ad averne riuniti moltissimi e fino a tanto che s’abbia il tempo di occuparsene con cura.” (Aristotele, Hist. Anim., V, 15).

Occuparsene con cura consisteva nel procedere all’estrazione del prezioso umore e al suo immediato utilizzo, operazione che una volta intrapresa andava portata a termine in catena, tutta di seguito e con cadenze esatte, pena l’irreparabile compromissione del risultato finale.

Il prodotto colorante è il secreto della ghiandola ipobranchiale, che è una vescichetta traslucida ramificata posta dietro al collo, fra l’estremità terminale dell’intestino e gli organi branchiali di questi animali chioccioliformi. I molluschi di taglia minore venivano pestati tutt’interi raccogliendone il relativo liquame, per i più grossi spaccandone in parte la conchiglia si riusciva a praticare direttamente il prelievo della sola saccoccina del muco. Quest’ultimo, che appena cavato è d’una densa cremosità viscosa e bianchiccia, in seguito dell’azione combinata della luce solare e dell’ossigeno atmosferico in una decina di minuti si trasmuta, divenendo dapprima giallognolo, quindi citrino, poi verdastro, poi ancora turchino e infine purpureo. Mentre ciò avviene, se ne sprigiona un’esalazione intensa, viva e penetrante, paragonabile a un misto di essenza d’aglio e vapori di bromo, con una punta d’assafetida [16] .

Per tre giorni i liquami e le vescicole venivano conservati in acqua salata e successivamente fatti bollire in calderoni di stagno o piombo: nel liquido così approntato si tenevano immerse per circa 5 ore le fibre tessili da tingere, cui seguivano l’asciugatura e la cardatura.

Quand’ebbero sviluppato al massimo questa loro industria verso il III secolo aC, le colorazioni che i Fenici furono capaci di ottenere variavano dal violaceo ch’era stato il più antico, al livido, al purpureo, al bruno, spaziando inoltre su molte sfumature di tali quattro toni fondamentali. L’ametistino, per somiglianza con la pietra [17] dotata di virtù contro l’insipienza e contro l’ubriachezza, era il più apprezzato nella prima età imperiale romana.

Per ottenere tali sfumature si concentrava, accelerava, rallentava e/o ripeteva l’una o l’altra fase di lavorazione, eventualmente con aggiunte e trattamenti a base di calce o urina, oppure usando esclusivamente un’unica specie di mollusco o particolari proporzioni di specie diverse: tanto Murex brandaris che Thais haemastoma - altro muricaceo presente in Mediterraneo - tendono più spiccatamente al viola.

Al trattamento veniva sottoposta principalmente la lana, ma rispondevano bene anche il lino, la seta e il cotone. A parte la tinta smagliante, ciò che rendeva simili stoffe ancor più pregiate era la tenace indelebilità, constatandosi che non le alterava il dardeggiare del sole, che anzi aveva avuto la sua parte esecutiva, né le scolorivano i ripetuti lavaggi, né offrivano al tempo una naturale decadenza, tutt’altro, addirittura acquistando in intensità cromatica.

Una riprova ad altissimo livello la si era avuta quando nel 331 aC Alessandro Magno, vinte le ultime forze persiane, conquistò Ecbatana, Persepoli, Babilonia e Susa dove metteva le mani sul tesoro di Dario I il Grande di cui facevano parte non meno di 4.000 mine - cioè 2 tonnellate - di tessuti porporini ancora vividi e brillanti anche se erano trascorsi più di due secoli da quando erano entrati a far parte del tesoro e da quando erano stati prodotti. Se non bastasse, dopo oltre due millenni nei musei si possono ancora ammirare mummie le cui bende pervicacemente porporine denunciano chiaramente le loro origini malacologiche.

Alle analisi moderne la muresside, che è il principio colorante contenuto nelle ghiandole ipobran­chiali dei murici - più correttamente dette adrettali -, si è rivelata solubile in acqua solo nel corso delle transcolorazioni, mentre non lo è più una volta stabilizzatasi sulla tinta finale, neanche in soluzioni acide o alcaline, ma è attaccabile solo da composti come cloroformio, alcol vinilico bollente, acido acetico glaciale e fenolo.

Come abbiamo già detto, si tratta di 4-4’ o di 6-6’-dibromoindaco, entrambi correlati all’indaco, il colorante che si ricava dalle foglie di piante indiane appartenenti alle leguminose, prima fra tutte l’Indigofora tinctoria, oppure da piante erbacee annuali presenti nel bacino del Mediterraneo appartenenti alle crocifere, come l’Isatis tinctoria, e che nel regno animale, salvo casi patologici, si rinviene solo nei molluschi; nella cui versione ci sono due atomi di bromo al posto di due di idrogeno e il cui fetore è legato alla presenza di mercaptani.

Un’altra serie di componenti del succo ipobranchiale dei murici, gli esteri della colina, altamente tossici per crostacei e pesci su cui esplicano un’azione curarizzante ma innocui per i mammiferi, sono di estrema utilità per i murici: per la difesa soprattutto delle uova che vengono deposte come in favi impregnandone man mano le capsule col secreto ipobranchiale, tanto da tenere lontani i predatori.

C’è una sfumata annotazione di Aristotele in merito: “Allorché i murici depongono il favo delle loro uova, il loro colorante risulta di pessima qualità”, essendosene dunque estenuata la consistenza.

Estenuante fu pure la ricerca da parte dei Fenici di sempre nuovi banchi di murici da utilizzare man mano che lo sfruttamento intensivo li esauriva: accreditata è l’ipotesi storica che in una prima fase essi abbiano intrapreso ed esteso le loro navigazioni in quanto spinti dal bisogno di trovare nuove zone di pesca per i murici. Ne restano le sterminate distese di conchiglie frantumate che si son lasciati dietro in una trentina di località mediterranee, come a Tiro (Virgilio: «Tyrioque ardebat murice lana»), a Sidone (sottovento, come altrove, perché i miasmi non arrivassero in città), ad Aquileia, nonché tutto quanto il monte Testaceo di Taranto, costituito da questi fossili protoindustriali.

Fuori dal Mediterraneo, si sa che i Fenici coi loro viaggi nelle isole Britanniche importavano una porpora nera che veniva infatti ricavata analogamente da un altro muricaceo, la Nucella lapillus o Purpura lapillus, di cui si son trovati, ad esempio in Irlanda, tipici immensi cumuli databili un millennio aC. Gli antichi Britanni usavano la tinta della Nucella non solo per gli indumenti, ma anche per i tatuaggi. Meno raffinato, l’utilizzo tintorio della Nucella per le stoffe si è mantenuto più a lungo in Inghilterra e in Scozia sino al XIX secolo. Prima dell’invenzione della stampa era un ottimo e duraturo inchiostro per dipingere i manoscritti miniati. Nell’Europa nordorientale e poi anche in Nuova Inghilterra questo stesso inchiostro veniva usato a buon mercato nelle lavanderie per marchiare indelebilmente la biancheria dei vari clienti.

Nelle Americhe, filati tinti con la porpora sono stati trovati in tessuti d’epoca precolombiana in Messico e in Perù, e altrettanto antichi documenti messicani riportano scene dipinte con la porpora illustranti nobili dame e dignitari militari che ne erano abbigliati.

Infatti i conquistadores trovarono che gli Amerindi delle coste occidentali dell’America centrale e del Sudamerica, dal Nicaragua al Costarica e Panama e Colombia, producevano una stoffa di pregio, fatta di fibre d’agave tinte di un’intensa e cupa porpora ricavata con lo stesso sistema dei calderoni fenici dal muricaceo locale Purpura patula pansa. Questo della porpora americana precolombiana è uno degli argomenti meno fantastici e più concreti degli etnologi (riscoprire che il murice tinge è facile, rimettere in piedi lo stesso procedimento d’estrazione e tintura assai meno), i quali vedono un arrivo dei Fenici nelle Americhe molto prima di Colombo.

17. Ai tempi di Aldrovandi in Italia il guscio era bianco

Ed eccoci finalmente di nuovo ad Aldrovandi, il quale, senza intenzione alcuna, ci fornisce in modo indiretto la prova che il guscio, ai suoi tempi, era bianco, perlomeno in Italia. Dobbiamo ricordare che quando la prima moglie di Aldrovandi morì, egli si recò a Ravenna e collezionò diversi tipi di marmi orientali. Quindi, se mai avessimo dei dubbi sulla sua cultura, egli non era assolutamente ignaro circa i differenti colori che questa pietra poteva possedere. A un certo punto, quando parla delle galline che depongono, così scrive:

Libentius vero, et commodius pariunt, cum iam prius ovum in nido conspiciunt: quamobrem cum aliqua ova tam propria quam aliena exorbent [exsorbent], aliqui marmor, vel similem lapidem candidum ad ovi similitudinem efformatum nido imponunt.

Depongono più volentieri e meglio se già prima vedono un uovo nel nido. Per cui, quando divorano qualche uovo sia proprio che altrui, alcuni piazzano nel nido del marmo oppure una pietra candida analoga foggiata a uovo.

E il marmo di Carrara possiede il candore della neve, tanto che le Alpi Apuane da cui viene estratto sembrano ammantate da nevi perenni. Ma subito dopo questa frase Aldrovandi ci propina un vero rompicapo:

Ovum autem cum perfectum est, et monstrositatis expers, bicolor est, forma tereti, et pene sphaerali.

Quando l’uovo è completato e privo di anomalie, è bicolore, di forma arrotondata e quasi sferica.

Ovviamente un tale uovo bicolore è un uovo del tutto normale, essendo anche arrotondato e quasi sferico. Inoltre si tratta di un uovo privo di anomalie, per cui è proprio normale. A questo punto possiamo avventurarci in tre supposizioni:

1.  bicolor = di due colori, significa iridescente, come accade per le foglie del mirto (Ovidio)

2.  bicolor è riferito sia al bianco del guscio che all’albume, essendo l’altro colore il giallo del tuorlo

3. in tipografia dal manoscritto di Aldrovandi trascrissero bicolor invece di unicolor (Alessandro Ghigi aveva intenzione di pubblicare un manoscritto di Aldrovandi - Syntaxis animalium et plantarum – ma desistette perché la sua interpretazione era piuttosto ardua).

Avremmo bisogno dell’autorità di uno specialista e così pure del confronto col manoscritto per affermare che bicolor equivale a unicolor, anche se dobbiamo nuovamente ricordare che gli errori tipografici sono abbastanza frequenti nell’edizione originale dell’ Ornithologia.

Abbiamo però a disposizione un altro riferimento al colore del guscio e precisamente l’abbiamo già incontrato al momento di dissertare sulle uova deposte dai galli, quando Aldrovandi descrive il colore di un cosiddetto uovo che aveva osservato direttamente.

La frase di Aldrovandi che un tale uovo “infatti era quasi completamente bianco, anche se nella parte centrale c’era un qualcosa di giallastro” è riferita alla parte interna dell’uovo, che si presentava bianca con una chiazza gialla dovuta a una piccola quantità di tuorlo (o, magari, a qualche inclusione giallastra).

Questa frase potrebbe dissolvere il rompicapo sul perché un uovo completo è bicolor: è bicolor perché è bianco a carico del guscio e dell’albume (d’accordo, l'albume non è bianco ma appena giallino e diventa candido con l’ebollizione), mentre è giallo a carico del tuorlo.

Se per caso il guscio fosse stato marrone, Aldrovandi avrebbe scritto che un uovo normale e ultimato è tricolor, non bicolor. Infatti il colore giallo è nettamente diverso dal marrone. E c’è di più: riferendo il colore delle diverse uova di gallo che vide, per descrivere uno strano colore del guscio delle stranissime uova che aveva osservato egli usa solo diversi sinonimi del giallo.

Questa lunga dissertazione non avrebbe avuto modo di esistere se Aldrovandi, mentre affermava che ovum autem cum perfectum est, et monstrositatis expers, bicolor est,[…], avesse fatto un accurato e preciso riferimento ad Aristotele.

Infatti Aristotele in De generatione animalium, libro III, capitolo 1, scriveva:

"Tra gli ovipari gli uccelli emettono un uovo compiuto e con l'involucro duro, qualora non vi siano menomazioni causate da malattia, e le uova degli uccelli sono tutte bicolori."

Ma lo stesso Aristotele in Historia Animalium - libro VI, capitolo 2 - già scriveva:

"L'uovo di tutti gli uccelli ha sempre un guscio duro - se risulta da una fecondazione e non è guasto, perché certe galline depongono uova molli - ed è bicolore, risultando bianco alla periferia, giallo all'interno."

È chiaro che Aristotele si riferisce al contenuto del guscio: albume e tuorlo. Infatti al capitolo 10 afferma:

"L'uovo dei pesci non ha mai due colori ma sempre uno solo, più verso il bianco che verso il giallo, sia nella prima fase sia quando vi è presente l'embrione."

E questa volta dobbiamo lodare Plinio che è particolarmente chiaro ed esplicito, più esplicito di Aristotele dal quale trae il paragrafo 144 del libro X, e quindi più esplicito di Aldrovandi:

"Intus autem omne ovum volucrum bicolor, aquaticis lutei plus quam albi, id ipsum magis luridum quam ceteris; piscium unicolor, in quo nihil candidi." (All'interno, ogni uovo di uccello è bicolore, etc.).

Quindi, possiamo dedurre per ben due motivi e in modo indiretto che secondo Aldrovandi il guscio dell’uovo di gallina era abitualmente bianco e che egli dava questo fatto per scontato, come lo era anche per gli antichi autori.

Tra poco questa lunga analisi avrà termine. Tuttavia, per dovere di precisione, vorrei far notare che forse sia Aldrovandi che gli antichi non erano maniacali come noi nel voler descrivere a tutti i costi e con precisione il colore del guscio dell'uovo dei vari uccelli.

Forse una ragione sta nel fatto che la genetica era ancora lontana, come lontane erano le galline asiatiche dal guscio marrone, come lontanissima era l'Araucana col suo guscio verde o azzurro , colori tutti che ci terrebbero attaccati a una tavola rotonda per giorni e giorni se volessimo ricostruirne il curriculum vitae.

Col poco materiale di Aldrovandi a mia disposizione ho tuttavia voluto vedere cosa egli dice del guscio del cigno, che in base all'iconografia è verosimilmente il cigno selvatico, Cygnus cygnus, le cui uova sono di un bel rosa crema. A questo proposito egli dice solamente: "Ova eius sunt magna, oblonga, testa dura obtecta." Le sue uova sono grandi, allungate, ricoperte da un guscio duro.

Ho scartabellato anche la quaglia (De coturnice Latinorum), il pavone nostrano (Pavonis nostratis descriptio), il pavone giapponese (Pavo iaponensis), il tacchino (Gallopavo), l'anatra muta (Anas cairina), l’Anas lybica (Cane de la Guinee), la polimorfa anatra indiana (Anas indica).

Ecco i risultati:

Nessun accenno alle caratteristiche dell'uovo per tacchino, pavone giapponese, anatra muta, anatra indiana.

Coturnix Latinorum: "Pariunt autem ova numero sexdecim corvinis ovis similia." Depongono sedici uova simili a quelle del corvo. Senza voler sottilizzare, l'indicazione corrisponde al vero in quanto in Coturnix coturnix e nei vari Corvus europei le uova sono assai simili.

Pavo nostratis: quanto segue riguarda l'usus in externis e si riferisce senza dubbio al tuorlo "Ova si credimus Kianidi [Kiranidi], ad aureum colorem rebus inducendum conferunt." Le uova, se prestiamo fede a Kiranide [18] , contribuiscono a conferire un colore dorato alle cose.

Anas lybica: la notizia riportata da Aldrovandi è tratta da Julius Caesar Scaliger [19] "Ova tamen unicoloria sunt, nullis interpuncta notis." Le uova sono di un colore uniforme senza alcuna chiazzetta.

Lo stesso atteggiamento impreciso nei confronti del colore del guscio è toccato senza dubbio anche alla gallina. Chissà se Buffon, qualora Aldrovandi avesse descritto il colore dell’uovo di gallina in tutti i particolari, avrebbe tacciato il nostro Ulisse di ulteriore pedanteria!

Sta di fatto che l'atteggiamento degli studiosi nei confronti del colore guscio di qualsivoglia uccello si è snodata nei secoli in modo piuttosto concorde. Abbiamo visto che gli unici dati del passato provengono da Aristotele, ripetuti pari pari da Plinio: "Ovorum alia sunt candida, ut columbis, perdicibus, alia pallida, ut aquaticis, alia punctis distincta, ut meleagridibus, phasianis, alia rubri coloris, ut cenchridi" (N. H. X, 144)

Spingendoci Oltralpe, neppure a Gessner è balenata l'idea di dover accennare al colore del guscio dell'uovo di gallina.

18. Il colore del guscio Oltralpe

Parlando della Marans abbiamo già visto che l’Europa non fu immune dai geni del guscio marrone in tempi antecedenti a quelli di Aldrovandi e che a proposito delle razze dei dintorni di Barcellona dotate di questa caratteristica genetica Fernando Orozco scrive che forse i geni del guscio marrone sono giunti da nord passando attraverso la catena dei Pirenei.

Un riferimento sicuro circa il colore del guscio in Europa sul finire del 1700 lo troviamo nei Praecepta diaetetica di Gottlob Richter in chiusura del capitolo che tratta delle proprietà alimentari e terapeutiche dell’uovo. Ecco cosa dice:

Minoris momenti res est, praeferre albissima pallidioribus, oblonga rotundioribus, post coitum edita subventaneis.

È cosa di irrilevante importanza preferire quelle bianchissime a quelle meno bianche, quelle affusolate a quelle più rotondeggianti, quelle deposte dopo un coito a quelle non fecondate.

Richter era tedesco, era archiatra del re di Gran Bretagna, era professore di medicina a Gottinga. Ma non parla di uova marroni. Si limita a dire che è la stessa cosa usare uova dal guscio bianchissimo o un po’ meno bianco. Scriveva nel 1789.

Non posso tuttavia tacere che Richter in quello stesso anno era ancora incapace di operare una distinzione fra tacchino e faraona, cadendo in una gran confusione quando parla dell’effetto terapeutico dei Gallos Indicos seu Calecutenses, galli indiani o di Calicut. Forse non aveva mai visto tacchini e faraone. Ma ritengo verosimile che nell’arco della vita abbia mangiato almeno qualche uovo di gallina. Salvo gliele sgusciassero!

Tuttavia, nonostante il conforto derivante da Richter su una presenza, perlomeno prevalente, del guscio bianco nell'Europa del 1789, manca ancora una tessera per completare il mosaico e avere la certezza che le uova rosse del monaco morto di indigestione fossero uova dipinte e non uova tipo Marans: bisogna cioè essere certi che anche in Italia, sulla scia della leggenda di Maria Maddalena e sulla scia della tradizione ortodossa, a Pasqua si portassero in chiesa uova sode colorate in rosso.

Ho interpellato Padre Picasso, docente di Storia della Chiesa presso l'Università Cattolica di Milano. Mi ha risposto che il reperire una testimonianza di una siffatta tradizione è estremamente difficile, ma che comunque ritiene possibile che le uova pasquali portate in chiesa potessero benissimo essere uova cui era stato dato il colore del sangue di Cristo, mentre le altre, quelle lasciate bianche, significavano la luce divina.

Ho interpellato anche il web e mi ha risposto The Catholic Encyclopedia: dal momento che la Quaresima proibiva le uova, esse venivano portate in tavola il giorno di Pasqua, colorate in rosso per simbolizzare la gioia pasquale, usanza non solo della chiese latine ma anche di quelle orientali. Questa enciclopedia si dissocia dalla convinzione di taluni secondo cui l’usanza delle uova pasquali starebbe a significare la nascita di un’umanità nuova grazie alla morte di Gesù. Si tratterebbe infatti di un’invenzione di tempi più recenti, un’eco dell’usanza pagana di celebrare il ritorno della primavera - e quindi della vita - attraverso il simbolismo dell’uovo, e i pagani inneggiavano alla nuova vita proprio nel periodo in cui cade la Pasqua. Per cui: uova rosse di Pasqua non equivarrebbero al sangue di Cristo, ma alla gioia che è insita nella sua risurrezione.

Peccato essere nati nel XX secolo! Di certe cose avremmo maggior cognizione e certezza se avessimo potuto viverle direttamente.

Facciamo un piccolo passo indietro e giudicate voi se colui del quale adesso riparleremo fosse un maniacale della precisione - tipo Aldrovandi - o se invece riferisse sic et simpliciter ciò che aveva potuto osservare nel suo Paese.

L’antenato o gli antenati del pollo domestico migrarono in modo spontaneamente coatto dalle foreste asiatiche a quelle europee quando vennero sospinti delle glaciazioni. Invece gli spostamenti del pollo domestico furono più coatti che spontanei, dovendo assecondare le velleità migratorie degli esseri umani. Così, come abbiamo ampiamente dimostrato nel primo volume, se conosciamo la storia umana, possiamo nel contempo ricostruire quella del pollo.

Infatti un brano di Thomas Browne tratto dal suo Pseudodoxia Epidemica del 1646 suonerebbe alquanto sibillino se non fossimo a conoscenza della storia della Marans, di quella di Enrico Plantageneto duca d’Anjou e di Eleonora d’Aquitania. Come già abbiamo accennato, Sir Browne nasceva quando Aldrovandi lasciava questa valle di lacrime e possiamo considerarli contemporanei in quanto ambedue hanno respirato l’aria degli inizi del XVII secolo.

In Pseudodoxia III,xxviii leggiamo:

Why the Hen hatcheth not the Egg in her belly, or maketh not at least some rudiment thereof within her self, by the natural heat of inward parts, since the same is performed by incubation from an outward warmth after; Why the Egg is thinner at one extream? Why there is some cavity or emptiness at the blunter end? Why we open them at that part? Why the greater end is first excluded? Why some Eggs are all red, as the Kestril's; some only red at one end, as those of Kites and Buzzards? why some Eggs are not Oval but Round, as those of fishes? &c. are problems, whose decisions would too much enlarge this discourse.

Perché la gallina non fa schiudere l’uovo nella sua pancia o almeno non ne crea un qualche rudimento dentro se stessa attraverso il naturale calore delle parti interne, dal momento che successivamente la stessa cosa si compie con l’incubazione attraverso un calore esterno; perché l’uovo è più assottigliato a un’estremità? Perché esiste una qualche cavità o vuoto all’estremità arrotondata? Perché li apriamo da questo lato? Perché l’estremità più ampia è la prima [20] a fuoriuscire? Perché alcune uova sono completamente rosse come quelle del Gheppio; alcune rosse a un’estremità come quelle dei Nibbi e delle Poiane? Perché alcune uova sono non ovali bensì rotonde come quelle dei pesci? etc. sono problemi sui quali decidere allargherebbe troppo questo discorso.

Tre cose sono certe:

·   Browne sta parlando di uova di gallina

· Aldrovandi, nelle sue numerosissime pagine dedicate al pollo, non ha mai asserito che talora le uova di gallina sono uniformemente rosse oppure macchiettate di rosso

·  Browne scriveva per la sua gente, in quanto scriveva in inglese e non in latino, e penso che l’avrebbe fatto qualora avesse voluto dare risonanza europea ai suoi scritti, salvo precorresse i tempi usando già la sua lingua come esperanto.

Quindi in Inghilterra, e agli inizi del XVI secolo, razzolavano galline che deponevano uova dal guscio uniformemente o parzialmente rosso come i seguenti rapaci:

Gheppio - Falco tinnunculus

Nibbio bruno - Milvus migrans

Nibbio bianco - Elanus caeruleus

Nibbio reale - Milvus milvus

Poiana - Buteo buteo

Poiana calzata - Buteo lagopus

Poiana codabianca - Buteo rufinus

Browne è degno di fede circa queste inabituali uova di gallina, e se erano inabituali ciò significa che la regola era il guscio bianco. La sua osservazione è paragonabile a quella di un italiano di ritorno dal supermercato che riferisse di aver visto uova dal guscio bianco, o azzurro, o verde. Infatti le ha sempre viste col guscio marrone.

Possiamo essere certi che senza alcun dubbio quelle uova inabituali di gallina esistevano in Inghilterra ai tempi di Browne, perché il suo paragone con le uova dei vari rapaci corrisponde rigorosamente al vero.

Ho rispolverato Races of Domestic Poultry di Edward Brown (1906) che stimo moltissimo in quanto preciso, conciso e molto ben documentato. Orbene, la razza inglese più antica pare essere la Dorking - su cui si è discusso a non finire se autoctona o importata dai Romani - e depone uova dal guscio bianco.

Ovviamente, come accade per quasi ogni razza, anche l’origine della Sussex è discussa, ma è assodato essere una razza antica, e parecchie di queste galline depongono uova crema, per cui Brown concludeva che, ai suoi tempi, la Sussex doveva la sua esistenza a un qualche influsso di sangue straniero: “That the present-day Sussex owes something to other blood is shown by the fact that many hens lay tinted-shelled eggs.” Altre antiche razze inglesi come Amburgo, Redcap e Scotch Grey depongono uova dal guscio bianco.

A questo punto possiamo supporre che con estrema probabilità in Europa e nel XVI secolo esistevano già sparuti geni del guscio marrone, e non possiamo escludere che essi avessero raggiunto la Gran Bretagna piuttosto anticamente, magari ai tempi di Enrico Plantageneto e di Eleonora d’Aquitania.

Tuttavia, quella fornita da Thomas Browne è una conferma che nel XVI secolo nell’area del Mediterraneo e in gran parte dell’Europa le uova avessero il guscio bianco.

Ciò conferma inoltre la precisione scientifica e descrittiva di Ulisse Aldrovandi, nonché quella altrettanto encomiabile del suo collega inglese che non ebbe la fortuna di conoscere.

Voglio vivamente ringraziare

Prof Gabriele Baldan e Istituto San Benedetto da Norcia - Padova - per avermi fornito il testo latino di Aldrovandi

Dr Fernando Civardi - Milano - per la trascrizione del testo latino del XIV libro del II volume dell’Ornitologia di Aldrovandi

Prof Filippo Capponi - Genova - per l'insostituibile competenza latina in campo ornitologico

Dr Mikhail Romanov - Ucraina - per la soluzione di difficili quesiti

Dr Irina Moiseyeva - Mosca - per alcune importanti ricerche storiche

Achim Güntherodt - Mühlhausen - per essersi sobbarcata la lettura del testo di Gessner edita in tedesco da Schlütersche, Hannover, 1981

Prof George Carter - Texas A&M University - per avermi spronato alla ricerca sul colore del guscio

Allevamento Luisa - Alessandria - http://www.allevamentoluisa.it per i confronti dal vivo con alcuni animali analizzati in questo studio

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19. uovo e portauovo compagni dell’Uomo

L’Uomo mangia l’uovo da millenni. Anzi, c’era chi mangiava uova: la Professoressa Giulia Giordani, erede spirituale di Alessandro Ghigi presso l’Ateneo Bolognese, nel gennaio 1996 mi confidava una confidenza del Maestro. Un giorno le disse che da tempo, da molto tempo, non rinunziava a due uova al giorno. L’illustre scienziato superò brillantemente la novantina.

Forse Ghigi confidava le confidenze in quanto aveva paura degli strali dei guerrafondai del colesterolo, quella schiera di paladini della salute a me tanto invisa che aveva mandato in tilt una buona fetta dell’economia italiana, quella della produzione di uova.

Non c’è famiglia che non abbia un portauovo, testimone di una tradizione culinaria che ha retto il confronto dei secoli. A qualcuno è venuto in mente di collezionarlo - - - e di dedicargli una mostra, rendendo così onore ad artisti spesso anonimi nonché ovviamente al primum movens, il pollo.

Passo la tastiera a Ivana Scovassi e a Raffaele Porreca che nel marzo 1996 organizzarono a Padova una mostra dal titolo Uova e Portauova. Essi ci guideranno in un mondo che per la maggior parte di noi è misconosciuto, anche se lo viviamo quotidianamente.

L'hobby di collezionare portauovo è detto in inglese pocillovy dal latino pocillum ovi che significa piccola coppa per uovo. Il portauovo era già in uso presso i Romani, come testimoniano resti trovati negli scavi di Pompei. Si dice che anche gli antichi Greci usassero un oggetto simile. Si narra che Marco Polo, in visita in Cina, mangiasse uova à la coque servite in appositi recipienti. Sembrerebbe quindi una storia antica quella del portauovo.

La nostra collezione è nata per caso nel 1984 e si compone a tutt'oggi di oltre 800 pezzi che trovano spazio in quattro vetrine in plexiglas appositamente realizzate da un artigiano. Dopo un timido ingresso nel mondo del collezionismo, ci siamo lanciati alla ricerca dell'oggetto di desiderio, battendo a tappeto mercatini nostrani, mercati delle pulci di capitali straniere, rigattieri e negozi a buon mercato, solai e vecchie dispense. Amici e parenti, contagiati dalla febbre della ricerca, hanno dato un rilevante contributo alla nostra collezione.

A Padova sono stati esposti circa 300 pezzi raggruppati in base al materiale di fabbricazione: legno, metallo, porcellana, ceramica, vetro, bachelite, plastica, pietra. Un'ulteriore classificazione è stata fatta in base allo stile e all'epoca di fabbricazione: i più antichi datano dalla fine del XVIII secolo, mentre gli ultramoderni risalgono al 1995. Alcuni portauovo sono insolite o originali creazioni di designer, come quelli realizzati in legno di ciliegio da Marchetto e Malacrida dello Studio Immagine di Padova. Altri provengono dall'estro e dalla simpatia di artigiani della ceramica, del legno e del vetro, tra i quali ricordiamo con affetto Réjean Bérard e Jean Vallier conosciuti e istigati a produrre pezzi unici l'estate del 1995 a Québec, e il nostro amico Dario Aguzzi.

Molto divertenti sono le sezioni classificate come zoomorfe e antropomorfe: l’uovo trova collocazione sulla testa di personaggi umani o fantastici, come Pinocchio, oppure nella pancia degli animali più svariati, tra cui predominano le galline accanto a gatti, ippopotami, mucche, tartarughe, conigli, scimmie, rane, farfalle, pinguini, orsi, maiali.

Di particolare interesse sono i pezzi di provenienza militare: oggetti semplici in materiale leggero, di solito alluminio, che a volte accompagnavano lunghi e faticosi viaggi. Nelle località turistiche capita spesso di trovare portauovo-souvenir, solitamente poco costosi, che riportano l’immagine e il nome del luogo; sono appunti di viaggio che suscitano piacevoli ricordi.

Lo spazio maggiore è occupato dai portauovo corredati da un piattino su cui viene solitamente appoggiato il cucchiaino, complemento indispensabile del portauovo. È presente talvolta anche una piccola saliera. Sono utensili più grandi, spesso molto decorativi, che abbelliscono la tavola. In questa sezione merita di essere ricordato un centrotavola in porcellana, rappresentato da una figura di contadina in costume tradizionale circondata da sei portauovo. Pochissimo spazio occupano invece i micro-portauovo, alti appena 2 cm, in ceramica e in legno, piccole miniature da casa di bambole.

Nell'Ottocento le famiglie nobili possedevano il servizio completo di stoviglie in finissima porcellana, spesso decorato con lo stemma della casata. Di tanto in tanto è possibile trovare anche portauovo ingentiliti da simboli araldici, come quello della famiglia veneta dei Marchesi de Buzzaccarini o quello del Collegio Ghislieri di Pavia.

Per quanto riguarda i pezzi antichi, gli acquisti migliori sono stati fatti presso piccoli antiquari inglesi o in occasione delle Antiques fair tipiche del Sud dell’Inghilterra. In queste circostanze abbiamo trovato portauovo in metallo (sheffield o silver, o leghe meno preziose), tra i più interessanti segnaliamo un portauovo in alluminio con uno specchio, forse per cuocere l’uovo col calore del sole. Inconsueto il bellissimo portauovo a doppio uso, per uovo alla coque e uovo sodo. Un altro pezzo in alluminio permetteva ai bambini degli anni ‘30 di portare a scuola l’uovo protetto da un apposito contenitore. Sempre in Inghilterra sono stati acquistati alcuni egg cup prodotti recentemente, anche se ispirati alle tradizionali manifatture: porcellane Wedgwood, Doulton, Royal Doulton, Longwy, Coalport, Mason's.

La Francia si è dimostrata una miniera particolarmente ricca per i Cacciatori di coquetier. I mercatini delle pulci della capitale, quali quelli della Porte de Clignancourt, Porte de Montreuil, Place d'Aligre, Porte de Vanves, e il Marché Saint Paul nel Marais, hanno sempre riservato le sorprese migliori. La classica forma Luigi Filippo (risalente a metà Ottocento), prodotta spesso dalle Manifatture di Sèvres, è caratterizzata da 3-4 sottili linee (azzurre, rosa, verdi, blu) e ingentilita da un filo d'oro che corre intorno alla parte alta del portauovo.

Da vecchi granai della campagna francese del Berry e del Périgord provengono le porcellane più antiche, tramandate dalla fine del Settecento di generazione in generazione e arrivati a noi in segno di amicizia. I frequenti viaggi alla scoperta della Francia ci hanno portato a visitare zone caratterizzate dalla produzione di particolari ceramiche, come Quimper in Bretagna, Limoges nel Limousin, Monet nella zona di Giverny, coi colori rubati allo splendido giardino del pittore. Durante la stagione estiva ogni paese è animato da Brocantes e Foires dove è possibile trovare portauovo originali a prezzi modesti.

Più tipici dei Paesi del Nord Europa sono i portauovo in legno variamente decorati e intarsiati. Porcellane bianche e blu dell’Olanda (Delft), della Svezia, Danimarca (Royal Copenaghen), Austria, Cecoslovacchia, Germania (Goebel, Rosenthal) e Ucraina, offrono un'ampia varietà di forme e decorazioni che impreziosiscono questo utensile.

Le ceramiche italiane sono presenti nella collezione con pezzi provenienti dalla produzione di grandi firme come Richard Ginori, Vecchia Bassano, Deruta, Baveno, Vecchia Lodi, o di artigiani scoperti lungo la penisola, tra cui ricordiamo località in Toscana, Sardegna, Umbria, Veneto, Lombardia, Puglia.

Il contatto col mondo degli artigiani è stato favorito da un recente soggiorno in Canada: un Maître-potier ha appositamente creato per noi dodici pezzi unici cosi come un Souffleur de verre ci ha preparato un originale portauovo.

La forma perfetta dell'uovo ricorre in numerose rappresentazioni pittoriche, molti scultori si sono cimentati con la sua liscia superficie. L'uovo rappresenta anche la vita perpetua, un mondo cosmico in continuo divenire; in quest'ottica il portauovo rappresenta il supporto ideale della materia, una sorta di Atlante che sostiene il mondo. Un binomio perfetto, insomma, due elementi che si completano e si integrano.

Fig. IX. 24 - Ex libris di Raffaele Porreca

Anche la grafica di piccolo formato, rappresentata dagli ex libris, propone richiami legati all'uovo. Infatti in un ex libris creato per l’Editore Iperborea, compare la creazione del mondo a partire dall'uovo. La splendida acquaforte-acquatinta dell'artista lituano Marius Liugaila per Raffaele Porreca riporta due uova arcaiche, ma allo stesso tempo attualissime, una delle quali sostenute da un portauovo dalle forme muliebri. Potrebbe essere, questa, la prima volta che un portauovo compare in un'opera di grafica.

De ovis Gallico more bibendis

Cum ova Gallico more bibenda paraturus es

haec praecepta memorato:

in primis esto ovum album ac novum,

Deinde impleto ollulam aqua frigida. Cave ne repleas.

Ovum in ollulam mergito. Super foculum ponito.

Tempore ad coquendum necessario transacto,

Vulcano Vestaque rite vocatis,

ex ollula ovum maxima cautela tollito.

Pocillum comparato: ovum ponito. Sal addito.

Tegumentis fractis, nunc est bibendum!

Quello dell’uovo

è stato un parto molto lungo,

a tratti assai distocico.

Ma ce l’avete fatta a sopravvivere!

Risunok Igorya Varchenko
Disegno di Igor Varchenko - 1995

Elaborazione di Fernando Civardi
Le Peintre électronique

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[1] Vedi volume I, IV, 2.

[2] Brasavola Antonio, alias Musa Antonio (Ferrara 1500 - 1555): da non confondere con l’omonimo Musa Antonio, illustre medico romano che guarì Augusto da una grave malattia reumatica ricevendone in compenso ricchezze e onori, e del cui cognome il nostro Brasavola fu paludato da Francesco I di Francia in quanto la sua opera di medico fu richiesta oltre che da lui, anche da Carlo V, da Enrico VIII d’Inghilterra e da tre Papi. Professore di materia medica all’Università di Ferrara, ebbe il merito di aver per primo separato la botanica dalla medicina, facendone due scienze distinte.

[3] Karma: nella filosofia indiana corrisponde alla somma delle azioni individuali, buone o cattive, unite all'anima nella trasmigrazione: ogni nuova incarnazione (e ogni vicenda sperimentata dal corpo) è determinata dal karma precedente. La credenza nel karma, che si può rintracciare nelle Upanishad, è accolta da tutti gli Indù, anche se con molte distinzioni. Alcuni aspirano a formare un buon karma per una buona rinascita, ma altri, considerando cattivo ogni karma, si sforzano di liberarsi dal processo di reincarnazione (samsara): alcuni ritengono che il karma determini tutto ciò che succede all'individuo, mentre altri attribuiscono uno spazio maggiore al destino, all'intervento divino o agli sforzi umani. Una forma di karma (prarabdha) è determinata alla nascita e sviluppata durante la vita presente; un'altra (sanchita) rimane nascosta in questa vita; una terza (sachiyamana), formata nella vita presente, matura in quella successiva.

[4] È quello del film Becket e il suo Re (1964) magistralmente interpretato da Richard Burton nei panni di Thomas Becket tratto da Assassinio nella Cattedrale (1935) di Thomas Eliot. Nel 1164 Enrico II iniziò una lunga controversia con Tommaso Becket, che lui stesso aveva nominato arcivescovo di Canterbury, a causa delle costituzioni di Clarendon che tendevano a sopprimere molti privilegi ecclesiastici. Il dissidio personale che sorse tra il sovrano e l'arcivescovo costò a quest'ultimo prima l'esilio e poi la morte: fu assassinato il 29 dicembre 1170 nella cattedrale di Canterbury da quattro uomini fedeli al sovrano, che agirono probabilmente di propria iniziativa. Fu canonizzato da papa Alessandro III nel 1173.

[5] Mi riferisco al rosso dei papaveri delle mie colline del Monferrato, in quanto per esempio i papaveri svizzeri del Canton Ticino presentano un rosso più cupo.

[6] Per l’etimologia di spicifero e muticus: volume I, V, 4.4.

[7] Le origini dell'Impero giapponese sarebbero da collocare nel 660 aC.

[8] Uropigio è composto da due vocaboli greci e letteralmente significa coda-deretano. Attualmente con uropigio si indica quella ghiandola deputata a secernere una sostanza sebacea e che si trova dorsalmente alle ultime vertebre nella regione indicata come codrione, il quale denota l’estremità della schiena degli uccelli e che etimologicamente è una strana e discussa metamorfosi di coda.

[9] L’Etiopia e gli Etiopi. Premessa indispensabile è l’etimologia di Etiope: dal greco aíthø = incendio, brucio (cf. il latino aestus, aestas) e ópsis = vista, aspetto, volto. Quindi in antico erano Etiopi tutti coloro che avevano il volto bruciacchiato. Quando Alessandro Magno invase l’India nel 326 aC, si convinse di aver toccato le sorgenti del Nilo: una confusione fra India ed Etiopia che risaliva a un passato assai lontano e che si protrasse per gran parte del Medioevo. Infatti, se Erodoto (ca. 485 - ca. 425 aC) distingueva gli Etiopi dell'Africa dagli Etiopi dell'Asia - cioè gli Indiani - per la differenza dei capelli, rispettivamente crespi e lisci, nella cartografia tolemaica viene fatta una suddivisione fra Aethiopia sub Aegypto ed Aethiopia interior a sudovest della precedente, e per gli scrittori dell'ultimo Medioevo, come il Vespucci, l’Etiopia corrispondeva all'Africa occidentale, dalla Mauritania alla Guinea. Grazie a Ctesia di Cnido (V sec. aC) e al suo trattato dedicato all’India, l’India venne catalogata come terra delle meraviglie. Una delle fonti principali delle credenze medievali sui mostri fu Plinio che, a differenza del contemporaneo Strabone (64-63 aC - ca. 20 dC), accettò tutte le favole mirabolanti narrate dagli autori precedenti. Plinio introduce le razze favolose dell’India con queste parole: “Praecipue India Aethiopumque tractus miraculis scatent.” (VII,21): soprattutto l’India e il territorio degli Etiopi pullulano di meraviglie. Per cui in Plinio, in modo molto caratteristico, India ed Etiopia appaiono ancora insieme. C’è da presumere che anche il Draco Aethiopicus fosse indiano, o comunque orientale.

[10] N H XI,121: le mie fonti riportano” [...] pavonibus crinitis arbusculis [...]”

[11] Lacca deriva dal sanscrito laksha, che significa 100.000, cioè numero molto elevato, oppure è correlabile con un verbo sanscrito che significa diventare rosso, che è il colore della gomma lacca incrostata ai rami di alcuni alberi orientali. La lacca è secreta dalle femmine di molti insetti emitteri orientali comunemente detti cocciniglie, come Coccus laccae e Tachardia lacca, che danno delle incrostazioni costituite da innumerevoli conchigliette depositate sugli alberi dove gli insetti vivono, specialmente in India. La lacca grezza che si ottiene da questi piccoli artropodi contiene resina, insetti incrostati, un pigmento rosso e materiale vegetale. Una volta purificata dalle sostanze contaminanti, la lacca viene fatta solidificare in fogli sottili o in fiocchi, che costituiscono il prodotto commerciale noto come gommalacca, di colore variabile dal giallo all'arancio intenso. Sbiancata artificialmente, la gommalacca veniva usata in passato nella fabbricazione di numerosi prodotti, compresi i primi dischi per il grammofono, la ceralacca e le vernici. In Messico si coltiva un cactus, la Nopalea cochenillifera, che ospita come parassiti le cocciniglie Dactilopius coccus cacti, raccolte per estrarre una tinta detta rosso cocciniglia, ormai soppiantata dall’avvento dei coloranti chimici.

[12] Blu di Prussia: Fe4[Fe(CN)6]3, ossia ferricianuro ferrico, usato anche come pigmento blu.

[13] Bizio o Bixio Bartolomeo: fisico e chimico italiano (Costozza, Longare, 1791 - Venezia 1862). Nella sua opera Dinamica chimica (1850-1853) espose alcuni concetti precorritori di teorie in seguito affermatesi, verificando tra l'altro l'analogia tra pressione osmotica e pressione gassosa. Condusse ricerche anche nel campo biochimico scoprendo la presenza del rame in vari organismi vegetali e nei molluschi. Con il metodo della distillazione ottenne il gas del carbone di legna.

[14] Per maggiori dettagli si veda volume II, XXV, 2 dove si parla dei colori strutturali.

[15] Se il colorante ottenuto dopo la lavorazione del secreto della ghiandola ipobranchiale dei murici si presentava rosso vivo, il suo valore era inferiore. Lo afferma Plinio in IX,133: “Rubens color nigricante deterior.” Ma c’è dell’altro, in quanto la tinta tiria raggiungeva il pregio maggiore a determinate condizioni, come afferma ancora Plinio in IX,135: “Laus ei summa in colore sanguinis concreti, nigricans aspectu idemque suspectu refulgens. Unde et Homero purpureus dicitur sanguis.” Che tradotto suona così: “Il più alto pregio lo raggiunge quando ha il colore del sangue rappreso, tendente al nero quando la si guarda di fronte, ma con riflessi brillanti vista di sbieco. Per cui anche da Omero il sangue è detto purpureo.”

[16] Assafetida: gommoresina che si ottiene per incisione del tronco e delle radici di certe ombrellifere asiatiche del genere Ferula, di odore agliaceo e sapore amaro acre, usato in passato come sedativo.

[17] Ametista: dal greco améthystos non ubriaco, composto di a- privativa e methýein essere ubriaco. Varietà pregiata di quarzo dal colore violetto così denominata perché si riteneva fosse un rimedio contro l'ubriachezza. Forse per il suo colore vinoso? A posteriori la mia intuizione etimologica è risultata esatta, come attesta Plinio: “Causam nominis adferunt quod usque ad vini colorem accedens, priusquam eum degustet, in violem desinat fulgor, alii quia sit quiddam in purpura illa non ex toto igneum, sed in vini colorem deficiens. Perlucent autem omnes violaceo decore, scalpturis faciles.” (XXXVII,121). Sembra un’anticipazione della teoria di Paracelso e quindi delle moderne teorie omeopatiche. Secondo Paracelso (1493-1541) similia similibus curantur per cui egli preconizzava che il medico considerasse con attenzione i semplici, perché Dio ha segnato con segni indelebili i farmaci. Così, dato che le foglie macchiate di bianco della pulmonaria ricordano il polmone, questa pianta è utile per le malattie polmonari. Questa teoria, detta della segnatura, è servita parecchie volte a scoprire reali virtù medicinali delle piante. Il colore porpora dell’ametista è definito fulgens, cioè splendente, quando Plinio parla degli opali, nei quali, oltre al rosso dei carboncini e al verde mare dello smeraldo, è contenuto anche il porpora dell’ametista: “Est in his carbunculi tenuior ignis, est amethysti fulgens purpura, est smaragdi virens mare, cuncta pariter incredibili mixtura lucentia.” (XXXVII,80)

[18] Vicissitudini a non finire per poter raccogliere due notizie biografiche di Kiranide. In effetti non ne ho raccolta nessuna, né presso la Biblioteca della Wellcome di Londra né in un qualsivoglia sito internet, e il motivo esiste, in quanto Kiranide non è mai esistito. Ad illuminarmi è stato John McMahon del Gruppo di discussione di Latino. Si tratta di una raccolta di tradizioni popolari databile intorno al IV sec. in cui è incorporato del materiale più antico, incluso quello del periodo ellenistico. Dalla Wellcome ho ricevuto la seguente citazione bibliografica che mette in evidenza il fatto che Kiranide era uno pseudonimo: “...[second title] Liber physico-medicus Kiranidum Kirani, i.e., Regis Persarum ... post D. fere annos nunc primum e membranis latine editus cum notis. Qui multis adhuc seculis ante syriace, arabice et graece scriptus et versus extitit. Cum autem reliquae translationes interciderint, haec semibarbara non omnino sepelienda, nec ita totum opusculum obliterandum fuit.” Aldrovandi cita molto spesso Kiranide, anche nel testo dedicato al pollo, ma non doveva averne una grandissima stima: “...Kiranides fabulosissimus scriptor ... sed penes Kiranidem eius rei fides esto.“

[19] Giulio Cesare Scaligero, alias Julius Caesar Scaliger, alias Giulio Cesare Bordon: letterato e medico italiano (Riva del Garda 1484 - Agen, Francia, 1558). Mutò il primitivo cognome di Bordon in quello di Scaligero per sostenere la discendenza della sua oscura famiglia dagli antichi signori di Verona, ma non esiste un’evidenza concreta di questa augusta discendenza dai della Scala. Dopo aver studiato medicina e storia naturale a Bologna - ma Richard Westfall afferma trattarsi dell’università di Padova e solo di Padova -, si stabilì ad Agen come medico del vescovo Angelo Della Rovere. Oltre che per le sue ricerche naturalistiche, si mise in luce per la sua preparazione umanistica e poetica. A lui si deve anche il De causis linguae latinae, prima grammatica scientifica di latino.

[20] Non sempre ciò accade e la gallina partorisce ugualmente e senza conseguenze negative. Il 27 marzo 2001 mi è capitato di fare ancora una volta l’ostetrico per una gallina il cui uovo dal guscio marrone sporgeva già più della metà dall’orifizio cloacale. Come spesso accade, la gallina era semiaccovacciata per favorire il parto e, una volta che l’uovo fu nella mia mano, ho volutamente controllato con che polo era fuoriuscito: si trattava del polo acuto, che si presentava anche nettamente ipopigmentato rispetto al restante guscio. Credo non esista alcuna relazione tra l’ipopigmentazione e la fuoriuscita col polo acuto, ma la cosa ha colpito la mia attenzione.

Tito Livio Ab urbe condita I [54] Inde in consilia publica adhiberi. Ubi cum de aliis rebus adsentire se veteribus Gabinis diceret quibus eae notiores essent, ipse identidem belli auctor esse et in eo sibi praecipuam prudentiam adsumere quod utriusque populi vires nosset, sciretque invisam profecto superbiam regiam civibus esse quam ferre ne liberi quidem potuissent. Ita cum sensim ad rebellandum primores Gabinorum incitaret, ipse cum promptissimis iuvenum praedatum atque in expeditiones iret et dictis factisque omnibus ad fallendum instructis vana adcresceret fides, dux ad ultimum belli legitur. Ibi cum inscia multitudine quid ageretur, proelia parva inter Romam Gabiosque fierent quibus plerumque Gabina res superior esset, tum certatim summi infimique Gabinorum Sex. Tarquinium dono deum sibi missum ducem credere. Apud milites vero obeundo pericula ac labores pariter, praedam munifice largiendo tanta caritate esse ut non pater Tarquinius potentior Romae quam filius Gabiis esset. Itaque postquam satis virium conlectum ad omnes conatus videbat, tum ex suis unum sciscitatum Romam ad patrem mittit quidnam se facere vellet, quando quidem ut omnia unus publice Gabiis posset ei di dedissent. Huic nuntio, quia, credo, dubiae fidei videbatur, nihil voce responsum est; rex velut deliberabundus in hortum aedium transit sequente nuntio filii; ibi inambulans tacitus summa papaverum capita dicitur baculo decussisse. Interrogando exspectandoque responsum nuntius fessus, ut re imperfecta, redit Gabios; quae dixerit ipse quaeque viderit refert; seu ira seu odio seu superbia insita ingenio nullam eum vocem emisisse. Sexto ubi quid vellet parens quidve praeciperet tacitis ambagibus patuit, primores civitatis criminando alios apud populum, alios sua ipsos invidia opportunos interemit. Multi palam, quidam in quibus minus speciosa criminatio erat futura clam interfecti. Patuit quibusdam volentibus fuga, aut in exsilium acti sunt, absentiumque bona iuxta atque inter emptorum divisui fuere. Largitiones inde praedaeque; et dulcedine privati commodi sensus malorum publicorum adimi, donec orba consilio auxilioque Gabina res regi Romano sine ulla dimicatione in manum traditur.