Lessico


Gli Artisti
di Ulisse Aldrovandi

Numerosi furono gli artisti ingaggiati da Ulisse Aldrovandi al solo scopo di abbellire i suoi trattati naturalistici. In questo modo riusciva a colpire l'occhio dei lettori, distraendoli dalla stuolo di inesattezze e di oltraggi alla scienza che vi aveva profuso a piene mani.

È assodato che Aldrovandi non divenne povero nel retribuire artisti e tipografi, ma, visti i brillanti risultati estetici editoriali, il suo impegno profuso nel raggranellare fondi non può non suscitare l'invidia di molti nostri politici e politicanti, che al suo confronto risultano degli sfaccendati.

Se il suo zelo fu eminentemente politico, ciò spiega appieno il suo scarso impegno scientifico, suffragato senza ombra di dubbio dalla scotomizzazione delle cinque dita nei polli che sta descrivendo, una pentadattilia ritratta in modo fotografico e geneticamente ineccepibile dai suoi scagnozzi, perché penso che tali li considerasse.

Grazie a Giuseppe Olmi scopriremo che Ulisse – come molti di noi – aveva una chiodo fisso: ringiovanirsi. Tentò di togliersi di dosso più o meno 8 anni ricorrendo al figlio Achille, quando costui - nato nel 1560 e morto nel 1577 cadendo da una terrazza - aveva dieci anni. Ma questo suo vizietto l'abbiamo già scoperto in un'altra circostanza, quando nel 1572/73 scriveva il Discorso naturale indirizzato a Giacomo Boncompagni figlio di Papa Gregorio XIII. Però in quest'occasione Ulisse si ringiovaniva di soli 4 anni.

Lasciamo da parte queste diatribe che secondo alcuni potrebbero avere un sapore di gossip da sacrestia. Un fatto è certo: Ulisse ci ha lasciato una grande eredità, un patrimonio iconografico del tutto eccezionale. Negli anni 1567-68 dichiarava di possedere circa 500 pitture di uccelli, 600 di "insetti et altri animali quadrupedi e aquatili di varie sorti", 643 di piante (totale pitture = 1.743). Trent’anni dopo, nel 1598, parlava di ben 8.000 figure e 3.000 erano già intagliate in legno. Infine: il 12 luglio 1599 il numero delle tavolette di legno disegnate e incise risultava essere 3.647: un capitale in legno che poi, a suo tempo, per scaldarsi, verrà sistematicamente cacciato nella stufa dai custodi del Museo, privandoci così di un invidiabile patrimonio artistico.

Aldrovandi ricavò fama. Invece di denaro ne ricavò ben poco. Il 6 ottobre 1600, su 105 copie del I volume dell’Ornitbologia ne erano state regalate ben 69, per cui solo un terzo era stato venduto. Non c'è che dire: un martire della Scienza!

Tra gli artisti che incontreremo nell'approfondita indagine di Giuseppe Olmi i più importanti sembrano essere i seguenti:

Buona lettura. Ne vale davvero la pena!

Annali dell'Istituto storico italo-germanico
Monografia 17

L'inventario del mondo

Catalogazione della natura e luoghi del sapere
nella prima età moderna

di Giuseppe Olmi

Società editrice il Mulino
Bologna – 1992

La bottega artistica aldrovandiana

[61] Per una ricognizione di questo tipo crediamo occorra partire dall’analisi di un famoso e più volte citato passo dell’Introduzione all’Ornithologia.

"Unde ego in singula fere avium nostrarum historia, ut tam interna quam externa nota redderem, & eorum oculatus testis essem, ingentem pecuniae vim cum in varijs peregrinationibus in diversas orbis regiones avium potissimum, ac aliarum etiam rerum naturalium causa susceptis, tum in eisdern describendis, proprijs coloribus depingendis, ac in tabulis ex pyro confectis, delineandis, exculpendisque atque tandem excudendis, consumpsi: ideoque pictori in ea arte unico triginta, & amplius annos annuum aureorum ducentorum stipendium persolvi, dilineatores celeberrimos, Laurentium Benninum Florentinum, & Cornelium Svintum Francofortensem meo aere conduxi, necnon Iacobi Ligotij Serenissimi Hetruriae Ducis pictoris eximij opera in hac eadem provincia Florentiae quandoque usus sum, ut quo maximo fieri posset artificio, aves eae designarentur; tandem Sculptorem habui, & adhuc habeo insignem Christophorum Coriolanurn Norimbergensem, atque eius Nepotem, qui eas adeo venuste, adeo eleganter exculpserunt, ut non in ligno, sed in aere factae videantur"[1].

Tra questi artisti ricordati dall’Aldrovandi, la personalità di maggior spicco è indubbiamente quella di Jacopo Ligozzi. Sulla sua attività, sostanzialmente riconducibile a quello che è stato definito un "sofisticatissimo artigianato"[2], siamo oggi informati piuttosto dettagliatamente, grazie a una serie di studi più e meno recenti, tra i quali restano sempre fondamentali quelli di Mina Bacci[3]. Pittore di corte al servizio di ben quattro Granduchi medicei e impiegato da questi nei più svariati incarichi, il Ligozzi ha modo di dedicarsi intensamente [62] all’illustrazione naturalistica soprattutto durante la vita di quel "dilettante di alchimia e di scienza"[4] che era Francesco I, dando in questo campo i frutti migliori della sua lunga attività, raggiungendo risultati veramente sbalorditivi per sensibilità e realismo mimetico. La definizione di "wissenschaftliche Naturalismus" usata dal Kris nella sua analisi dell’opera di Georg Hoefnagel[5], trova piena e anzi maggiore applicazione anche nei confronti delle illustrazioni scientifiche di questo artista, che l'Aldrovandi dovette conoscere personalmente durante un viaggio in Toscana nel giugno del 1577[6] e della cui opera poté, grazie alla benevolenza medicea, saltuariamente servirsi.

Certamente Ligozzi non lavorò mai alle dirette dipendenze del nostro naturalista, tuttavia è inesatto ritenere che i due non si siano mai incontrati a Bologna. Infatti, pochi mesi dopo che Aldrovandi aveva stabilito con lui il primo contatto a Firenze, l’artista si recò, a sua volta nella città emiliana: egli figura come "latore" di una lettera scritta a Bologna dal naturalista, in data 16 dicembre 1577, e indirizzata al ferrarese Alessandro Pancio[7]. Null’altro sappiamo di questo soggiorno, ma è difficile pensare che lo scienziato si sia lasciato [63] sfuggire una così favorevole occasione di avere direttamente dal Ligozzi qualche saggio della sua bravura come ritrattista di "cose naturali"[8].

Stando comunque ai dati oggettivi che oggi restano a nostra disposizione, il contributo, che dobbiamo ritenere per lo più ‘a distanza’, dell’artista mediceo al corpus aldrovandiano, va stimato in non più di una trentina di fogli[9]. Essi dovettero essere, però, più che sufficienti per proporsi all’Aldrovandi come modello insuperato cui fare costante riferimento. Non a caso Ligozzi è ricordato di continuo nei manoscritti dello scienziato bolognese: primo pittore in Europa "in picturis pingendis & delineandis"[10], menzionato tra i grandi del secolo con il Bassano, Tiziano, Raffaello e Michelangelo[11], paragonabile a Parrasio per capacità artistiche[12], dal suo pennello escono "animali sì leggiadramente con mirabile artificio...formati e depinti, che altro non li manca che lo spirito, tanto sono fatti dal naturale"[13].

Chiaro traspare il rimpianto di non poter contare su una collaborazione più diretta e continua di un tal pittore, a confronto col quale netti appaiono all’Aldrovandi i limiti dei propri artisti. Inviando "quattro figure di quattro piante Indiane molto belle e rare" a Francesco I, il nostro naturalista intuisce che questi non si accontenterà delle riproduzioni [64] ricevute, potendo "farne far pittura dal suo eccellente Pittore, il qual per il suo disegno le potrà aiutare et farle più belle et più perfette"[14]. Nell’opera di piccolo formato del Ligozzi sono dunque racchiusi il punto più alto e, insieme, il vero significato, la sola e reale utilità della pittura e, più in generale, dell’arte. Le piante da lui ridipinte diventeranno "più belle et più perfette" non perché compito dell’arte sia quello di interpretare ed abbellire la natura; il miglioramento deve avvenire solo nei confronti delle pitture di qualità scadente e risolversi in una totale e minutissima imitazione della realtà naturale, in modo, cioè, che anche queste piante diventino simili a tutte le altre dipinte dal Ligozzi "con tanto artificio...che paiono propriamente nate nel suo sito naturale"[15]. Per Aldrovandi le figure del pittore mediceo hanno a un tempo valore artistico e valore scientifico proprio perché si caratterizzano come copia ‘fotografica’ delle "cose naturali"; anzi, il valore artistico non è che un corollario, una conseguenza logica e naturale della loro scientificità.

Purtroppo, come si è detto, piuttosto limitato, ancorché apprezzatissimo, fu il contributo del Ligozzi alla raccolta di illustrazioni dello scienziato bolognese e questi dovette pertanto ricorrere all’opera, più o meno rilevante, di altri artisti. Tra questi merita senz’altro attenzione, per primo, quel pittore "in ea arte unico" che il nostro naturalista afferma di aver stipendiato per oltre trent’anni. Grazie a uno spoglio pressoché sistematico dei manoscritti aldrovandiani è possibile di questo personaggio dare non solo il nome, ma anche fornire alcune notizie.

Già ricordato da Eugenio Battisti una trentina d’anni fa[16], Giovanni (de’) Neri fu l’artista che più di tutti lavorò per Aldrovandi, essendo stato alle sue dipendenze per 32 anni, [65] dal 1558 a! 1590 circa[17]. A lui, pertanto, è lecito attribuire la maggior parte delle figure de!l’intera raccolta e in particolare quelle destinate a confluire nell'Ornithologia. In Giovanni Neri, dunque, e non in Triulxi[18]  va identificato quel "Pittor de gli uccelli" menzionato come artista dell’Aldrovandi [66] già dal Buoni nella seconda metà del Cinquecento[19], come pure il "Gio. de gli Uccelli" ricordato, un secolo dopo, dal Masini[20].

Sulla mole di lavoro svolta da questo artista non sussistono dubbi: di contro alle tarde indicazioni del Masini che pure ammettevano un intervento massiccio del Neri nei sette volumi di tavole di animali, sta la diretta testimonianza della stesso Aldrovandi che, almeno a livello di disegno, estende tale intervento alla totalità dei diciotto volumi costituenti quasi l’intera raccolta, quantificandolo in poco meno di 7.000 figure[21]. Senza alcun dubbio le ipotesi sui ritmi incalzanti di lavoro vigenti nella ‘bottega artistica’ aldrovandiana, avanzate da Battisti[22], trovano in questi dati una sicura conferma; completamente finite, o soltanto disegnate, Giovanni Neri fornì comunque al naturalista bolognese, nel lungo periodo in cui fu al suo servizio, una media di circa tre figure ogni cinque giorni.

Se impressionante è la quantità di illustrazioni eseguite dal Neri, non altrettanto stupore suscita invece la loro qualità. A quelli resi realisticamente e, comunque, con impegno, fanno riscontro altri animali estremamente goffi e improbabili, piante raffigurate in modo un po’ convenzionale e stilizzato. La causa, probabilmente, va proprio cercata nei ritmi troppo elevati di lavoro, ma con questo, tuttavia, va detto [67] ugualmente che la distanza fra i lavori del pittore aldrovandiano e quelli di Jacopo Ligozzi è veramente, se non abissale, certa alquanto notevole. Chiara conferma di questo non troppo elevato livello qualitativo si ha in una lettera in cui Pietro Andrea Mattioli, lamentandosi con Aldrovandi della figura del Loto da quest’ultimo inviatagli, fa notare che "le foglie del ramoscello sono molto più longhe, & molto maggiori di quello di pittura, né vi vedo somiglianze alcune, che mi movano punto a pensare, che siano una cosa medesima"[23]. Con tutto questo, però, Aldrovandi si guarda bene dal riconoscere pubblicamente i limiti del proprio pittore, anche perché ciò avrebbe significato, se non altro, coinvolgere nella stessa condanna anche la propria e invidiata raccolta di illustrazioni, nonché la propria attività e personali sacrifici di anni e anni. Lodare, anzi, l’esecutore delle figure, può equivalere a lodare se stessi per l’opera promossa e tenacemente sostenuta. Così non solo Giovanni Neri viene paragonato a Cratino, ma pure si afferma che "pochi se ne trovano hogi simili" a lui[24]. Non basta; ben oltre procede lo sforzo propagandistico o di autoconvincimento di Aldrovandi:

"Et, in verità, il mio pittore l’ho per tanto raro, che forse in Europa in simili pitture delle cose naturali non ha uguale, havendolo io del continuo essercitato in queste miniature sottilissime, laudate da tutti gl’eccellenti pittori che l’hanno vedute; ché, in verità, queste figure paiono propriamente il simolachro istesso di natura, che aggabba gl’occhi de risguardanti. Et certo che fra tanti pittori scritti da Georgio Vasarro aretino merita essere connumerato; le cui pitture da qui a cento anni saranno stimate molto maggiormente che hora non sono, sì come si vede ordinariamente le pitture de pittori eccellenti passati, quali hora si ritruovano et sono di qualche momento, essere di molta stima appresso a moderni"[25].

Non v’è luogo per critiche o giudizi sfumati; al più si restringono le lodi al solo campo dell’illustrazione naturalistica, [68] ammettendo che "il mio Pittore maistro Giovanni de’ Neri fa benissimo figure d’uccelli, ma in fare altre cose non vale nulla"[26]. Che non valesse molto, però, anche nelle figure di animali e piante, dovette ben rendersene conto Aldrovandi stesso; sarebbe, questo, uno dei due motivi con cui spiegare la singolare mancanza, di contro alla citazione precisa di tutti gli altri artisti, del nome proprio del pittore nel passo dell’Introduzione all’Ornithologia sopra ricordato, nonché, più in generale, la censura quasi sempre applicata nelle frasi celebrative, in cui sempre, in luogo del nome, si ricorre all'espressione anonima "il mio/nostro pittore"[27]. Probabile coscienza, quindi, da un lato, dell’inferiorità artistica del proprio pittore il cui nome avrebbe forse sfigurato tra quelli ben più illustri di un Ligozzi e di altri artisti temporaneamente utilizzati, ma dall’altro, plausibilmente, anche motivi di ripicca, di vendetta personale se vogliamo.

Sempre introducendo l'Ornithologia, infatti, così si esprime in un punto Aldrovandi:

"His tam magnis expensis aliae accedunt causae, inter quas haec imprimis non est involvenda silentio, quod pictor meus, ut maiorem sibi faceret quaestum, clam multis nobilibus, ac studiosis icones multas vendiderit, quas verebar, ne aliquando typis mandarent, quemadmodum alias mihi contigit"[28].

Proprio perché, nell’ottica del tempo, la validità di un testo di storia naturale era commisurata anche, se non soprattutto, all’originalità delle figure in esso presenti, era, potremmo dire, ad esse direttamente proporzionale, l’Aldrovandi dovette sentire questa azione del proprio pittore come un vero [69] e proprio tradimento e provarne tanto dispiacere da ricordare ancora il fatto, già più che ottantenne, nel testamento del 1603[29].

Non dovrebbero esservi dubbi, anche in base a indizi presenti nei manoscritti aldrovandiani[30], a identificare quel ("pictor meus" che "icones multas vendiderit", con il sunnominato Giovanni Neri e, dunque, accanto al riconoscimento pur legittimamente dovuto per la lunga opera prestata, l’eliminazione del nome e il ricordare l’artista solo come un proprio e anonimo dipendente, potrebbe avere precisamente quel significato punitivo, di ritorsione, cui sopra si accennava. Forse queste nostre brevi annotazioni raggiungeranno almeno lo scopo di sottrarre questo pur non eccezionale pittore dalle nebbie dell’anonimato, riammettendolo a occupare, con pieno diritto, quel posto importante che, tutto sommato, gli compete, se non altro per la gran mole di lavoro svolta, nella storia dell’illustrazione scientifica.

Probabilmente solo la morte del pittore, verso il 1590, mise fine alla collaborazione tra Giovanni Neri e Aldrovandi e comunque sin quasi dall’inizio del loro rapporto il naturalista si era dato da fare per accaparrarsi i servizi di altri artisti, anche perché, propenso com’era probabilmente sempre "ut maiorem sibi faceret quaestum" ad accettare commissioni ‘esterne’ e soggetto talvolta a malattie anche gravi[31], il Neri non gli offriva garanzie di assoluta continuità sul lavoro. Già nell’ottobre del 1564, infatti, Aldrovandi manifestava esplicitamente a Conrad Gessner, invocandone l’aiuto, la propria insoddisfazione per la lentezza con cui procedeva l’opera di raffigurazione della realtà naturale. Dopo aver informato lo studioso svizzero di poter contare sulla collaborazione, per di più incostante, di un unico pittore, il Neri [70] appunto ("Eodem accedit pictorem unum solum habere in hac urbe, qui...saepemodo rus se confert, ut thalamos aliquorum nobilium depingat, meque derelinquit") così scriveva egli nella lettera:

"Qua de re maxime cuperem pro utilitate publica in hac civitate duos vel  tres habere pictores excellentissimos in pingendis plantis et alibi, quare te rogatum velim plurimum atque plurimum si aliquem aptum ad hoc genus picturae nancisceveris (sic) ut ilium exhortaturn velles, ut hanc urbem peteret et ad me veniret in meis etiam aedibus si opus esset ilium tenerem et tunc occasionem maximam haberem omnes plantas meas, quae iam ad numerum trium milium et sexcentorum ascendunt, pingere, cum hactenus ob inopiam pictoris et negotia istius mei pictoris quem semper habere non possum, non haberem nisi trecentas pictas. Aves tamen et insecta ac alia animalia citra quingenta polliceor tibi quod non solum pro me per aliquot annos pingere posset, verum etiam pro multis studiosis et nobilibus meis scholaribus pingere posset et lucrari quicquid vellet"[32].

Non pare che questa richiesta rivolta al Gesner abbia avuto qualche esito concreto, ma al reclutamento massiccio di altri artisti, Aldrovandi procedette sicuramente nel corso degli anni ‘80, in vista, cioè, della stampa della sua "Storia naturale" e della conseguente necessità di approntare rapidamente migliaia di xilografie.

Non più di un paio d’anni ("biennij spacio"), dal 1585 all’estate del 1587, si trattenne a Bologna Lorenzo Benini[33], artista fiorentino sicuramente messosi al servizio del nostro naturalista grazie all'interessamento del Granduca Francesco I.
[71] Nell’Ornithologia egli viene ricordato tra i delineatores e tale, infatti, dovette essere, anche in base ad altri riscontri[34], la sua principale attività. Ciò che Aldrovandi soprattutto gli chiese, dunque, fu di ‘trasferire’, "summa industria", le figure dai fogli alle tavolette di legno destinate poi a essere lavorate dall’incisore. Questo non esclude che, al bisogno, Benini abbia anche eseguito illustrazioni colorate a tempera, ma, ripetiamo, sua principale attività dovette essere quella di fungere da anello intermedio tra la pittura e l’incisione. Una conferma si ha da una lettera di Aldrovandi a Francesco I in cui si parla del Benini come di un "pittore e dissegnatore" che il Granduca "fece venir costì [a Bologna] per designarmi da 500 uccelli, che io in molti anni haveva raccolti in pittura"[35]. Dunque, se le figure si trovavano già "in pittura", sicuramente grazie soprattutto all’opera di Giovanni Neri, all’artista fiorentino non restava altro da fare che ricopiarle sulle tavolette di legno. D’altra parte la distinzione tra disegnare/delineare e dipingere è ben netta in Aldrovandi e sono proprio i primi verbi a essere maggiormente usati in riferimento all’attività del Benini. Comunque del fatto che questi sapesse anche dipingere non si dimenticò il nostro scienziato: durante il soggiorno bolognese, infatti, oltre a dare gli ultimi tocchi e completare l’opera cui il Neri doveva oramai raramente dedicarsi, Lorenzo Benini eseguì "egregie" il ritratto di Aldrovandi e di sua moglie Francesca Fontana[36].

[72] Con il ritorno a Firenze di quest’artista, ritorno cui fece seguito a pochi anni di distanza la scomparsa o comunque il completo ritiro dall’attività di Giovanni Neri, Aldrovandi dovette sicuramente trovarsi parzialmente privo di aiuti, proprio nel momento in cui era necessario produrre il massimo sforzo per passare alla fase di stampa delle figure. Se a un incisore fisso aveva già provveduto, come vedremo, da alcuni anni, per i disegni sulle tavolette, invece, non poteva evidentemente contare troppo sull’aiuto saltuario e del tutto amichevole che alcuni artisti bolognesi, anche noti, erano in grado di fornirgli, se non altro perché, da parte di questi, non poteva non esservi ancora una almeno parziale reticenza ad applicarsi con continuità a una forma d’arte come quella dell’illustrazione scientifica che, nonostante fosse in costante e fortunata ascesa, era altresì da considerarsi sicuramente genere minore.

Alla luce di questi fatti e nel timore di non poter vedere la pubblicazione delle proprie opere e di vanificare, pertanto, gli sforzi di tanti anni, Aldrovandi assunse al proprio servizio, all’inizio del giugno 1590, un artista tedesco proveniente da Francoforte sul Meno: Cornelio Schwindt[37]. Probabilmente già specializzato nel genere, come tanti altri artisti nordici, e, comunque, in virtù della giovane età[38] e certo anche per il bisogno di mantenersi in Italia e di farsi strada, lo Schwindt fu sicuramente dipendente malleabile, pronto a farsi indirizzare dal nostro naturalista e a seguirne i consigli. Il suo soggiorno bolognese è da calcolarsi sui 5-6 anni: sicuramente attivo, infatti, nella città felsinea ancora nel 1595[39], nell’agosto del 1596 è nuovamente a Francoforte, dove acquista il diritto di cittadinanza[40]. A conferma, però, di uno stretto rapporto di collaborazione e familiarità che dovette [73] stabilirsi fra loro, le relazioni tra Aldrovandi e Schwindt non cessarono totalmente neppure dopo la partenza di quest’ultimo, come dimostra, attorno a! 1600, l’invio di un catalogo di piante da parte del pittore, che già si trovava in Germania, al nostro scienziato[41].

Quanto poi ai compiti svolti dal giovane artista, si può senz’altro dire che essi, pur non rigidamente definiti, furono per lo più analoghi a quelli di Lorenzo Benini. Anche se, al bisogno, non si sottrasse all’impegno di realizzare "intagli diversi in pero di cose naturali"[42], è senz’altro da escludere, come invece è stato affermato[43], che il suo ruolo principale fosse quello di incisore: la sua qualifica risulta infatti essere chiaramente quella di "Pictor, et designator"[44]. Anzi, a ben guardare, egli risulta essersi dedicato soprattutto a! disegno su tavoletta, alla fase, cioè, immediatamente precedente l’incisione: "Al presente già sono cinque anni ho di Francoforte condotto ms. Cornelio, quale di continuo mi ha disegnato e disegna in tavole di pero tutte le pitture che in tant’anni ho raccolte, nella pittura a nissun altro inferiore come si puote vedere e nel disegno non truova paragone..."[45]. Più propriamente la qualifica di delineator, implicante un lavoro del tutto diverso da quello di chi dipinge, permette di inquadrare esattamente la sua attività nei limiti sopraddetti.

[74] Con questo, però, non si deve escludere un intervento diretto dello Schwindt anche nelle figure a tempera; se però i soggetti dei disegni furono indiscriminatamente animali, piante e minerali ricavati dalle migliaia di miniature già eseguite dal Neri e in piccola parte da Lorenzo Benini e da altri di cui parleremo, quelli delle tempere sembrano essere stati soprattutto insetti destinati poi a confluire, con i consueti passaggi, nella seconda opera a stampa aldrovandiana. Grazie, anzi, a un elenco presente nei manoscritti bolognesi, in cui sono indicati con diligenza pagina e posizione precisa, nella stessa, di ogni singolo insetto[46], è realizzabile l’esatta attribuzione alla mano dell’artista tedesco di oltre 150 figure[47], di molte delle quali, poi, è possibile rintracciare la tavoletta incisa e infine l’avvenuta riproduzione a stampa, col risultato, quindi, di poter ricostruire tutti i passaggi della visualizzazione naturalistica, dell’intero ciclo di produzione.

La qualità delle piccole tempere, pur non raggiungendo ovviamente i livelli del Ligozzi, si può ritenere discreta; notevole comunque e completamente riuscito è lo sforzo compiuto dai vari artisti per mantenere nei singoli passaggi, dalla figura a tempera all’illustrazione stampata, le grandezze reali degli insetti, anche di quelli più piccoli. Solo il desiderio di recuperare il colore nella pagina stampata porterà, come già abbiamo visto, al parziale dissolvimento di questa precisione e alla vanificazione dell’esame attento e diretto.

Terminato o meglio, in fase inoltrata di realizzazione il lavoro di trasferimento delle figure dai fogli alle tavolette, si pose urgentemente il problema di realizzare rapidamente l’incisione di queste ultime. Proprio per la mole ingente dell’opera prospettatasi, fu immediatamente chiaro a Ulisse Aldrovandi di non poter più oltre continuare ad avvalersi di incisori occasionali del tipo di quell’Augusto Veneto che per lui [75] lavorò nel 1585[48]. Era assolutamente necessario trovare un artista disposto a impegnarsi per molto tempo in questa dura impresa: Cristoforo Lederlein, tedesco di Norimberga, il cui cognome venne in  Italia latinizzato in Coriolano (Leder=cuoio), fu l’uomo che si assunse l'onere, spendendovi anni e anni della propria vita. Messosi al servizio del naturalista nel 1587[49], fu, dopo Giovanni Neri, ma più di Cornelio Schwindt, l’artista che maggiormente lavorò per lui. Ancora sicuramente attivo a cavallo tra i due secoli[50], non è improbabile che sia sopravvissuto all’Aldrovandi stesso, dato che quest’ultimo, ancora nel testamento del 1603, lo ricorda con stima, pregando i membri del Senato bolognese ai quali aveva raccomandato di concludere la stampa della "Storia naturale", "...che vogliano admettere Messer Cristoforo Coriolani per intagliatore, essendo egli rarissimo in questa professione, come n’ho caparra io"[51]. Dunque, una collaborazione stretta, fruttuosa e durata sicuramente oltre quindici anni; è lecito, pertanto, attribuire al Coriolano se non la totalità, certo la stragrande maggioranza delle xilografie presenti nell’opera aldrovandiana, nonché di quelle mai utilizzate per la stampa[52].

[76] Quanto alla qualità del lavoro, la si può ritenere, nel complesso, piuttosto buona, ove anche si tenga conto degli ostacoli insiti nel procedimento xilografico, delle oggettive difficoltà a rendere appieno, con l’incisione su legno, i minimi, ma importanti particolari. Certo, come si è detto, talvolta le illustrazioni sono abbastanza convenzionali e araldiche, ma la colpa è solo in parte di un Coriolano che lavorava su figure già in precedenza tracciate, almeno per contorni, sulle tavolette e, quindi, su animali e piante già ‘trasformati’. Senz’altro impressionante è, comunque, la mole di lavoro svolta dall’intagliatore tedesco: ne danno bene un’idea le frequentissime note che a lui si riferiscono nei manoscritti aldrovandiani, note di pagamento, di consegna delle tavole da incidere, di restituzione di quelle già incise. Un rapporto di lavoro molto stretto, quello con Aldrovandi, e, ove si eccettuino piccole, saltuarie divergenze sul prezzo delle tavolette[53], non turbato da screzi, momenti di tensione o episodi del tipo di quello che aveva visto come protagonista il Neri.

Sulla vita di Cristoforo Coriolano, che fu padre di altri due incisori abbastanza conosciuti, Bartolomeo e Giovanni Battista[54], non si avevano, almeno anteriormente al periodo in cui lavorò per Aldrovandi, notizie sicure, ma solo supposizioni. Escluso, già nell’Ottocento, dal Choulant ogni suo intervento nel De humani corporis fabrica di Vesalio[55], come è d’altronde immediatamente intuibile per evidenti ragioni cronologiche, qualche consenso ha raccolto invece l’ipotesi che il nostro artista sia da identificarsi con quel "maestro Cristofano, che ha operato ed opera di continuo in Vinezia infinite cose degne di memoria", indicato dal Vasari come l’intagliatore dei ritratti delle Vite (1568)[56]. La questione, già [77] posta in termini molto dubitativi nel Thieme-Becker[57], venne anni or sono stranamente risolta in senso positivo da alcuni studiosi che non esitarono minimamente nel far coincidere l’incisore del Vasari con quello di Aldrovandi e questo senza fornire prove o argomenti anche solo parzialmente persuasivi[58]. Eppure, anche prescindendo dalle notizie ora in nostro possesso e che fra poco forniremo e nonostante si sapesse che il naturalista bolognese aveva stretti e continui rapporti con gli ambienti, anche artistici, veneziani[59], alcuni dati già noti o facilmente ricavabili avrebbero dovuto spingere a una maggiore cautela nel proporre una tale identificazione.

Giorgio Vasari, infatti, parlando dell’incisore dei ritratti delle Vite, dice che questi "ha operato e opera di continuo...infinite cose degne di memoria", lasciando quindi intendere con quel "ha operato", che, almeno attorno al 1568, l’artista non fosse alle prime armi e, dunque, giovanissimo. Orbene, poiché i figli del Coriolano collaboratore di Aldrovandi nacquero alla fine del secolo (1589 e 1599), ci troveremmo di fronte, in caso di identità tra i due intagliatori, a una paternità estremamente tarda e, come tale, quindi, piuttosto improbabile[60]. Ma soprattutto occorre tener conto che, negli scritti aldrovandiani non si accenna minimamente a qualche precedente attività del Coriolano. Conoscendo il carattere del naturalista sembra strano che egli, ove il suo collaboratore avesse già lavorato per il Vasari, non lo abbia ricordato assolutamente, quando proprio il farlo avrebbe significato senz’altro aumentare il prestigio della propria "Storia naturale"[61]. Tutto questo in stridente contrasto con la prassi [78] usata nei confronti di altri artisti, dei quali, spesso, vengono indicati e le attività precedentemente svolte e i committenti.

Eventualmente un maggior credito avrebbe dovuto trovare l’ipotesi di un arrivo diretto del Coriolano da Norimberga, sia per lo stretto rapporto d’amicizia che Aldrovandi aveva con un celebre studioso di quella città, Joachim Camerarius[62], sia perché, come risulta evidente dalla lettera a Gesner sopra ricordata e da altri indizi[63], il naturalista cercò costantemente di reclutare, per la loro particolare predisposizione alla miniatura e all’incisione, artisti viventi oltralpe.

In realtà oggi è possibile stabilire con certezza che l’intagliatore tedesco proveniva da Firenze: anch’egli, dunque, era, assieme al fratello Joachim[64], un artista gravitante nell’orbita della corte medicea e del quale Aldrovandi poté garantirsi i servigi grazie ancora alla mediazione del Granduca Francesco I. Il suo nome comincia infatti a comparire regolarmente nei libri-paga del naturalista a pochi mesi di distanza da un viaggio compiuto da quest’ultimo nella città toscana nel giugno del 1586. Tale viaggio aveva senza dubbio anche lo scopo di reperire finalmente un intagliatore, come si deduce da un passo di una lettera indirizzata da Aldrovandi, in data 29 aprile 1586, al fiorentino Lorenzo Giacomini, che della faccenda aveva evidentemente già incominciato a interessarsi: "Dell’intagliatore non occorre che V.S. se ne dia per ora altro pensiero; perciò che s’io verrò costà, potremo meglio insieme provedere a quanto sia di mestieri"’[65].

[79] Una volta giunto a Firenze, il naturalista ebbe, in effetti, contatti con vari intagliatori o, almeno, raccolse notizie su di essi: nelle sue carte compaiono infatti i nomi di un "Lorenzo da Norimberga intagliatore" e di un "Mr. Pietro intagliatore, che ha ricapito nella stamperia overo libraria del Tosino a Fiorenza" (quest’ultimo da identificarsi, forse, con Pietro Stefanoni, il futuro editore delle stampe dei Carracci)[66]. Ma, come documenta una lettera a Francesco I, pubblicata a fine Settecento dal Fabroni, il contatto più fruttuoso fu quello stabilito, o meglio, come sembra, rinforzato, con i due fratelli Lederlein, già in rapporto col Ligozzi. Pregando il Granduca di fornirgli "ajuto & soccorso" a realizzare l’apparato iconografico delle sue opere ("la perfettione a queste mie fatiche, che sono le figure"), Aldrovandi così scriveva:

"Ho desiderato, Serenissimo Signore, d’haver uno di quei due intagliatori fratelli, ben conosciuti da Messer Jacomo Ligozza pittore di V.A. che ambi si trovano hora in Fiorenza, uno de quali è stato alcuni giorni in casa mia & m’ha lavorato, l’altro molto tempo è che sta in Fiorenza, che pur ho provato che vale assai, havendomi [80] intagliato alcune figure d’animali, & trovo che non possono costar meno d’un scudo per ciascuno taglio di figura. Ma perché questa spesa di intagliare in legno di pero è grave a me oltra modo, né da povero gentil’huomo, mi è stato perciò forza di ricorrere a l’A.V.S. & supplicarla con ogni affetto d’animo contentarsi d’esser lei quella, che con l’autorità propria, & spesa sua facci che uno di questi mastri s’impieghi in detta mia opera, ovvero far con l’autorità sua venire uno d’Augusta, o di Norimberga, o d’Anversa dove sono eccellentissimi intagliatori, che forsi s’havranno per la metà meno"[67].

Le speranze del naturalista non andarono, come sappiamo, deluse: dopo che già li aveva messi alla prova, uno del due fratelli probabilmente il più giovane, che, da Norimberga, aveva raggiunto l’altro già stabilitosi a Firenze prese la via di Bologna[68]. Naturalmente Cristoforo Coriolano non troncò di netto i rapporti con la città toscana: sappiamo per certo che egli, mentre oramai lavorava per l’Aldrovandi e probabilmente in cerca di qualche commissione che gli consentisse di integrare i piuttosto magri guadagni bolognesi, vi si recò almeno un paio di volte. Il primo soggiorno ebbe luogo nel 1590, il secondo nell’estate del 1597[69]. Quello del 1590 è documentato da una lettera, scritta dall’intagliatore, dopo il ritorno a Bologna, a Ferdinando I e nella quale egli offre i propri servigi al Granduca, pregandolo "di farli qualche [81] grazia, per la povera Sua famegliola, la quale ha gran bisogno dei raggi della sua reale liberalità"[70]. Scrive inoltre il Coriolano:

"Sono incirca due settimane ch’io essendo costì a Fiorenza presentai alla Serenissima Sua Altezza per l’Eccellentissimo Signore Don Giovanni mio Signore, intorno quaranta figure d’Uccelij varij intagliate dalla mia mano in legno di pero, con Una Supplica, nella quale raccomandai alla Serenissima Sua Altezza, lo povero stato mio, offrendone per umilissimo servo a tutto quello, la quale si degnarà di commandarmi".

Se, come ci pare piuttosto ovvio, questo Don Giovanni va identificato con il fratellastro di Ferdinando I, Giovanni de’ Medici, il passo offre un altro interessante indizio sull’attività dell’intagliatore tedesco e sui suoi rapporti di lavoro. Don Giovanni, infatti, oltre che uomo d’armi, era, come noto, "un fine dilettante d’architettura"[71], cui si dovettero i progetti delle facciate di S. Stefano dei Cavalieri in Pisa e del Duomo di Firenze, nonché quello della Cappella dei Principi in San Lorenzo[72]. Per realizzare i suoi modelli in legno, egli dunque si serviva certamente di falegnami e intagliatori e allora non è improbabile che anche il nostro Coriolano che lo definiva "mio Signore" abbia lavorato per lui. Non si può neppure escludere, anche se solo sulla base di una semplice coincidenza di date, che l’artista tedesco fosse legato al fratellastro del Granduca già prima del suo trasferimento a Bologna: egli infatti si mise al servizio dell’Aldrovandi proprio quando Don Giovanni lasciò Firenze per un paio d’anni e, dunque, si può anche ritenere che a spingerlo a questa scelta sia stata proprio la partenza di quello che era forse il suo protettore o datore di lavoro.

Come già si è rimarcato, con il solo aiuto, non quantificabile, [82] ma, probabilmente, assai limitato, di un nipote[73], Cristoforo Coriolano fu in grado di soddisfare pienamente le aspettative dello scienziato bolognese, realizzando per lui, con regolarità ed entusiasmo, alcune migliaia di xilografie. Neppure Aldrovandi, fors’anche allarmato dagli stretti rapporti che questi continuava a tenere con Firenze, credette inizialmente che una tale mole di lavoro potesse essere realizzata da un unico artista, tant’è che sul finire dell’estate del 1587, a pochi mesi dall’assunzione del Coriolano, egli pregò l’amico Camerario di trovare per lui a Norimberga un secondo intagliatore:

"Ego quam primum Icones quae numero 600 artificiosissime Florentino pictore [il Benini] biennij spacio summa industria delineatae, ab incisore (quem ego ex urbe Norenberga vestra Christophorum Leiderlein habeo) sculptae fuerint Historiam de avibus incudi subdere decrevi. Neque vero ita brevi meus iste Iconographus, quamvis se solum mihi meoque open consecravit tanto negocio finem imponet, si socium illi non adjunxero. Cum vero urbem vestram summis hac in re artificibus, fertilem esse non ignorem, cumque multa ibi conficiendo negocio instrumenta accommoda quae meus hic sculptor sibi deesse conqueritur inveniantur etiam atque etiam peto ut si quis praestanti ingenio juvenis qui hanc provinciam suscipere velit...haberi possit...per literas significare non dedigneris"[74].

Con le lodi all’incisore tedesco ha termine il paragrafo che Aldrovandi dedica ai propri artisti nell’Ornithologia, ma con questo non può dirsi affatto esaurito l’elenco di coloro che contribuirono a creare e ad arricchire l’intero suo corpus iconografico. Quelli ricordati, infatti, sono solo, con l’eccezione, peraltro forse, come si è visto, non assoluta, del Ligozzi, gli artisti che lavorarono a Bologna, per un periodo più o meno lungo, soprattutto, se non totalmente, per il naturalista, che ne seguirono direttamente i consigli e i suggerimenti, [83] mettendo il proprio talento al completo servizio delle scienze naturali. Ma specialisti poco conosciuti dell’illustrazione scientifica e, comunque, del piccolo formato, o artisti di grido, autori di un solo o di più disegni, ricompensati dal denaro o semplicemente dall’amicizia di Aldrovandi, molti altri furono i personaggi che lasciarono la loro traccia, oggi non sempre facilmente enucleabile, nei fogli bolognesi.

Come il più noto fratello Jacopo, lavorò per Aldrovandi anche Francesco Ligozzi. Menzionato da Aldrovandi tra coloro che gli offrirono aiuto ("Pictor D. Franciscus Ligocius frater D. Jacobi Ligotij, Venetijs mihi nonnulla depinxit")[75] non dovette però mai soggiornare a Bologna e, quindi, lavorare sotto la guida diretta del naturalista. Il fatto che rechi l’annotazione "Venetijs" pure un "Catalogo delli uccelli che si trovano apresso M. Francesco il fratello del Pittore del Granduca", porta, anzi, a concludere che l’artista abbia inviato fogli dipinti dal Veneto[76]. Non si può escludere che Aldrovandi lo avesse conosciuto in occasione di un viaggio compiuto alla fine del 1571, allorché, dopo aver toccato Verona, Vicenza e Padova, soggiornò "tredeci giorni" a Venezia, ove "appresso a diversi nobili et altri virtuosi vide et raccolse molte cose rare"[77].

Sappiamo che un altro Francesco Ligozzi stabilì rapporti con il naturalista: "Ricordo come a di 11 Genaro 1592 m’ha dato in nota il suo nome un pittore da Fiorenza chiamato Francesco Ligozzi Veronese"[78]. In questo caso dovrebbe [84] trattarsi di Francesco di Mercurio Ligozzi, cugino di Jacopo, che conosciamo infatti anche come artefice di tavole naturalistiche[79]. Alla data riportata nell’appunto aldrovandiano, l’artista era certamente a Firenze, avendo appena terminato di collaborare con Jacopo all’esecuzione di due grandi dipinti storici nel Salone dei Cinquecento in Palazzo Vecchio[80]: Si può quindi supporre che, trovandosi momentaneamente privo di commissioni, egli abbia offerto la propria opera al naturalista, di cui, a Firenze, era ben nota la necessità di avere continuamente artisti al proprio servizio. D’altra parte non si può escludere che già in precedenza alcune tavole miniate da Francesco di Mercurio fossero entrate a far pane della raccolta di Aldrovandi, senza che quest’ultimo ne conoscesse il vero autore. Il 3 luglio 1590 lo scienziato bolognese ringraziava Belisario Vinta e, tramite lui, il Granduca Ferdinando I per "i ritratti de gli animali" ricevuti da Firenze[81]. Pochi giorni prima, il 18 giugno, Francesco di Mercurio era stato pagato per aver eseguito copie di una decina di tavole del cugino Jacopo, raffiguranti "animali...Indiani"[82]. Ora, Se, sulla scorta di tali notizie, passiamo a un esame del corpus aldrovandiano, si individuano rapidamente, in un volume, almeno otto animali "dell’Indie" (rappresentati in sette fogli successivi)[83], che già figuravano nel gruppo di copie eseguite da Francesco di Mercurio. Vi sono dunque tutti gli elementi per ipotizzare che i sette fogli bolognesi non siano opera di Jacopo Ligozzi, come sino a oggi si è ritenuto (e come, forse, pensava lo stesso Aldrovandi), bensì copie di tempere di Jacopo eseguite dal cugino Francesco[84].

[85] Di Andrea Budana (o Pudana) non abbiamo notizie: solo ed è lo scienziato bolognese a dircelo che fu originario di Trento e allievo di Jacopo Ligozzi[85]: sicuramente, quindi, un altro artista mediceo operante a Firenze nella seconda metà del XVI secolo. Aldrovandi ricorda il suo nome in un elenco di amici e corrispondenti nel 1580[86] e, dunque, non è improbabile che attorno a questa data vada collocata la collaborazione tra i due. Se così fosse, si potrebbe anche supporre un soggiorno dell’artista a Bologna, anteriore a quello del Benini, ed egli finirebbe per fornire il volto a quel "Pictor florentinus conductus Florentia Bononiam, ut designaret, et pingeret aves", ricordato dall’Aldrovandi[87].

L’unica alternativa che si può ragionevolmente proporre è quella rappresentata dal senese Pastorino Pastorini, decoratore di vetrate, medaglista e ritrattista in cera. Il nostro scienziato lo menziona "inter ceraplastes primarios"[88] ed è inoltre molto probabile che lo abbia avuto, anche se per breve tempo, al proprio servizio. Sicuramente di mano del Pastorini erano i ritratti in cera della seconda moglie (sposata nel 1565) e della prima suocera di Aldrovandi che questi conservava nel museo[89] e dunque nulla vieta di pensare che lo scienziato abbia utilizzato l’artista, che già gli lavorava in casa per detti ritratti probabilmente all’inizio degli anni ‘70, pure per le illustrazioni naturalistiche[90]. Anche se non si [86] hanno notizie di una attività di questo tipo esercitata dal Pastorini, pensiamo tuttavia che questi non dovrebbe aver avuto eccessive difficoltà, da specialista delle ‘arti minori’ qual era, ad aderire alle richieste del naturalista. È sintomatico, inoltre, che quest’ultimo ricordi l’artista, nell’elenco di coloro che lo aiutarono, non tanto come medaglista e ritrattista, bensì con la chiara qualifica di "pictor"[91] e come tale il Pastorini nessun aiuto più prezioso poteva fornire al naturalista di quello di dipingergli animali e piante.

L’ultimo artista, tra quelli legati alla corte medicea, (di cui si rintraccia l’intervento, per quanto minimo, nel corpus aldrovandiano, è il tedesco Daniel Froeschl, "miniatore delle piante e degli animali" presso l'orto botanico di Pisa, la cui attività in Toscana, iniziata circa nel 1594 e protrattasi per un decennio, è stata ampiamente illustrata da Lucia Tongiorgi[92]. Di mano di questo pittore il naturalista bolognese ricevette nel 1599, tramite il direttore dell’orto pisano, Francesco Malocchi, la tempera di due uccelli, un cardinale e un tanagra.

Un altro medaglista e ceraplasta utilizzato da Ulisse Aldrovandi fu il frate agostiniano Timoteo Refati, originario di Mantova, ma operante anch’egli, almeno per un certo periodo, nella Firenze di Francesco I[93]. Forse proprio durante uno spostamento dalla città natale alla Toscana, nel 1570 circa, l’artista si fermò a Bologna dove eseguì medaglie in cera e [87] quindi in piombo raffiguranti Aldrovandi e una serie di suoi familiari: il fratello monsignor Teseo, la seconda moglie Francesca Fontana, la sorella Lucrezia Griffoni e il figlio naturale Achille[94]. Ma ritratti a parte, ben oltre sembra essere andato il contributo del Refati al museo del nostro naturalista. Nel solco di una tradizione, se non inaugurata, certo consacrata dal Riccio e negli stessi anni che videro l’affermarsi, oltralpe, dello ‘stile rustico’ di Bernard Palissy[95], anche questo artista mantovano si dedicava alla scultura naturalistica di piccolo formato. Per Aldrovandi sicuramente eseguì, forse addirittura con calco sul vivo, un ramarro verde "infusum ex plumbo albo, quod quasi spirare videtur, adeo est ad vivum infusum atque confectum"[96] non improbabile, quindi, che egli, come già forse il Pastorini, abbia eseguito, durante il soggiorno bolognese, anche tempere o disegni di "cose naturali".

Timoteo Refati non fu l’unico artista mantovano a lasciare traccia di sé nella raccolta aldrovandiana. Già sapevamo degli scambi di "molte belle pitture di piante ed uccelli" con il farmacista mantovano Ippolito Serena[97] in più ora, grazie [88] a pazienti ricerche condotte in preparazione alla mostra mantovana del 1979, dedicata al collezionismo gonzaghesco[98], è stato possibile individuare nel corpus bolognese anche la mano di Teodoro Ghisi, pittore controriformista al servizio dei Gonzaga, ordinatore anche di un singolare museo di storia naturale e infine, a conferma di una particolare attenzione per il dato naturalistico riscontrabile talvolta nelle opere di grande formato, pure illustratore scientifico. Grazie anche a indicazioni lasciate da Aldrovandi, fogli dipinti dal Ghisi e dall’anonimo pittore di Ippolito Serena, aventi per oggetto soprattutto animali e piante palustri, possono essere isolati all’interno della raccolta[99].

Ma, individuata o meno la loro mano, altri ancora furono i pittori che collaborarono con Aldrovandi. A un membro della famiglia bolognese di miniaturisti e animalisti Cerva, originariamente ingaggiato perché gli dipingesse "nonnulla emblemata" nella casa di campagna, il nostro naturalista fece pure eseguire "cicones quorundarn animalium"[100]. Ancora: nei manoscritti bolognesi si accenna a erbe e uccelli "pictae a M.ro Pelegrino"[101], da un artista, cioè, non meglio identificato il cui nome non ha mancato di accendere la fantasia di molti studiosi che hanno ipotizzato un intervento del Tibaldi nella raccolta di figure aldrovandiana. Pur non essendo in grado di produrre prove contrarie, siamo decisamente portati a escludere una simile attribuzione. Alla data in cui furono presumibilmente eseguite le figure suddette, attorno al 1570, Pellegrino Tibaldi, che già da parecchi anni aveva terminato le Storie di Ulisse a Palazzo Poggi a Bologna, era un artista oramai conosciuto, chiamato a lavorare in vane città italiane. E dunque, ancora una volta, Aldrovandi non avrebbe mancato di ricordare chiaramente e diffusamente l’intervento a proprio vantaggio di un tale artista; quella con il Tibaldi sarebbe stata una collaborazione di cui [89] orgogliosamente vantarsi e non da condannare all’obilo ri­cordando semplicemente ed una volta sola il nome Pellegrino.

Quanto poi a quel "Franciscus Cavalzonus" di cui si dice "saepenumero in nostro fuit Musaeo nonnullasque aves ad vivum in tabulis designavit"[102], va senz’altro identificato con Francesco Cavazzoni, pittore bolognese "allievo di Bartolomeo Passerotti, prima che passasse a’ Carracci"[103]. Sappiamo anzi con precisione che la xilografia di un passero indiano, ricavata da una tempera di Jacopo Ligozzi nel 1585[104], fu eseguita dall'incisore (probabilmente quell'Augusto Veneto già ricordato) appunto sul disegno eseguito sulla tavoletta da questo artista[105].

Infine un altro pittore bolognese utilizzato fu un Passarotti al quale furono date dal naturalista attorno al 1597 "undeci tavole per tredeci uccelli da designarli"[106]. Poiché già dal 1592 Bartolomeo Passarotti era morto, deve per forza trattarsi di uno dei suoi figli, probabilmente di quello stesso che, con il padre, visitò il museo aldrovandiano e che venne ricordato dal naturalista come "Passerotus iunior eius filius [di Bartolomeo] vir pariter in pictura egregius"[107]. Si può ragionevolmente proporre l’identificazione con Passarotto Passarotti poiché sappiamo per certo che questi collaborò con Aldrovandi, inviandogli, da Venezia, la figura di una testa di uccello, il calao rinoceronte[108].

Con questo nome termina l’elenco degli artisti che lavorarono per Aldrovandi o, almeno, di coloro dei quali sono restate tracce, nei manoscritti bolognesi, di una sicura collaborazione. [90] La lunghezza stessa della lista da un lato, nonché le migliaia di figure e xilografie realizzate dall’altro[109], oltre a giustificare la definizione di ‘bottega artistica’ aldrovandiana da noi usata, lasciano già intuire l’imponente sforzo finanziario sostenuto dallo scienziato bolognese per realizzare l’apparato iconografico della propria "Storia naturale". Per le sole incisioni furono pagate a Cristoforo Coriolano nel decennio 1587-97 "lire tre milla et trecento cinquanta otto, soldi quattordici et denari quattro" e a pittori e disegnatori, nello stesso periodo, "lire duemilla et cento cinquantanove, quattordeci, et sei denari"[110] di cui lire 1605 al solo Cornelio Schwindt nel periodo giugno 1590-agosto 1592[111]. Quella di un Aldrovandi morto in cupa miseria è sicuramente una leggenda, ma è altrettanto certo, tuttavia, che numerosi furono i momenti di difficoltà economica proprio a causa, soprattutto, dei pagamenti effettuati agli artisti. Giustamente il nostro scienziato parla di "gran spesa che portano questi studi delle cose naturali" non solo "nel investigarle" e "scriverle", ma anche "nel farle dipingere et intagliare"[112]. Costanti sono gli sforzi per non restar privo di artisti e sempre viva è la preoccupazione di veder inceppato o anche semplicemente rallentato il poderoso lavoro di raffigurazione della realtà naturale: da qui trovano spiegazione [91] sia la puntigliosa attenzione per gli spostamenti nella penisola di vari incisori[113], sia le notizie continuamente fornitegli, perché evidentemente sollecitate, su artisti particolarmente versati nell’illustrazione scientifica[114]. Proprio perché studiare la natura voleva dire anche, se non soprattutto, rappresentarla, riprodurla graficamente, continua e financo affannosa fu la ricerca di validi esecutori di tale riproduzione. Ovviamente gli occhi di Aldrovandi si appuntarono principalmente su giovani decoratori, miniatori, specialisti del piccolo formato, indubbiamente più disponibili nel fornire prestazioni di lungo periodo, ma non dovettero mancare anche collaborazioni con pittori affermati dell’ambiente bolognese, come già sembrano confermare gli interventi sicuramente accertati di Francesco Cavazzoni e del Passarotti.


[1] Aldrovandi, 1599, p. n.n., "Authoris diligentia/Designatores avium/ Artifices qui operam suam collocarunt in perficienda hac Historia".

[2] Bacci M., 1954, p. 52.

[3] Cfr. Giglioli, 1923-1924; Bacci M., 1954; Bacci M., 1963; Mostra di disegni, 1961; Berti, 1967, passim; Tongiorgi Tomasi, 1984 (a), pp. 47-56; Tongiorgi Tomasi, 1990, pp. 16-17. Quanto alla propensione, poi, della famiglia Ligozzi in generale, per le cosiddette ‘arti minori’, cfr. Brenzoni, 1965.

[4] Salerno, 1963, p. 201. Quanto agli interessi di Francesco I, giustamente scrive Berti, 1967, p. 111: "Francesco non amerà molto la troppo astratta astronomia o le pure scienze matematiche, ma preferirà il terreno tanto più sensuoso di quelle naturalistiche; e all’invenzione semplicemente razionale e utilitaria, le ricerche da lui promosse preferiranno ben più quella meravigliosa, preziosa: l’antidoto miracoloso, il moto perpetuo, il meccanismo ‘quasi soprahumano’".

[5] Kris, 1927.

[6] Cfr. Aldrovandi, 1907, pp. 25-26.

[7] ASMo, Archivio per materie - Storia naturale, busta 1: "Con l’occasione del presente latore che sarà M. Giacomo Ligozzi Veronese pittore Ecc.mo et condotto del Gran Duca di Toscana per dipingere varietà di piante et animali, dilettandosi infinitamente S.A. di simili studj sì come io ne posso far fede, havendomi mostrato questo maggio quando andai a Roma nel ritorno mio al fine di giugno molte scielte et pelegrine cose, havendomene fatto partecipe di molte. Et da quel viaggio di Roma io feci grand’acquisti havendo augumentato il mio Museo di più di cinquecento cose diverse parte di piante et animali et altre sorte di pietre. Essendo un pezzo che non ho havute lettere di V.E., mi pare tempo di svegliarla con l’occasione di questo Gentilhuomo il quale raccomando a V.S. degnandosi mostrarli qualche bella cosa". Questa lettera sembra essere sfuggita sino ad oggi agli studiosi, nonostante fosse già stata pubblicata da De Toni, 1920, pp. 158- 161.

[8] Prova di un’attività pittorica svolta dal Ligozzi a Bologna sul finire del 1577, potrebbe essere un elenco di "Pisces missi ad Magnum Ducem Hetruriae depincti a Dno. Jacobo Ligotio pictore eiusdem ducis", steso dall’Aldrovandi all’inizio del 1578: BUB, Ms Aidrovandi, 136, tomo VI, cc. 2 18-220.

[9] Mostra di disegni, 1961, p. 8.

[10] BUB, Ms Aldrovandi, 21, vol. II, c. 46.

[11] Ibidem, c. 604.

[12] BUB, Ms Aldrovandi, 6, vol. II, c. 129 bis.

[13] Aldrovandi, 1960-1962, p. 514.

[14] Lettera in data 19 settembre 1577, pubblicata da Mattirolo, 1903-1904, pp. 364-365.

[15] BUB, Ms Aldrovandi, 6, vol. I, c. 33v.

[16] Battisti, 1962, pp. 269; 462, n. 49. Per ii resto l’esistenza di questo artista è completamente ignorata; Giovanni Neri non viene neppure ricordato in opere altamente specialistiche quali quelle di Nissen, 1953, pp. 37, 83; Nissen 1966, pp. 59-60; Nissen, 1969-1978, vol. 1, p. 18; vol. II, p. 122.

[17] Il numero complessivo degli anni e dato dallo stesso Aldrovandi: BUB, Ms Aldrovandi, 21, vol. IV, c. 65. La data di inizio del rapporto di lavoro si ricava, poi, da una lettera del Maranta, datata 9 aprile 1570, in cui questi si mostra a conoscenza di una anzianità di lavoro del pittore di dodici anni (la lettera in Fantuzzi, 1774, pp. 192-193); a sua volta Aldrovandi, tra la fine del 1571 e l’inizio del 1572, dichiara di avere pittori alle proprie dipendenze da quattordici anni: BUB, Ms Aldrovandi, 91, c. 557v. È sintomatico inoltre che nella seconda metà degli anni '80 il nome di Giovanni Neri tenda a diradarsi, sino a scomparire del tutto come artista attivo, nei Mss aldrovandiani.

[18] In un passo della propria autobiografia Aldrovandi, 1907, p. 25 Aldrovandi stesso parla di "più di cento legni di uccelli dipinti dal mio pittore m. Gian Triulxi", favorendo in tal modo l’equivoco, sino a oggi perdurato, di chi ha pensato di identificare questo personaggio con il principale dei pittori al servizio del naturalista; né si è dato peso al trattino di penna esistente, nel Ms, sul solo cognome o tutt'al più si è stranamente parlato di cancellazione "con rabbia" (Battisti, 1962, p. 461, n. 41). Orbene in due elenchi comprendenti i nomi di coloro "qui nostra studia adjuvarunt", Aldrovandi nomina un paio di volte questo Triulxi in termini ben precisi: "Studiosus Gul.s Triulx Belga amanuensis meus"; "Bredanus Guilhelmus Triulx amanuensis meus" (BUB, Ms Aldrovandi, 110, c. 234 e c. n.n.; altre citazioni di questo personaggio in termini che avvalorano la sua attività di scrivano in BUB, Ms Aldrovandi, 136, tomo X c. 62; tomo XI, c. 246). A questo, inoltre, bisogna aggiungere che dovrebbe trattarsi di quello stesso "D. Guglielmus...du Trilux Belga Bredanus" che si laureò, in filosofia e medicina a Bologna nel 1579 (cfr. Notitia doctorum, 1962, p. 85); uno studente straniero, dunque, che, probabilmente, si mantenne agli studi lavorando come scrivano per Aldrovandi. A questo punto riesce problematico attribuire una qualsiasi forma di attività artistica al personaggio, stante anche la precisa divisione di compiti vigente tra i pittori e gli "amanuenses" al servizio dello scienziato bolognese (cfr., ad esempio, Aldrovandi, 1602, p. 3, "Ad Lectorem"). Infine, alla luce di queste considerazioni, il leggero tratto di penna sul cognome nella frase sopra ricordata, assume un significato ben preciso: Aldrovandi, nella fretta dello scrivere, ha semplicemente confuso i cognomi di due fra i suoi più stretti collaboratori e, cioè, Neri con Triulxi; il nome Gian, infatti, è proprio quello abbreviato del pittore e la m. minuscola premessa sta molto probabilmente per maestro.

[19] Buoni J.A., 1572, p. 45.

[20] Masini, 1666, vol. I, p. 628: "1575-Gio. Neri famosissimo Miniatore, e per la sua grande eccellenza nel miniare Uccelli, fu chiamato Gio. de gli Uccelli, e nello Studio di Ulisse Aldrovandi nel Palazzo Maggiore sono sette grandi volumi (oltre quelli delle piante de’ Semplici) con ogni sorte di specie d’Uccelli, di Pesci, di Quadrupedi, et d’altri Animali li quali libri sono stati la maggior parte miniati da lui". Sostanzialmente riprese dal Masini sono le scarse notizie sul Neri fornite da Lanzi, 1809, p. 60 e dall’Allgemeines Lexikon, 1907-1947, vol. XXV, p. 390.

[21] BUB, Ms Aldrovandi, 21, vol. IV, c. 65. Nei primi anni di attività il Neri fu affiancato da un altro pittore cui non è possibile dare un volto e che comunque nel 1567 è dato già per morto dall’Aldrovandi: BUB, Ms Aldrovandi, 66, c. 360v.

[22] Battisti, 1962, p. 268.

[23] Lettera da Praga in data 16 settembre 1560, già pubblicara da Fantuzzi, 1774, p. 174 e, nel nostro secolo, da Raimondi C., 1906, p. 50.

[24] BUB, Ms Aldrovandi, 66, c. 366v.

[25] BUB, Ms Aldrovandi, 91, c. 557v.

[26] BUB, Ms Aldrovandi, 83, vol. II, c. 125v. Del Neri, comunque, Aldrovandi possedeva anche una "imago trium Regum in ornamento seu cornice aurea", che aveva collocato nel suo museo fra due esemplari del mondo marino: Ms Aldrovandi, 116, c. n.n.

[27] Una delle rare eccezioni in BUB, Ms Aldrovandi, 21, vol. IV, cc. 64v-65, ove Aldrovandi ricorda che le pitture del Neri "erano in gran credito, che fino la b. m. del G. D. Francesco Medici, volse alquante cose di sua mano".

[28] Aldrovandi, 1599, p. nn., "Pictoris fraus".

[29] In Fantuzzi, 1774, p. 81.

[30] BUB, Ms Aldrovandi, 110, c. n.n.: "Studiosus vir Leo Folianus qui librum depingendum curavit in quo erant multae icones rarae a Jovanne de nigris pictore meo ex meis Archetipis translatae...".

[31] Di tali malattie parla Aldrovandi in alcune lettere a Francesco I, ora in Mattirolo, 1903-1904, pp. 364, 368.

[32] BUB, Ms Aidrovandi, 77, vol. II, c. 23.

[33] Non si trovano, infatti, per quel che ci consta, nei Mss aldrovandiani, cenni relativi al Benini anteriori al 1585 e, comunque, è senz’altro da escludere, come è stato affermato, che egli fosse attivo a Bologna già dal 1570. Da una lettera di Aldrovandi in Mattirolo, 1903-1904, p. 378 veniamo, inoltre, a conoscenza di un ritorno a Firenze dell’artista nel 1587, ritorno che ci sembra di poter ritenere, anche dal tono della lettera, definitivo; sono pertanto tutte da rivedere le notizie fornite sul Benini da Borroni, 1966. Attorno al 1597, comunque, l’artista è a Firenze, perché è in questa città che Aldrovandi, in un pro-memoria, pensa di scrivergli: BUB, Ms Aldrovandi, 136, tomo XXVI, c. 82v.

[34] BUB, Ms Aldrovandi, 136, tomo XI, c. 206.

[35] Lettera in data 26 luglio 1587 pubblicata da Mattirolo, 1903-1904, p.378 e in precedenza da Palagi, 1873, pp. 13-14.

[36] BUB, Ms Aldrovandi, 21, vol. II, c. 604; per la verità qui l’artista è ricordato come Ioannes Boninus, ma chiaramente si tratta di una nuova confusione di Aldrovandi che ha associato al cognome Benini il nome del proprio principale collaboratore Giovanni Neri. È, dunque, il pittore toscano quel personaggio ricordato in altra parte come "pictor alter illustris Florentia a me conductus, ut designaret aves, qui pinxit multa alia in meo Museo, et praeter id effigiem uxoris meae, et meam, quas servo in Palatij mei Aula S.ti Antonij": BUB, Ms Aldrovandi, 136, tomo XXIV, c. 29v. Il ritratto venne fatto, evidentemente, alla seconda moglie di Aldrovandi, Francesca Fontana, essendo la prima già morta nel 1565.

[37] La data di assunzione e ricavabile da una nota di pagamento in BUB, Ms Aldrovandi, 136, tomo XVI, c. 369v.

[38] Stando alla data di nascita fornita da Allgemeines Lexikon, 1907-1947, vol. XXXII, p. 281, lo Schwindt giunse a Bologna ventiquattrenne.

[39] BUB, Ms Aldrovandi, 21, vol. IV, c. 65.

[40] Cfr. Allgemeines Lexikon, 1907-1947, vol. II. p. 281.

[41] BUB, Ms Aldrovandi, 136, tomo XXXI, cc. 73-77.

[42] BUB, Ms Aldrovandi, 136, tomo XVI, c. 369v.

[43] Ad esempio da Battisti, 1962, p. 462, n. 49; Borroni, 1966.

[44] BUB, Ms Aldrovandi, 136, tomo XXIV, c. 25v: "Pictor, et designator noster Cornelius Francofurtensis".

[45] BUB, Ms Aldrovandi, 21, vol. N, c. 65. Elenchi di animali e piante disegnati dallo Schwindt su tavolette in RUB, Ms Aldrovandi, 118, cc. 1-24; Ms Aldrovandi, 136, tomo XVII, cc. 152v-199. Per la tecnica da lui usata nel realizzare tali disegni, si veda Aldrovandi, 1599, p. 3: "Illud tamen haud ita vulgatum adijcio, pennarurn seu calamorum Corvini Generis Avium, in iconibus in tabulis ex pyro sectis, multo quam cum aliarum calamis fieri solet, subtilius delineandis, ut postmodum sculpturo serviant, maximum usum esse, quod mihi e pictore meo Cornelo Svint Francofurtensi, iuvene huius artis peritissimo, exploratum est". Per quanto riguarda alcuni disegni di soggetti del regno vegetale cfr. Baldini-Tagliaferri, 1990.

[46] BUB, Ms Aldrovandi, 136, tomo XVIII, cc. 65-130: "Catalogus animalium variorum et insectorum depictorum a D.no Cornelio. Capta fuere haec insecta a fratre Gregorio Capuccino sub finem augusti a.° 1592".

[47] Presenti in BUB, Ms Aldrovandi, Tavole di animali, vol. VII.

[48] BUB, Ms Aldrovandi, 136, tomo XI, c. 197; probabilmente a questo artista si riferisce Aldrovandi quando scrive a Francesco I di un incisore "Venetiano, hora habitante in Bologna" (lettera in data 19 dicembre 1585, ora in Mattirolo, 1903-1904, p. 374). Fra coloro che gli avevano fornito aiuto, il naturalista ricorda anche un "Romanus magister Leonardus sculptor"~: Ms Aldrovandi, 110, c. n.n.

[49] Questa e la data che sembra porersi dedurre da una nota di pagamento (BUB, Ms Aldrovandi, 136, tomo XXVI, c. 73v) e che comunque viene ampiamente confermata dalle altre notizie che daremo qui di seguito. È da notare che solo a partire dal 1587 viene costantemente associato, nelle carte aldrovandiane, al termine incisore il possessivo mio; è questa una ulteriore conferma che solo con il Coriolano Aldrovandi instaura un rapporto stabile e duraturo, mentre quelli con altri intagliatori sono da ritenersi del tutto occasionali.

[50] Cfr., ad esempio, BUB, Ms Aldrovandi, 136, tomo XXIX, c. n. n.; tomo XXXI, c. 186.

[51] In Fantuzzi, 1774, p. 79.

[52] Ci sembra di poter confermare l’iporesi di Nissen, 1969-1978, vol. I, p. 122, attribuendo a! Coriolano anche la maggior parte delle xilografie poi apparse nelle opere aldrovandiane postume.

[53] BUB, Ms Aldrovandi, 136, tomo XXVI, C. 25.

[54] Cfr. Allgemeines Lexikon, 1907-1947, vol. VII, pp. 415-416; Nissen, 1953, p. 37.

[55] Choulant, 1945, p. 170.

[56] Vasari, 1906, vol. V, pp. 441-442; l’incisore è ricordato dal Vasari pure in una lettera del 20 settembre 1567 diretta a Vincenzo Borghini (ibidem, vol. VIII, p. 423).

[57] Allgemeines Lexikon, 1907-1947, vol. VII, pp. 415-416.

[58] Cfr. Samek Ludovici, 1974, p. 165; Bonsanti, 1976, p. 722; ma cfr. anche Dizionario enciclopedico Bolaffi, 1972, P. 436.

[59] Cfr., ad esempio, BUB, Ms Aldrovandi, 143, tomo III, cc. 126-126v.

[60] Ogni discussione perderebbe automaticamente di significato ove si accettasse la data di nascita, il 1560, a suo tempo assegnata all’artista di Aldrovandi, non si sa sulla base di quali elementi, da Le Blanc, 1854, P. 49.

[61] Aldrovandi ben conosceva, naturalmente, l’opera vasariana che pure possedeva personalmente: BUB, Ms Aldrovandi, 147, c. 236v.

[62] Cfr. Olmi, 1991.

[63] Cfr., ad esempio, BUB, Ms Aldrovandi, 143, tomo III, c. 126.

[64] Il nome di questo fratello compare in un promemoria dell’Aldrovandi, scritto nel 1587 (gentilmente segnalatomi da Alessandro Tosi): "Ricordo di scrivere a Joachim Leide Lederlein Coriolano intagliatore in Firenze" (BUB, Ms Aldrovandi, 136, tomo Xl, c. 162). La parola "Leide" risulta sbarrata da un tratto di penna, evidenziando che l’Aldrovandi stava leggermente sbagliando nello scrivere il nome tedesco dell’artista, uno sbaglio che peraltro non sarà evitato, come vedremo più avanti in una lettera a! Camerario, a proposito di Cristoforo (cfr. n. 198). Anni dopo Joachim verrà ricordato da Aldrovandi come mittente della pittura di un merlo: cfr. Aldrovandi, 1600, pp. 624-625.

[65] BRF, cod. Riccard. 2438.

[66] BUB, Ms Aldrovandi, 136, tomo XI, c. 31v;Ms Aldrovandi, 143, tomo III, c. 199. Sebbene ci sia pervenuta una sola lettera di Pietro Stefanoni all’Aldrovandi, inviata da Roma nel 1599 (cfr. infra, n. 291), i rapporti fra l’artista e il naturalista risalivano sicuramente a una data assai anteriore. Nelle sue carte, infatti, Aldrovandi ricorda più volte Pietro quale visitatore del suo museo, indicandolo come figlio di "Ms. Giacomo Steffanone vicentino" e con la qualifica ora di pittore, ora di intagliatore. Se è possibile, pur con grande cautela, avanzare l’ipotesi dell’identificazione con Stefanoni del "Mr. Pietro intagliatore" operante a Firenze, è perché Aldrovandi era solito prender nota degli spostamenti effettati dall’artista nel nord Italia, con l’intento, forse, di esser pronto a cogliere l’occasione favorevole per affidargli una parte dell’opera di intaglio delle "cose naturali" (Ms Aldrovandi, 143, tomo III, c. 126v). Queste annotazioni, come pure la visita al museo, sembra vadano datate immediatamente dopo il soggiorno a Firenze del naturalista e dunque è possibile che, proprio nella città toscana, sia avvenuta la conoscenza fra i due. Al di là, comunque, di questo specifico problema, i documentati rapporti Stefanoni-Aldrovandi inducono decisamente ad anticipare non di poco la data di nascita sin qui proposta per l’artista (1589), sulla quale, peraltro, già ha avanzato perplessità De Grazia, 1984, p. 268. Quanto al "Lorenzo da Norimberga", pensiamo debba trattarsi di quel "m. Lorenzo di Bisher", che compare in un promemoria di Aldrovandi (Ms Aldrovandi, 136, tomo XI, c. 162).

[67] Fabroni, 1791-1795, p. 299 (l’intera lettera, datata 26 gennaio 1587, alle pp. 298-302). Nonostante non si faccia il nome dei due artisti, le coincidenze sono troppo evidenti per dubitare che si tratti dei fratelli Lederlein. Con grande cortesia, ha richiamato la mia attenzione su questo documento Lucia Tongiorgi Tomasi, che sentitamente ringrazio.

[68] Per sorvegliarne e guidarne più attentamente l’opera, Aldrovandi sistemò l’incisore in una casa di sua proprietà, situata accanto alla sua; quella stessa casa nella quale, anni dopo, si sarebbe installato, come abbiamo visto, il tipografo Franceschi; cfr. BUB, Ms Aldrovandi, 21, vol. IV, cc. 88-88v: "Ms. Christoforo mio intagliatore, havendo ritrovato una casa, si partirà, e subito s’accomoderanno le finestre, e quello, che farà bisogno per la stampa".

[69] BUB, Ms Aldrovandi, 136, tomo XXVI, cc. 80-82v. È interessante notare che, neppure mentre era lontano da Bologna, Coriolano sospendeva il lavoro per Aldrovandi: ad esempio, durante questo secondo soggiorno fiorentino, egli trovò il modo di intagliare una settantina di tavole, per lo più con immagini di mostri (cfr. ibidem).

[70] La lettera, in ASF, Mediceo del Principato, f. 817, c. 24, già segnalata in Allgemeines Lexikon, 1907-1947, vol. VII, p. 416, è stata pubblicata da De Rosa, 1981, pp. 394.

[71] Berti, 1967, p. 205.

[72] Cfr. Bacci P., 1923; Daddi Giovannozzi, 1936; Daddi Giovannozzi, 1937-1940; Berti, 1967, pp. 203-209.

[73] Cfr. Aldrovandi, 1599, p. n.n., "Praefatio ad Lectorem". Non si è trovato traccia di questo personaggio nei Mss. aldrovandiani.

[74] UBE, Briefsammlung Trew, Aldrovandi, n. 17. Come si vede, da questa lettera, scritta da uno dei segretari di Aldrovandi con firma autografa di quest’ultimo, si ricava l’originario cognome tedesco dell’intagliatore, che risulta peraltro qui essere, per errore, Leiderlein invece di Lederlein.

[75] BUB, Ms Aldrovandi, 110, cc. n.n.

[76] BUB, Ms Aldrovandi, 136, tomo VII, c. 23 (in Catalogo dei manoscritti, 1907, p. 122, la parola "fratello" è letta erroneamente come "figlio"). Non è detto che l’elenco si riferisca a pitture, piuttosto che a uccelli vivi o imbalsamati. Annotava comunque Aldrovandi a proposito degli ultimi sei esemplari della lista: "Si procureriano d’haverli o, vivi o, morti freschi". Queste testimonianze della presenza del fratello di Jacopo Ligozzi in terra veneta, confermano le notizie biografiche fornire su di lui da Fumagalli, 1986.

[77] Aldrovandi, 1907, p. 17.

[78] BUB, Ms Aldrovandi, 136, tomo XVI, c. 232v; Ms Aldrovandi, 143, IX, c. 293v.

[79] Cfr. Tongiorgi Tomasi, 1984 (a), p. 54, n. 61.

[80] Cfr. Allegri-Cecchi, 1980, pp. 372-373.

[81] Mattirolo, 1903-1904, p. 385.

[82] Cfr. Tongiorgi Tomasi, 1984 (a), p. 54, n. 61.

[83] BUB, Ms Aldrovandi, Tavole di animali, vol. I, cc. 152-158.

[84] Sulla base di una comunicazione orale di Silvia Meloni, questo intervento di Francesco di Mercurio nel corpus aldrovandiano è dato per certo da Rodighiero, 1989.

[85] BUB, Ms Aldrovandi, 136, tomo VIII, c. 53v.

[86] Ibidem. Due volte, poi, è ricordato il Budana tra coloro che aiutarono il naturalista: BUB, Ms Aldrovandi, 110, cc. n. n.

[87] BUB, Ms Aldrovandi, 136, tomo XXIV, c. 26.

[88] BUB, Ms Aldrovandi, 21, vol. II, c. 609.

[89] Ibidem.

[90] Pastorini è ricordato chiaramente da Aldrovandi tra coloro "qui visitarunt Musaeum nostrum": BUB, Ms Aldrovandi, 110, c. n.n. Il lavoro per il naturalista fu probabilmente eseguito attorno al 1572, quando l’artista si trovava a Bologna o comunque in Emilia: per i suoi spostamenti cfr. Allgemeines Lexikon, 1907-1947, vol. XXVI, p. 289 e per quanto riguarda, più in particolare, la sua attività di medaglista e incisore di conii presso la corte di Ferrara, a Reggio Emilia e a Parma all’inizio degli anni ‘50, Ronchini, 1870 e Rossi U., 1888.

[91] BUB, Ms Aldrovandi, 110, c.n.n.

[92] Tongiorgi Tomasi, 1980, pp. 517-519 e, soprattutto, Tongiorgi Tomasi, 1988; ma si veda ora anche Tongiorgi Tomasi, 1991, passim. Lasciata La Toscana tra il 1603 e il 1604, Froeschl passò al servizio di Rodolfo II a Praga.

[93] Secondo quanto affermato dallo stesso Aldrovandi: "...apud ser. mum piae mem. Magnum Ducem Franc.m ad vivum ex cera fingebat figuras varias hominum et mulierum, plantarumque, et brutorum etiam in figura rotunda adinstar numismatum, inclusas in capsula ex aliqua nobili materia confecta, et in cera scalpello auferendo, vel addendo elaborabat tanquam statuarius esset, varijsque fragmentis cerarum effingebat figuras illas, et ad vivum omnia, quae ob oculos ponebantur, ut quasi spirare, et animum heret, et sensum viderentur suisque coloribus congruis delineata conspiciuntur" (BUB, Ms Aldrovandi, 21, vol. II, c. 608).

[94] Ibidem, cc. 608-609; BUB, Ms Aldrovandi, 136, tomo XXIV, c. 30v. Abbiamo fissato al 1570 la presenza dell’artista a Bologna, sapendo che il figlio di Aldrovandi, Achille, nato nel 1560, fu ritratto "aetatis decem annorum". È vero che poi il naturalista afferma di essere stato a sua volta ritratto all’età di quaranta anni, cioè, quindi, nel 1562, ma per questa incongruenza esistono valide spiegazioni: o il nostro scienziato, come spesso gli accade, è stato molto impreciso riguardo alla propria età ringiovanendosi, oppure, il che è più probabile, il suo ritratto, e solo questo, fu eseguito durante la visita a Mantova, appunto nel 1562. Conosciuto pertanto il Refati nella sua città natale, Aldrovandi potrebbe poi, più tardi, averlo invitato a Bologna.

[95] Cfr. Kris, 1926.

[96] BUB, Ms Aldrovandi, 136, tomo XXIV, c. 30v. Tanta doveva essere la fedeltà con cui l’animale era stato riprodotto, che Aldrovandi ritenne opportuno collocare il pezzo nel suo museo: Ms Aldrovandi, 116, c. n.n. Che il Refati fosse di suo fortemente interessato al mondo della natura, sembra confermato dalla presenza, fra le carte aldrovandiane, alla data 1570, di un "Catalogus insectorum quos cupit Rev. Timoth. Refatus": Ms Aldrovandi, 136, tomo V, cc. 59-60.

[97] Aldrovandi, 1907, P. 16.

[98] La scienza a corte, 1979.

[99] Cfr. ibidem, pp. 69-77.

[100] BUB, Ms Aldrovandi, 136, tomo XXIV, c. 30.

[101] BUB, Ms Aldrovandi, 136, tomo V, cc. 97v-108.

[102] BUB, Ms Aldrovandi, 136, tomo XXIV, c. 30.

[103] Malvasia, 1686, p. 72.

[104] Cfr. Mattirolo, 1903-1904, p. 374.

[105] BUB, Ms Aldrovandi, 136, tomo XI, c. 197.

[106] BUB, Ms Aldrovandi, 136, tomo XXVI, c. 53v.

[107] BUB, Ms Aldrovandi, 136, tomo XXIV, c. 29v.

[108] Cfr. Aldrovandi, 1599, p. 804 (xilografia a p. 805). L’acquerello, peraltro non di eccelsa fattura, è probabilmente quello in BUB, Ms Aldrovandi, Tavole di animali, vol. VI, c. 92.

[109] Poche cifre sui ritmi di crescita: negli anni 1567-68 Aldrovandi dichiara di possedere circa cinquecento pitture di uccelli, seicento di "insetti et altri animali quadrupedi e aquatili di varie sorti", seicentoquarantatre di piante (BUB, Ms Aldrovandi, 66, c. 356v; Ms Aldrovandi, 136. tomo III, c. 9v); trent’anni dopo, nel 1598, parla di ben "ottomila figure essendo già tagliate insino tre milla" (BUB, Ms Aldrovandi, 136, tomo XXVII, cc. 93-93v); infine il 12 luglio 1599 il numero delle tavolette di legno disegnate e incise risulta essere 3647 (BUB, Ms Aldrovandi, 136, tomo XXVIII, c. 282).

[110] BUB, Ms Aldrovandi, 136, tomo XXVI, c. 73v. Aggiungendo le somme spese nel periodo 1584-1597 per i libri e gli scrittori abbiamo un totale di oltre 9.000 lire (c. 74).

[111] BUB, Ms Aldrovandi, 136, tomo XVI, e. 369v.

[112] Lettera a Francesco I di Toscana in data 23 settembre 1586 ora in Mattirolo, 1903-1904, p. 377. Né grandi entrate provenivano all’Aldrovandi dalla vendita delle proprie opere: il 6 ottobre 1600 su 105 copie del volume I dell’Ornitbologia ne erano state donate ben 69 e solo un terzo, quindi, vendute (BUB, Ms Aldrovandi, 136, tomo XXVIII, c. 4v).

[113] BUB, Ms Aldrovandi, 143, tomo III, c. 126v e c. 199 (ma cfr. supra, n. 190).

[114] Cfr., ad esempio, BUB, Ms Aldrovandi, 136, tomo XXVII, c. 249v-250.