Lessico


Marco Polo si fermò sulle rive del Mar Nero


Storia del Milione
di Marco Polo

ossia
di Messer Marco detto Milioni

La banconota raffigurante Marco Polo
emessa dal 1982 al 1988

da 
Marco Polo - Il Milione
a cura di Ranieri Allulli
Arnoldo Mondadori Editore - 1954

Una delle innumerevoli edizioni del Milione

Il nome Milione

Il racconto del Ramusio [riportato nel capitolo precedente] sarebbe venuto a lui giovinetto, com’egli stesso dichiara, per tradizione, avendolo cioè udito "molte fiate a dire dal Magnifico messer Gasparo Malipiero, gentiluomo molto vecchio e di singolar bontà e integrità..." il quale asseriva "d’averlo inteso ancor lui da suo padre, ed avo; e d’alcuni altri vecchi uomini suoi vicini..." Ma se il valore di questo racconto bisogna riconoscere che non va oltre quello di una pura curiosità aneddotica, alla cui autenticità neppur giova l’asserita tradizione risalente a tempi molto lontani dal narratore, potendovisi sempre ravvisare una invenzione della fantasia popolare, ben altra importanza ha invece quel che vi si dice nel seguito, là dove cioè viene spiegato (come finora nonostante il molto arzigogolare fattovi sopra da diversi commentatori non si è riusciti a far meglio) l’origine del nomignolo Milione dato a Marco dai motteggevoli concittadini e dalla sua persona trasmessosi poi alla sua casa e al suo libro.

"... divulgata che fu questa cosa [ossia la notizia del convito] per Venezia, subito tutta la città, sì de' nobili come dei populari, corse a casa loro ad abbracciarli e fare tutte quelle carezze e dimostrazioni di amorevolezza e riverenzia che si potessero immaginar maggiori. E crearono messer Maffio, ch’era il più vecchio, in uno allora molto onorato magistrato nella Città, e tutta la gioventù ogni giorno andava continuamente a visitare e trattenere messer Marco, ch’era umanissimo e graziosissimo. E gli dimandavano delle cose del Cataio, e del gran Cane, quale rispondeva con tanta benignità e cortesia che tutti gli restavano in uno certo modo obbligati. E perché nel continuo raccontare ch’egli faceva più e più volte della grandezza del gran Cane, dicendo l’entrate di quello esser da 10 in 15 milioni d’oro, e così di molte altre ricchezze di quelli paesi referiva tutte a milioni, gli posero per cognome messer Marco detto Milioni che così ancora ne libri pubblici di questa repubblica, dove si fa menzion di lui, ho veduto notato. E la Corte della sua casa, da quel tempo in qua, è ancor volgarmente chiamata del Millioni."

Nella carcere di Genova

Con il ritorno in patria e il riconoscimento dei parenti non ebbero però fine le avventure di Marco che, prigioniero nella battaglia di Curzola, ritroviamo nel 1298 in una carcere di Genova, dove ha per compagno di pena un altro prigioniero di guerra di più vecchia data, il letterato pisano Rustichello, catturato alla battaglia della Meloria, da cui era uscita infranta per sempre la potenza marinara di Pisa. Dall’incontro di questi due uomini così singolari e diversi, che un triste caso avvicinava, nacque l’idea del libro destinato a divulgare il racconto dei viaggi dei Polo. Messer Rustichello, già noto volgarizzatore delle leggende del ciclo bretone o di Artù, attese a scriverlo sotto la dettatura di Marco e forse giovandosi anche di note e di appunti che questi molto probabilmente dovette farsi venire da Venezia. La redazione, come già per la materia artusiana, fu in prosa francese, tutta mescidata di voci e forme italiane, che nel suo ibrido accozzo voleva essere un omaggio e un riconoscimento di superiorità per quella lingua d’oïl ritenuta dai letterati del tempo e dallo stesso Brunetto Latini, maestro di Dante, la parleure plus delitable et plus commune a toutes gens.

La prigionia di Marco durò un anno soltanto. Nel 1299, segnata la pace tra Genova e Venezia, egli poté tornare in patria, dove visse ancona alcuni lustri di vita tranquilla e onorata, tra le pubbliche attività cittadine e le cure della famiglia che gli cresceva intorno prosperosa e felice. La morte lo raggiunse più che settuagenario, nel 1325; circa un anno dopo che egli aveva dettato le sue disposizioni testamentarie in favore della moglie e delle sue tre care figliuole Bellela, Fantina e Moreta. Ma questa del 1325 non è peraltro una data sicura. Certa è invece quella del 1307, che documenta i rapporti intercorsi tra Marco e Tibaldo di Chépoy, inviato speciale presso la Repubblica Veneta di Carlo di Valois, fratello del re di Francia Filippo il Bello.

In quest’anno Marco faceva dono di un esemplare del suo libro all’ambasciatore francese, che forse gliel’aveva richiesto per fame omaggio al suo signore, per incarico del quale si trovava da due anni a Venezia a crearvi le premesse diplomatiche per una spedizione militare nel vicino Oriente, dove il Valois accampava diritti al trono di Costantinopoli. La data è assai importante per le fortune del Milione, perché segna il principio del suo straordinario diffondersi nel ceto dei nobili e alle corti dei principi. Né il tempo valse ad affievolirne il successo, che anzi si accrebbe di continuo, come è attestato, per il Tre e il Quattrocento, dai numerosi codici manoscritti, redatti negli idiomi più svariati; e, per i tempi moderni, limitando la citazione a quelle di maggiore importanza, dalle edizioni della Société de Géographie di Parigi (1824); del Baldelli-Boni (1827); del Pauthier (1865); del colonnello Yule (1874); del Cordier (1908) e, da ultimo, da quella integrale, anzi la prima edizione integrale, pubblicata presso l’editore Olschki di Firenze (1928) e poi anche presso la Casa Routledge di Londra (1931) dall’insigne romanista Luigi Foscolo Benedetto.

Il testo franco-italiano più antico

I manoscritti del Milione, sparsi un po’ dovunque nelle biblioteche e negli archivi d’Italia e d’Europa, assommano con gli ultimi ritrovamenti a centocinquanta: ma il fatto che si presentino redatti in svariati idiomi (francese, latino, italiano e dialetto veneto) e, inoltre, in molte guise raffazzonati e abbreviati, sta a dimostrare che il libro ebbe fin dal suo primo apparire quella maggiore diffusione consentita a quei tempi dalla mancanza della stampa*.

* Il Milione tradotto in tedesco fu stampato la prima volta a Norimberga nel 1477. Circa l’arte della stampa è interessante ricordare quanto pure è stato detto sul merito che spetterebbe a Marco Polo della sua conoscenza fra noi, per avere egli riportato a Venezia dei legni che già erano serviti alla stampa di libri cinesi. Da questi legni Panfilo Castaldi da Feltre avrebbe tolto l’idea della impressione silografica e il Gutenberg, che aveva sposato una Contarini di Venezia, sarebbe giunto nel 1450 all’invenzione della stampa a caratteri mobili.

Il codice più importante, perché ritenuto il più vicino all’originale perdutosi, è il francese 1116 (antico 7367) della Nazionale di Parigi, un in folio pergamenaceo dei primordi del secolo XIV. La lingua del ms., un francese fortemente italianizzato e riboccante di espressioni peculiari del nostri narratori dugenteschi, consente di ravvisare in esso, fra tutte le redazioni a noi giunte sinora, la copia che più s’è mantenuta fedele al primo dettato.

Fu edito la prima volta nel 1824 da J.B.G. Roux de Rochelle; e poiché tale pubblicazione iniziava un  Recueil de voyages et de mémoires promosso dalla Société de Géographie di Parigi, è indicato come testo geografico. Non ostante errori numerosi di trascrizione e di interpretazione, la stampa di questo ms. ha segnato al dire del Benedetto una tappa decisiva negli studi poliani.

Henry Murray prendeva a base della sua versione inglese* il testo edito dal Roux; Vincenzo Lazari lo traduceva in italiano**, ma (il giudizio è pure del Benedetto) per lo più infelicemente e coll’omissione dei passi d’interpretazione un po’ ardua.

* The travels of Marco Polo... Edimburgo, 1844.

** I viaggi di Marco Polo veneziano tradotti la prima volta dall’originale francese di Rusticiano di Pisa e corredati d’illustrazioni e di documenti; Venezia, 1847.

Il rimaneggiamento di Grégoire

Seguono i manoscritti facenti capo alla copia offerta da Marco Polo in Venezia a Tibaldo de Chépoy, con asserite tracce di revisione che sarebbero dovute allo stesso autore.

Su tre di questi mss. Guillaume Pauthier fondava la sua edizione parigina*, pubblicata in due volumi, ricca di commenti storico-geografici tratti da scrittori orientali: arabi, persiani e cinesi, con cui il noto sinologo francese intendeva presentare la redazione primitiva del libro, rivista da Marco Polo medesimo e da questi donata, nel 1307, all’inviato di Carlo il Valese.

* Le livre de Marco Polo citoyen de Venise... Paris, 1865.

Erano così appagati i voti del medievalista Paulin Paris che nel 1850 aveva espresso il proprio rammarico perché i dotti membri della Société de Geographie, nel farsi editori della relazione francese del viaggio di Marco Polo, si fossero preoccupati solo di pubblicare il testo più antico, e avessero perciò preferito la redazione scorretta del Pisano a quella meno antica, di sette a otto anni, ma non meno autentica, non meno autorizzata dal grande viaggiatore e d’altra parte offerente il merito d’una forma elegante, liberata da tutte le oscurità che deturpano il primo lavoro*.

* Nouvelles recherches sur les premières redactions du Voyage de Marco Polo; Parigi, 1850.

Quello dei tre codici, che il Pauthier ha assunto a base fondamentale della sua edizione, reca, prima del prologo, la seguente avvertenza vergata in rosso: Ci commencent les rebriches de cest livre qui est appellez: Le Divisement du Monde, le quel, ie, Grigoires, contrescris du livre de Messire Marc Pol, le meilleur citoien de Venisse, créant Crist.

Il Pauthier pone in rilievo il fatto che il copista dichiara di avere contrescrit, ossia trascritto, copiato e non già tradotto. Fa pure notare che il prologo a preambolo in detto codice differisce dall’apostrofe rivolta ai re, imperatori, ecc., col linguaggio enfatico particolare a Rustichello: e che in esso si trova quasi sempre scritto tataro in luogo di tartaro, che è del nome un’arbitraria alterazione. Da prima G. Bianconi, con cui il Pauthier ebbe aspra polemica, e da ultimo il Benedetto hanno negato a questo secondo gruppo di manoscritti il carattere di maggiore autenticità che ad esso deriverebbe dall’asserita revisione di Marco Polo.

In luogo di contrescris della citata avvertenza, il Benedetto legge contrefais e, dopo minuto esame dell’intero gruppo, conclude trattarsi non già di trascrizione dell’opera ma di vero e proprio rimaneggiamento operato dall’ignoto Grigoires. Di costui infatti, all’infuori del nome nulla ci è dato sapere. Certo più che a semplice copista vien fatto di pensare a un letterato che si trovasse in Venezia a far parte del seguito di Tibaldo. Ad ogni modo si deve a lui se il libro di Marco Polo ebbe in Francia la diffusione di un fortunato romanzo e trovò lettori particolarmente entusiasti nel ceto dei nobili e alle corti dei principi.

I codici di questa famiglia scrive il Benedetto sono, materialmente, tra i più belli. Ed è interessante notare, quando si contemplano le miniature di cui molti di essi sono arricchiti, come anche in esse si esprima, accanto ai motivi caricaturali e fantastici, il senso delle navigazioni fortunose e delle avventure lontane. I codici di questa famiglia scrive il Benedetto sono, materialmente, tra i più belli. Ed è interessante notare, quando si contemplano le miniature di cui molti di essi sono arricchiti, come anche in esse si esprima, accanto ai motivi caricaturali e fantastici, il senso delle navigazioni fortunose e delle avventure lontane.

Del testo del Pauthier si è avuta, or è circa un trentennio, una ristampa rammodernata a cura di A.J. H. Charignon, Le livre de Marco Polo, ecc., Pechino, 1924-26.

La versione toscana detta della Crusca

Quasi contemporanea al rimaneggiamento del Grigoires è la versione toscana eseguita anch’essa al principio del Trecento da un anonimo traduttore sopra un esemplare della primitiva redazione franco-italiana.

Dei cinque apografi che ci restano dell’originale perdutosi, il ms. II.IV.88 della Biblioteca Nazionale di Firenze è il più importante, oltre che per i pregi della lingua e dello stile, per la seguente dichiarazione che ne autenticherebbe la data di composizione e che trovasi scritta sopra uno dei fogli di guardia: "Questo libro si chiama la navigagione di messere marco polo nobile cittadino di Vinegia scritto in firenze da Niccholo Ormanni mio bisavolo da lato di mia madre, quale morì negli anni di christo mille trecento nove quale la portò mia madre in casa nostra del Riccio; ed è di me Piero del Riccio e di mio fratello, 1452."

Questo codice, per essere stato assunto dagli Accademici della Crusca tra le fonti ufficiali della lingua, è designato con l’appellativo di Ottimo. Fu stampato più volte: la prima, dal conte Baldelli-Boni (Il Milione di M. Polo, testo di lingua del secolo decimoterzo... Firenze, 1827). Seguirono la ristampa del Gamba (Venezia, 1829); quella per i tipi del Gondoliere (1841), facente parte della Biblioteca classica italiana di Scienze, Lettere ed Arti disposta e illustrata da Luigi Carrer; l’edizione parmense (1843) di P. Fiaccadori; l’edizione udinese (1851) a cura di O. Turchetto; la fiorentina (Le Monnier, 1863) curata da Adolfo Bartoli: I viaggi di Marco Polo secondo la lezione del codice magliabechiano più antico, reintegrati col testo francese a stampa*.

* Piace riportare la dedica che il Bartoli fa del volume al grande patriota dalmata Niccolò Tommaseo: "Questa ristampa dei Viaggi di Marco Polo, disceso per lignaggio da Sebenico e nato in Venezia, io sono ben lieto che sia intitolata al nome venerato di V.S., la quale dal nativo Sebenico fu conceduta all’Italia, perché difendesse Venezia contro l’oppressione straniera, e per l’Italia combattesse instancabile, colla parola potente e col magnanimo esempio."

Tra le edizioni più recenti citeremo: Il Milione secondo il testo della Crusca reintegrato con gli altri codici italiani a cura di Dante Olivieri (Bari, 1912), nella Collezione Scrittori d’Italia, e a cui seguiva nel 1928 una seconda edizione riveduta; e Il Milione commentato e illustrato da Onia Tiberii (Firenze, 1916).

Il Benedetto non è troppo benevolo a questo testo della Crusca. Già in un articolo apparso nel Marzocco del 27 gennaio 1924 (Il vero testo di M. P.) egli faceva risalire ad Apostolo Zeno* la responsabilità di avere per primo consigliato la pubblicazione di un testo "ingiustamente qualificato per ottimo, mentre gli spetterebbe assai meglio l’appellativo contrario". Perciò egli giudica sfavorevolmente tutte le ristampe ora citate, nessuna delle quali sarebbe stata condotta con criteri scientifici.

* Apostolo Zeno aveva scritto nelle sue note alla Biblioteca dell’Eloquenza italiana del Fontanini: "Una ristampa di questi viaggi riscontrata con testi a penna sarebbe al pubblico molto accetta e questa non si potrebbe meglio ottenere se non dai signori accademici della Crusca presso i quali se ne conserva l’ottimo testo."

Per il valente romanista è chiaro che non si possa riuscire a una degna edizione di "questo nostro venerando Marco Polo toscano", quando si manchi di procedere a una collazione dei superstiti del piccolo gruppo da lui bene individuato: manoscritti differenti spesso l’uno dall’altro e piuttosto sommarii che riproduzioni dell’originario volgarizzamento. Ma una volta ricostruito in tal guisa l’archetipo smarritosi, il Benedetto non esita a dichiararne il testo un prezioso elemento per il restauro della redazione franco-italiana, di cui esso rappresenterebbe un terzo esemplare. Inoltre, con le parole che qui riportiamo, riconosce, come meglio non si sarebbe potuto fare, le non poche benemerenze dell’ignoto traduttore:

"Non si può negare che il traduttore sia stato di una certa abilità nel ridurre il testo franco-italiano di cui si valse, e che era sicuramente completo: sono soppressi sistematicamente i soli capitoli di carattere storico-militare, sono sacrificati quasi sempre, con felice senso del rilievo, i particolari meno importanti, in modo da conservare all’esposizione le primitive linde essenziali e da darci talvolta, dove il libro gl’ispiri un più vivo interesse, una traduzione oltremodo aderente e fedele. Soprattutto encomiabili la tranquilla concretezza, la franchezza spigliata con cui assolve il suo compito di semplice volgarizzatore: senza amplificazioni, senza toni violenti, senza sviluppi arbitrari. Di suo appena qualche glossa bonaria, d’intenzione esegetica."

Le redazioni venete

Al rimaneggiamento del Grigoires e alla versione toscana si accompagna una redazione veneta del Milione derivata anch’essa direttamente da un esemplare del testo franco-italiano. Tale redazione, che è perciò tra le più antiche, è attestata da numerosi codici ripartiti dal Benedetto in più famiglie e la cui genealogia è resa oltremodo complicata dalle molteplici redazioni secondarie e dalle ritraduzioni che se ne fecero posteriormente in latino, toscano, tedesco e spagnuolo.

Degli esemplari a penna ricorderemo, per la sua antichità (primi decenni del sec. XIV), il ms. 3999 della Biblioteca Carsanatense pervenutoci allo stato di frammento; il riccardiano 1924 della prima metà del sec. XIV; il padovano C.F. 211 trascritto, secondo è attestato da una dichiarazione autografa, dal veneziano Niccolò Vitturi il 24 luglio 1445; il ms. 557 della Biblioteca Civica di Berna, del sec. XVI. Appartiene al sec. XV il codice berlinese Hamilton 424, detto soranziano perché posseduto già dal senatore Jacopo Soranzo e redatto, come attesta lo Zurla, "in dialetto veneto misto di toscano, sommamente rozzo e spropositato". Il Bartoli, che lo credeva perduto e solo lo conobbe attraverso "i non lunghi tratti" lasciati dallo stesso Zurla, lo ritenne una traduzione di testo assai antico, giacché riscontrava in esso "molte cose che mancano a quasi tutti i codici italiani e latini". Dello stesso avviso è l’Olivieri, che ha studiato il ms. in parola, trovandolo anch’egli "nonostante i suoi grossi equivoci e le sue oscurità frequentissime, quasi sempre più ricco ed abbondante" che non il testo della Crusca. Egli si è perciò valso particolarmente di questo codice, oltreché di quello padovano, bernese ecc., per reintegrare, in quanto era possibile al confronto col testo francese, la lezione dell’Ottimo, che ancor egli credette di dover porre a base della sua già ricordata edizione del Milione (Bari, 1912).

Le vecchie edizioni venete a stampa furono però condotte sopra un codice di cui il ms. 5881 della Biblioteca Marciana dovrebbe essere, secondo il Benedetto, "un parente vicinissimo".

Alla prima di esse, stampata in Venezia "per Zoanne Baptista da Sessa Milanese" nel 1496, tennero dietro numerose ristampe, l’ultima delle quali vide la luce in Treviso per i tipi del Righettini nel 1672.

Al Museo Britannico si conserva una copia dell’edizione stampata a Venezia da Paolo Danza il 1533 con questa curiosa didascalia: "Opera stampata novamente delle meravigliose cose del mondo: cominciando da Levante a ponente fin al mezo dì. El mondo novo e isole lochi incogniti e silvestri abondanti e sterili e dove abonda loro e largento e Zoglie e pietre preciose et animali et monstri spaurosi et dove manzano carne humana e i gesti et viver e costumi de quelli paesi cosa certamente molto curiosa de intendere e sapere."

Il testo latino di Fra’ Pipino da Bologna

All’inizio del sec. XIV, per incarico avutone dai superiori, il frate domenicano Francesco Pipino da Bologna, dell’Ordine dei Padri Predicatori, traduceva in latino un esemplare della redazione veneta da lui e da molti, per essere il Polo di Venezia, ritenuta originaria.

Di questa sua fonte dice infatti il Pipino: "librum... Marchi Pauli ab eo in vulgari fideliter editum et conscriptum". Ventisei erano le copie manoscritte finora identificate del testo pipiniano: ora se ne devono aggiungere altre ventiquattro scoperte dal Benedetto, più sette ritraduzioni in volgare. Se ne hanno inoltre, manoscritte, versioni in francese, irlandese, boemo e veneto; a stampa, versioni in portoghese, tedesco, olandese. Per la sua mole ridotta trovasi di solito unito, a comporre miscellanee, con altre cronache e storie e trattati. Il suo titolo è per lo più desunto dal prologo: De conditionibus et consuetudinibus orientalium regionum; ma trovasi anche: De orientalibus regionibus e De mirabilibus mundi. Nell’explicit di un ms. della Biblioteca Universitaria di Cambridge, si legge persino: historia tartarorum.

Nel codice latino 131 della Biblioteca Estense di Modena, che riproduce il solo testo poliano, il Muratori credette a torto di ravvisare l’autografo di Pipino. Il libro di Marco Polo ebbe adunque, nella nuova veste latina, la più vasta diffusione e fu per eccellenza il testo "del clero, degli studiosi e dei dotti".

Fu stampato la prima volta ad Anversa, nel 1485, per i tipi di G. Leeu. Un esemplare di questa edizione si conserva nella Biblioteca Colombina di Siviglia, reso oltremodo prezioso da numerose postille segnate ai margini da Cristoforo Colombo, che ne fu il possessore.

A Basilea, nel 1532, a cura di Giovanni Huttich, vide la luce una nuova edizione, condotta per altro sopra un manoscritto tardo e corrotto. Fa parte di una raccolta (Novus orbis regionum ac insularum veteribus incognitarum), più comunemente indicata col nome di Simone Grynaeus. Notevole è il rammarico, che lo Huttich esprime nel proemio, per non avere Marco trovato un migliore interprete o per non avere egli stesso redatto in latino, anziché in dialetto veneto, il racconto delle sue avventure.

"Et utinam Marcus iste Venetus commodiorem nactus fuisset interpretem aut ipse librum suum latine scripsisset...: sed multis concivibus suis venetis gratificari maluit, quam paucis latine doctis."

L’identico testo fu ristampato ad Amsterdam, nel 1602, da Renier Reineck, col titolo: Marci Pauli Veneti Itinerariurn seu de rebus orientalibus; e a Berlino, nel 1670, da Andrea Müller con il corredo di alcune varianti.

Il testo latino di Marco Polo – forse tradotto da Fra' Pipino da Bologna all'inizio del XIV secolo - fu pubblicato  a Basilea nel 1532 da Simone Grynaeus col titolo di De regionibus Orientalibus libri III e venne ripubblicato da Georg Schulz nel 1671 sempre con il titolo De regionibus orientalibus libri III che costituisce un terzo del frontespizio della pubblicazione berlinese di Schulz.

Ricorderemo infine il testo latino pubblicato net 1824 come appendice al testo franco-italiano nel I volume del Recueil, citato innanzi, della Société de Geographie di Parigi, e perciò designato come latino geografico.

L'edizione del Ramusio

Il testo di Pipino, recato in italiano da G. B. Ramusio e da questi arricchito con elementi e novità derivati da altre fonti poliane, costituisce il primo tentativo di edizione critica del libro di Marco Polo.

Vide la luce in Venezia col secondo volume delle Navigationi et Viaggi..., per i tipi dei Giunti, nel 1559, due anni dopo la morte del compilatore.

In una lettera proemiale indirizzata al Fracastoro, il Ramusio dichiara appunto di essersi servito per la sua edizione di manoscritti assai antichi e mai prima esplorati; e in modo particolare di un codice "di maravigliosa antichità", redatto in latino, nella lingua cioè che egli riteneva fosse quella usata da Marco nel suo primo dettato. Il codice, a suo dire, gli sarebbe stato dato a prestito da un gentiluomo veneziano "da Ca’ Ghisi", "che l’avea appresso di sé, e la tenea molto cara "

L’identificazione di queste fonti, mancata sinora nei riguardi del codice Ghisi, e la valutazione dell’autenticità poliana delle aggiunte del Ramusio, hanno diviso i marcopolisti in due opposte schiere: di quelli che, come il Lazari, il Murray e il Bartoli, tale autenticità disconoscono; e di coloro invece, come il Lessing, il Baldelli-Boni, lo Zurla e il Cicogna, che credono di poterla affermare.

Alla tesi sostenuta dal Murray, che cioè le novità ramusiane provengano da viaggiatori più moderni e che il Ramusio, per conferire pregio alla sua versione, abbia voluto far credere desunte da manoscritti poliani, si contrappone l’altra del Baldelli-Boni, il quale, pubblicando in Firenze nel 1827 quale secondo tomo della sua opera su Marco Polo la lezione ramusiana, ne proclama la superiorità sulle altre per la ricchezza del testo, per il migliore ordinamento della materia e la maggiore correttezza della nomenclatura geografica. Per il Baldelli-Boni non è punto dubbia la veridicità del veneto editore, poiché molte delle cose contenute nel suo testo "sono state confermate soltanto da viaggiatori di due secoli posteriori al Ramusio". Le novità ramusiane deriverebbero, secondo lui, da qualche copia rimaneggiata e accresciuta dallo stesso Marco Polo.

In seguito anche Yule, che nella formazione del suo testo inglese da lui stesso definito "eclettico" si servì pure di passi del Ramusio, congetturava potersi trattare di note o reminiscenze dello stesso Polo, segnate dall’autore in margine a qualche copia del primo dettato e poi da altri raccolte e tradotte in latino dopo la sua morte.

Alla schiera dei favorevoli al Ramusio è pure da ascrivere il Marsden, che nel 1818 pubblicava a Londra con bellissima veste la prima traduzione inglese del testo ramusiano, "uno dei monumenti più degni" come afferma il Benedetto "che sieno stati innalzati alla memoria del nostro gran viaggiatore", e che seguita a stamparsi anche dopo la magistrale opera dello Yule.

La traduzione inglese di Henry Yule

Fra tutte le edizioni a stampa, che hanno maggiormente giovato alla critica del testo poliano, viene prima per importanza la traduzione inglese del colonnello Henry Yule, del corpo degli ingegneri del Bengala (Il libro di Ser Marco Polo... nuovamente tradotto ed edito con note...; Londra, J. Murray, 1871). Con essa la Yule, famoso per la sua opera Il Cataio e la via per andarvi, ci ha dato la più compiuta e meglio illustrata edizione del libro del Polo, che egli, membro onorario della Società Geografica italiana, dedicava a Margherita di Savoia, allora principessa di Piemonte.

L’opera, preceduta da un ampio studio in cui sono notizie e documenti di grande interesse, ebbe nel 1874 una seconda edizione riveduta e arricchita di nuove illustrazioni dallo stesso autore.

Nel 1908, morto Yule il 30 dicembre 1889, Henri Cordier, erudito francese, curava per lo stesso editore inglese la III edizione dell’opera, perfezionandola e ancora arricchendola col sussidio della sua vasta cultura in materia di studi poliani, e della esperienza che a lui pure derivava dalla lunga dimora in Cina.

Con questa classica opera della Yule pareva, per concorde giudizio di studiosi, che fosse stata detta l’ultima parola in fatto di edizioni poliane e si fossero risolti i principali problemi relativi al testo del Milione e alla persona del suo autore.

Significative al riguardo sono le parole con cui nel 1872, all’apparire della versione inglese, il conte Cristoforo Negri, fondatore e presidente della Società Geografica Italiana, esprimeva la sua entusiastica riconoscenza a Yule per il "tempio d’onore" eretto al veneziano Marco Polo, e insieme il vivo rammarico nel vedere tolta per sempre agli Italiani la possibilità di assolvere un tale compito: "Non credo che dopo Yule verrà un Quinto Calabro Smirneo che osi temerario di ritessere l’omerica tela. Yule ha sottratto agli Italiani il lavoro: egli tiene il campo conquistato, e lo manterrà."

L’opera di restauro del Benedetto

La predizione, da un quarto di secolo circa, può dirsi in parte smentita. Se l‘opera critica dell’Inglese rimane pur sempre la migliore esegesi del testo del Polo, tuttavia non ripeteremo più che essa è la definitiva, destinata a chiudere "la lunga bibliografia dei lavori italiani e stranieri composti sul grande Viaggiatore dal Ramusio in poi". Oggi invero, per merito di un romanista insigne, Luigi Foscolo Benedetto, possiamo leggere, in un volume degno della migliore tradizione editoriale italiana, il testo del Milione restituito, per quanto era possibile, nella sua integrità*.

* Marco Polo, Il Milione. Prima edizione integrate a cura di Luigi Foscolo Benedetto. — Firenze, Leo S. Olschki, 1928.

Il Benedetto, per conseguire un risultato tanto cospicuo, non si è limitato a compulsare i codici già noti, ma ne ha scoperti di nuovi e portato acuta indagine su tutte le traduzioni e le riduzioni e i rimaneggiamenti del testo poliano da lui ricercati con studiosa cura nelle biblioteche d’Italia e di mezza Europa.

Chi legga le 222 pagine della sua Introduzione, metà circa del ponderoso in folio, dove sono criticamente ricostruiti gli archetipi delle vane redazioni (francese, toscana, latina e veneta), non può non rimanere ammirato della sicurezza con cui egli si muove, signoreggiandola, entro la congerie dei testi a penna e a stampa, disparati per lingua, per età, per importanza e provenienza. In quelle pagine è testificato un lavoro così vasto e complesso che un recensore inglese, nel darne ragguaglio ai lettori del Times  letterario, l’ha felicemente paragonato a quello dei monaci benedettini per ristabilire il testo della Volgata di San Gerolamo.

Benedetto ha preso a fondamento della sua edizione il ms. francese 1116 come quello che, a parer suo, pur distandone assai, è il più prossimo all’autografo; ma ha avuto cura di darcene una lezione di gran lunga superiore a quella parigina pubblicata la prima volta dal Roux, circa 130 anni fa, e che egli ha purgata dai molteplici errori e integrata inoltre con elementi tratti da numerosi altri codici.

Al sommo della pagina è il testo francese, con l’annotazione di tutte le varianti; in basso, le aggiunte del Ramusio e i passi integrativi di altri mss. nel loro originale italiano e latino. Poteva dirsi perciò effettuato appieno il proposito che l’illustre studioso aveva formulato nel citato articolo del Marzocco, di volere cioè "dare, una buona volta, una edizione critica, ove si rispecchiasse, chiarendosi, tutta la storia del testo poliano".

Quattro anni dopo, nel '32, il Benedetto pubblicava del suo Polo una traduzione in italiano* accompagnandola con queste parole, che si leggono nel Proemio: "Ho avuto la gioia di veder riprendere al libro, riscritto finalmente in una lingua unitaria e fedele, la sua autenticità artistica. Nella prima edizione ho ridato al libro di Marco, per quanto mi è stato possibile, la sua integrità; in questa gli ho ridato, se non m’illudo, la sua bellezza."

* Il libro di Messer Marco Polo, cittadino di Venezia detto Milione, dove si raccontano Le Meraviglie del Mondo (Milano, 1932).

Il codice Zeladiano dell'Ambrosiana di Milano

Fra i manoscritti fatti servire dal Benedetto all’integrazione del codice parigino, occupa il posto d’onore una copia da lui scoperta nella Biblioteca Ambrosiana di Milano (ms. Y 160 P.S.) di un antico codice latino, appartenuto già al cardinale de Zelada e da questi poi legato per testamento alla Biblioteca capitolare di Toledo.

Sebbene il Benedetto abbia del codice sollecitato invano notizie dalla direzione di quella Biblioteca, la fedeltà della copia e l’antichità del modello sono per lui sufficientemente garantite da una dichiarazione liminare dell’abate G. Toaldo che nel 1795, allo scopo di completare una sua raccolta di testi poliani, ne faceva eseguire in Padova la trascrizione. Il fortunato ritrovamento ha consentito al Benedetto di rintracciare in questa copia manoscritta la più parte delle novità ramusiane; perciò egli ha potuto dedurne che il Ramusio non aveva mentito asserendo di aver tratte le sue aggiunte da un codice di "meravigliosa antichità", e che finalmente è riuscito a lui di porre le mani, se non proprio sul misterioso codice Ghisi, certo sulla copia di un codice a quello presso che identico*.

* Qualche recensore ha creduto di attribuire senz’altro al Benedetto la scoperta del codice Ghisi. Ma lo stesso Benedetto, in una nota di pag. CLXIX, dichiara di essersi adoperato invano a rintracciare il misterioso manoscritto; e aggiunge, con palese rammarico: "... fossi almeno riuscito ad individuare il non meno misterioso gentiluomo veneziano che ne concesse la consultazione al Ramusio, e di cui il Ramusio stesso parla in modo veramente piuttosto vago!".

L’importanza inoltre del ms. ambrosiano sarebbe accresciuta ancora dal fatto che in esso si trovano in buon numero passi fino ad oggi ignorati e non contenuti in nessun’altra delle redazioni poliane. Citeremo tra i principali il capitolo dove si parla di Khara-Khoto, la celebre Città Nera da poco riapparsa con le sue suggestive rovine al limitare del deserto di Gobi; quello sulla Russia e le strane usanze che vi hanno luogo; il lungo brano in cui si discorre delle donnuccelle del Catai e di certo esame che esse subirebbero prima delle nozze, a riprova del loro stato verginale; un altro, infine, che ci presenta Marco e lo zio Matteo in atto di ricercare e scoprire nel Fu-Kien, per suggerimento di un loro compagno saraceno, un nucleo di cristiani, che per tema di persecuzioni celavano la propria religione e pei i quali essi impetrano dal Gran Can libertà di culto e protezione sovrana.

Non dubbia appare al Benedetto la polianità di questi e di altri passi di minore ampiezza e importanza; ma la dimostrazione che cerca di darne non riesce persuasiva. Alla domanda che sorge spontanea in chiunque prenda a considerare questa nuova materia, come mai cioè essa si ritrovi esclusivamente in questa tardiva copia di ms. latino, il Benedetto è costretto a confessare di non trovare una sicura risposta.

"Perché le cose ora rammentate, di così potente interesse per un lettore moderno, sieno sparite dal testo poliano, non si può certo dire con sicurezza. Il cap. su Khara-Khoto ha un particolare folkloristico che può essere sembrato troppo assurdo e puerile; quello sulla Russia contiene episodi piuttosto grassi, facili a prendersi per una lepida beffa; la pagina sulle vergini cataine affronta un problema medico-legale che può riuscire scabroso; tutto il resto era di argomento religioso, ed esposto per conseguenza alle ubbie più o meno pavide e intelligenti di qualche scriba."

Ma se pure potesse ammettersi negli scribi una così straordinaria concordanza di scrupoli religiosi e moralistici, rimarrebbe da chiedere per quale strano motivo questi medesimi scrupoli non siano stati da essi avvertiti per tanti altri passi del Milione dove certo non scarseggiano i particolari folcloristici bizzarri e ingenui, e la materia religiosa occupa sì gran posto, e in fatto di costumi si hanno le pagine dei bozzi volontari e dell’esame dei regolati dei monasteri indiani. E ancora: come è possibile non rimanere diffidenti dinnanzi a un codice che ha soppresso, fra altro, i meravigliosi capitoli ove sono descritte le feste e le istituzioni del Gran Can, per ammannirci in cambio le assurde panzane sulla Russia e la Cina?

Onia Tiberii, nella prefazione al suo Milione, aveva trovato strano che Marco avesse tralasciato di accennare a quelle che per lui, occidentale, avrebbero dovuto costituire delle vere e proprie novità: il the, il piè di giglio delle Cinesi, ecc. Ora, in grazia del suo ritrovamento il Benedetto crede di potere affermare il contrario e confutare vittoriosamente l’asserto del Tiberii: "No, Marco Polo non ha taciuto la civiltà raffinata della vecchia Cina. Non dimentica neppure (la dimenticanza gli fu rinfacciata!) il piè di giglio delle cinesi; ed è certo una delle sue pagine più degne di essere conosciute quella ove esalta la delicata e pudica dolcezza delle donnuccelle del Cataio (in nota a pp. 130-1), ove ce le mostra mentre camminano, “così dolcemente che un piede non è mai più di un dito davanti all’altro”." Orbene, chi va al luogo citato, oltre all’esame della verginità fatta con l’uovo di colomba cum uno ovo columbe, e la prova della indelebilità del sangue, trova l’accenno a questo speciale incedere delle Cinesi; ma spiegato quale accorgimento per conservarsi vergini, giacché spesso, a muoversi scompostamente, adaperitur virginis natura, come può invece accadere alle fanciulle tartare che sono solite di andare a cavallo.

L’abate Toaldo, che faceva altra stima circa il valore del codice da lui fatto trascrivere in vista di una progettata edizione del libro del Polo, ci ha lasciato, vergato di suo pugno, un molto severo giudizio della traduzione latina (latinitate vero barbara) e dell’infedele traduttore: Interpres ipse, quicumque fuerit, ineptus homo fuisse videtur, credulus, somniator, fabulator, battologus, puer, muliercula, tot nugas interserit, adeo ut singularibus quae solus ipse refert tuta fides haberi non possit. E conchiude ammonendo che delle novità che esso reca debba farsi cauto uso e solo, per alcune, a titolo di varianti.

Il Benedetto, che ha parole ben altrimenti vivaci contro parecchi degli studiosi che prima di lui osarono avventurarsi in un campo così vasto e intricato, si limita questa volta, nei riguardi del Toaldo, ad esternare il suo disappunto per la diffidenza del dotto abate con parole di inconsueta mitezza: "Rincresce di dover noverare tra gl’increduli la stesso Toaldo, il benemerito raccoglitore di testi poliani...".

In difesa dell'Ottimo

Da quanto siamo venuti dicendo, traiamo la giustificazione alle nostre riserve sull’effettivo valore del codice ambrosiano; riserve che non sono originate dalla irriverente boriuzza di contraddire uno dei cultori più preparati e geniali che annoveri la filologia europea, affermatosi nel 1920 con Le origini di Salammbô, magistrale studio sul realismo storico del Flaubert, ed ora, con questo Milione, portatosi di colpo in testa alla folta schiera dei marcopolisti di tutti i tempi. Delle intenzioni nostre a suo riguardo più che rispettose è garanzia il fatto che chi redige queste noterelle bibliografiche lo ricorda tuttora con affetto e gratitudine di discepolo. A confermarci del resto nelle dette riserve ha contribuito per non piccola parte la perplessità, qua e là affiorante nelle pagine della sua Introduzione, dello stesso Benedetto: il quale, pur difendendole "contro le eventuali diffidenze odierne", avverte tuttavia che le sue conclusioni possano non essere accolte come definitive e la decisione nei casi dubbi dice perciò di attenderla dall’auspicata scoperta di codici nuovi.

Per coloro poi che, facendo eco al Benedetto, hanno creduto usare espressioni ingiustamente severe contro il vecchio testo della Crusca, che ora ripubblichiamo con opportuni emendamenti, riporteremo le parole con cui l’Olivieri chiude la Nota da lui redatta per la seconda edizione (1928) del suo Milione: "... non avendo mai avuto alcuna ambizione di rappresentare un testo autentico, [il ms. toscano] resta tuttora quello che fu fino ad oggi, cioè il testo italiano più adatto a rappresentare sotto quale aspetto sia stato conosciuto il grande viaggiatore nel tempo a lui più vicino. Ed esso inoltre rende anche oggi, per lettori italiani che non debbano fare oggetto di studio particolare la materia di questo racconto, un’immagine del libro famoso, tanto meno inadeguata, in quanto s’aggiunga al suo scarso valore sostanziale il fascino che le viene dal colore storico, cioè dalla data della sua composizione, e da’ suoi caratteri di lingua e di stile".

Ranieri Allulli

Giovan Battista Ramusio

Umanista, geografo e storico italiano (Treviso 1485 - Padova 1557). Discepolo di Pietro Pomponazzi (Mantova 1462-Bologna 1525, uno dei massimi filosofi del Rinascimento italiano), fu aperto ai più diversi interessi culturali e pienamente partecipe ai fervori del suo tempo. Collaboratore di Aldo Manuzio, curò le edizioni di Quintiliano (1514) e Livio (1519) ed ebbe interessanti corrispondenze con scienziati e umanisti quali Fracastoro e Bembo; fu anche cancelliere della Repubblica Veneta e dal 1515 segretario del Senato.

Viaggiò moltissimo, e a viaggi e studi storico-geografici dedicò la sua opera maggiore, Delle navigationi et viaggi (1550-59, 3 vol., dei quali il II postumo). Non si sa quando possa aver maturato l'idea di quest'opera per cui va famoso: forse quando ebbe l'incarico di trattare con il navigatore Sebastiano Caboto, figlio di Giovanni, la sua proposta di mettersi al servizio di Venezia. Le Navigazioni sono un'opera poderosa, che intendeva fare il punto dei più importanti viaggi compiuti dall'antichità classica fino al suo tempo, ma che, per la sua precisa e dotta compilazione e per la competenza dei dati cartografici, fu considerata uno dei fondamenti degli studi geografici moderni.

Curzola / Korcula

Isola (272,6 km2; 23.000 ab.) del Mar Adriatico facente parte della Croazia. Alta 568 m (m. Klupca), è separata dalla vicina penisola del Sabbioncello tramite il Peljeski kanal, mentre a N e a S i canali di Curzola e di Lagosta la separano rispettivamente dalle isole di Lesina e di Lagosta. Centri principali sono Blato, Vela Luka e Curzola, quest'ultimo porto commerciale e peschereccio sulla costa nord-orientale dell'isola. In serbo-croato, Korcula. Abitata fin dall'età neolitica, nel sec. IV divenne colonia degli Cnidi e dei Greci di Lissa. Nel 228 aC fu occupata dai Romani. Passò quindi ai Bizantini, a Venezia, alla Repubblica ragusea (1618-1778) e finalmente all'Austria come capitanato. Alla fine della I guerra mondiale fu assegnata alla Iugoslavia, di cui ha fatto parte fino all'indipendenza della Croazia.

Battaglia navale di Curzola

Scontro navale avvenuto l'8 settembre 1298 presso le Isole Dalmate tra la flotta della Repubblica di Venezia, comandata da Andrea Dandolo, e quella della Repubblica di Genova, condotta da Lamba Doria, che ebbe la meglio. Alla battaglia, in cui Dandolo perse la vita, partecipò Marco Polo che, catturato, ebbe modo di dettare Il Milione al compagno di prigionia Rustichello da Pisa.

Rustichello o Rusticiano da Pisa

Scrittore italiano del XIII secolo. I dati biografici circa la sua persona si limitano a due notizie: la prima è che scrisse in lingua d’oïl il Livre de roy Meliadus (Libro del re Meliadus), fortunato rimaneggiamento di un libro francese di avventure cavalleresche che attinge a piene mani alla tradizione delle leggende della Tavola Rotonda; la seconda è relativa alla sua documentata prigionia in un carcere genovese (essendo stato catturato alla battaglia della Meloria) durante la quale raccolse e rielaborò i ricordi di viaggio del veneziano Marco Polo, dando forma, sempre in lingua d’oïl, al Divisament dou monde (Descrizione del mondo, o Livre des merveilles du monde, secondo un’altra tradizione manoscritta), meglio conosciuto col titolo di Il Milione.

Secche della Meloria

Zona di bassifondi sabbiosi e di scogli affioranti dal Mar Tirreno, circa 7 km a ovest di Livorno. La più celebre delle battaglie della Meloria si svolse il 6 agosto 1284 tra le navi di Genova, comandate da Oberto Doria, e le pisane, guidate da Alberto Morosini. La flotta genovese, forte di 110 navi, distrusse quella pisana, facendo centinaia di prigionieri; l'esito della battaglia portò al potere a Pisa la fazione guelfa, che nominò capitano del popolo il conte Ugolino della Gherardesca, e segnò il tramonto della potenza marinara pisana. Ai genovesi arrise la vittoria anche nelle battaglie del 1410 in cui combatterono al soldo di Ladislao re di Napoli in guerra contro gli Angioini.

Battaglia della Meloria del 1284

Bibliografia
D.G. Martini - D. Gori La Liguria e la sua anima - Sabatelli Editori, Savona, 1965

La Battaglia della Meloria fu una storica battaglia navale che vide coinvolta la flotta della Repubblica di Genova. Sancì la definitiva fine di Pisa come potenza marinara in Italia durante il Medioevo. Dopo i grandi contrasti verificatisi nei secoli precedenti tra la Repubblica di Genova e la repubblica marinara di Pisa, l'occasione per lo scontro definitivo avvenne nel 1284. Parte della flotta genovese era ormeggiata presso Porto Torres, in Sardegna, allora territorio conteso tra le due repubbliche. Il piano dei pisani era di colpire in netta superiorità – con 72 galee - la flotta ligure, per poi affrontare la rimanenza e chiudere per sempre il conto con i genovesi.

Benedetto Zaccaria, futuro doge di Genova, che comandava quella parte di flotta composta da 20 galee, eluse lo scontro, fingendo una ritirata verso il Mar Ligure. La flotta pisana lo incalzò, ma fu raggiunta dalla restante parte della flotta genovese (68 galee) e ripiegò verso porto pisano, non senza lanciare una provocazione alla città genovese, sotto forma di una pioggia di frecce d'argento.

La flotta della Repubblica di Genova raccolse la sfida e il 6 agosto 1284, giorno di San Sisto II patrono di Pisa che da quel giorno non fu più festeggiato, salpò verso Porto Pisano, antico porto di Pisa, situato a sud della foce dell'Arno.

San Sisto II papa (morto nel 258). Di origine greca, succedette nel 257 a Stefano I. Riprese le relazioni con Cipriano e le Chiese d'Africa e d'Asia Minore, interrotte a causa della controversia sul battesimo degli eretici. Egli comunque proseguì nella pratica romana di non ribattezzare gli eretici. Fu martirizzato sotto Valeriano. Festa il 6 agosto.

L'ammiraglio genovese Oberto Doria guidava una prima linea di 63 galee da guerra composta da otto Compagne (antico raggruppamento dei quartieri di Genova): Castello, Macagnana, Piazzalunga e San Lorenzo, schierate sulla sinistra (più alcune galee al comando di Oberto Spinola), e Porta, Borgo, Porta Nuova e Soziglia posizionate sulla destra.

Benedetto Zaccaria comandava invece una squadra di trenta galee, lasciate volutamente in disparte per prendere di sorpresa la flotta pisana. Parte di essa era ormeggiata dentro Porto Pisano, mentre un'altra parte sostava poco fuori dal porto.

Si narra che, durante la tradizionale benedizione delle navi, la croce d'argento del Bastone dell'Arcivescovo di Pisa si staccò. I Pisani non si curarono di questa premonizione negativa: dopotutto era il giorno del loro patrono, anniversario di tante gloriose vittorie, e quella era un'ottima occasione per eliminare definitivamente i genovesi: contando 63 legni genovesi, i pisani forti di 9 navi in più decisero di uscire dal porto.

Secondo le consuetudini del Governo Potestale, i Pisani avevano scelto un forestiero come Podestà, Morosini da Venezia. I Veneziani com'è noto erano da sempre in rivalità contro Genova, ma in questo frangente avevano rifiutato l'appoggio alla repubblica toscana. Assistevano il Morosini: il Conte Ugolino della Gherardesca  e Andreotto Saraceno. I Pisani, dopo una prima esitazione, decisero di attaccare la flotta Genovese e si lanciarono sulla prima linea. Entrambe le flotte erano in formazione a falcata, ovvero a mezzo arco. Lo scontro era dunque frontale. I famosi balestrieri genovesi, al riparo dietro le loro pavesate, tiravano contro i legni pisani, mentre questi tentavano, secondo le tattiche dell'epoca, di speronare le navi con il rostro per poi abbordarle. Qualora l'abbordaggio non avesse luogo, gli equipaggi si colpivano con ogni sorta di munizione scagliata da macchine belliche o dalle nude mani, come sassi, pece bollente e addirittura calce in polvere.

Le sorti della battaglia furono decise dopo ore dai trenta Legni di Zaccaria, che piombarono sul fianco pisano, colto completamente impreparato dalla manovra, e dalla stessa esistenza di quelle galee: fu uno sfacelo di legno, corpi e sangue. Dell'intera flotta pisana, solo venti galee, quelle comandate dal Conte Ugolino, si salvarono. L'accusa di vigliaccheria, se non di tradimento, non impedirà al conte di conquistare la signoria de facto e di restare al vertice del governo della città fino alla sua deposizione 1288 ed alla celebre morte per inedia 1289.

Alcuni storici riferiscono che il contingente di rinforzo genovese fosse nascosto dietro l'isolotto della Meloria (allora un basso scoglio sopra il livello del mare), ma si tratta probabilmente di un fraintendimento dato che una squadra navale, anche piccola, non avrebbe assolutamente potuto evitare di essere vista. Un'ipotesi è che le navi fossero in realtà nascoste alla fonda di un'isola dell'arcipelago.

Un'altra ragione della sconfitta pisana deve essere individuata nell'ormai obsoleto armamento navale e individuale. Le navi pisane, più vecchie e più pesanti, imbarcavano anche truppe con armature complete nonostante la calura agostana, e durante la lunghissima battaglia i genovesi, muniti di armature ridotte e più leggere, ne furono chiaramente avvantaggiati.

Tra i cinque e i seimila furono i morti, e quasi undicimila furono i prigionieri tra cui proprio il Podestà Morosini, che fu portato con gli altri a Genova nel quartiere così chiamato Campo Pisano (da qui nacque il detto: "Chi vuol vedere Pisa, vada a Genova"). Tra i prigionieri anche l'illustre Rustichello che aiutò Marco Polo a scrivere il suo Milione nelle prigioni genovesi. Solo un migliaio di prigionieri pisani tornò a casa dopo tredici anni di prigionia. Gli altri morirono tutti e sono sepolti sotto il quartiere genovese che tristemente porta ancora il loro nome.

Pisa firmò la pace con Genova nel 1288, ma non la rispettò Ciò costrinse Genova a un'ultima dimostrazione di forza. Nel 1290 Corrado Doria salpò con alcune galee verso Porto Pisano, trovando il suo accesso sbarrato da una grossa catena. Fu il fabbro Noceto Ciarli ad avere l'idea di accendere un fuoco sotto di essa per renderla incandescente in modo da spezzarla con il peso delle navi. Il porto fu raso al suolo e sulle sue rovine fu sparso il sale, come accadde per Cartagine ai tempi di Scipione. Con questo gesto il potere di Pisa sul mare si spense definitivamente e dopo dieci anni la città fu infine assoggettata da Firenze.

Imbarcazioni impiegate nella battaglia della Meloria

Flotta genovese

Flotta pisana

  93 tra Galee da Guerra, Galeotte e Fuste 

  72 tra Galee da Guerra, Galeotte e Fuste 

Perdite durante il conflitto

Genovesi

Pisani

sconosciute

5000-6000 morti
11000 prigionieri
circa 50 galee affondate o catturate

Battaglia della Meloria del 1284
Come i Genovesi sconfissono i Pisani a la Meloria
da Nuova cronica
di Giovanni Villani (Firenze ca. 1276-1348)

Negli anni di Cristo MCCLXXXIIII, del mese di luglio, i Pisani non istanchi delle sconfitte avute da' Genovesi, come di sopra avemo fatta menzione, feciono loro isforzo per vendicarsi delle 'ngiurie ricevute da' Genovesi, e armarono, tra di loro genti e di soldati toscani e altri, da LXX galee, onde fu amiraglio messer Benedetto Buzacherini, e andarono insino nel porto di Genova, e in quello stettero, e balestrarono, com'altra volta aveano fatto, quadrella d'argento, e feciono grande onta e soperchio a' Genovesi, e presono più barche e altri legni, e rubarono e guastarono in più parti della riviera, e con grande pompa e romore, essendo nel porto di Genova, richiesono i Genovesi di battaglia. I Genovesi non ordinati né disposti alla battaglia, però ch'aveano disarmate le loro galee, con leggiadra e signorile risposta feciono loro iscusa, e dissono che perch'eglino combattessono colloro, e vincessongli nel loro porto e contrada, non avrebbono fatta loro vendetta né sarebbe loro onore, ma ch'eglino si tornassono al loro porto, e eglino si metterebbono in concio, e sanza indugio gli verrebbono a vedere, e sarebbono signori della battaglia. E così fu fatto, che' Pisani si partirono faccendo grandi grida, di rimprocci e schernie de' Genovesi, e tornaronsi in Pisa. I Genovesi sanza indugio niuno armarono CXXX tra galee e legni, e suso vi montarono tutta la buona gente di Genova e della riviera, ond'era amiraglio messer Uberto Doria, e del mese d'agosto vegnente vennero colla detta armata nel mare di Pisa. I Pisani sentendo ciò, a grido e a romore entrarono in galee, chi a Porto Pisano, e la podestà, e il loro amiraglio, e tutta la buona gente montarono in galee tra' due ponti di Pisa in Arno. E levando il loro istendale con grande festa, e essendo l'arcivescovo di Pisa in sul ponte parato con tutta la chericia per fare all'armata la sua benedizione, la mela e la croce ch'era in su l'antenna dello stendale cadde; onde per molti savi si recòe per mala agura del futuro danno. Ma però non lasciarono, ma con grande orgoglio, gridando: “Battaglia, battaglia!”, uscirono della foce d'Arno, e accozzarsi colle galee del porto, e furono da LXXX tra galee e legni armati; e' Genovesi colla loro armata aspettando in alto mare, s'affrontarono alla battaglia co' Pisani all'isoletta, overo scoglio, il quale è sopra Porto Pisano, che si chiama la Meloria, e ivi fu grande e aspra battaglia, e morìvi molta buona gente d'una parte e d'altra di fedite, e d'anegati in mare. Alla fine, come piacque a·dDio, i Genovesi furono vincitori, e' Pisani furono sconfitti, e ricevettono infinito dammaggio di perdita di buone genti, che morti e che presi, bene XVI uomini, e rimasono prese XL galee de' Pisani, sanza l'altre galee rotte e profondate in mare; le quali galee co' pregioni menarono in Genova, e sanza altra pompa, se non di fare dire messe e processioni rendendo grazie a·dDio; onde furono molto commendati. In Pisa ebbe grande dolore e pianto, che non v'ebbe casa né famiglia che non vi rimanessero più uomini o morti o presi; e d'allora innanzi Pisa non ricoverò mai suo stato né podere. E nota come il giudicio d'Iddio rende giusti e debiti meriti e pene, e tutto che talora s'indugino e sieno occulti a noi. Ma in quello luogo propio ove i Pisani sursono e anegarono in mare i prelati e' cherici che venieno d'oltremonti a Roma al concilio l'anno MCCXXXVII, come addietro facemmo menzione, ivi furono sconfitti e morti e gittati in mare i Pisani da' Genovesi, come detto avemo. Lasceremo a·ddire alquanto de' Pisani, e torneremo a quello che fu ne' detti tempi della guerra di Cicilia dal re Carlo a quello d'Araona, ch'ancora ne surge materia.

Marco Polo non arrivò mai a Pechino
Forse si fermò sulle rive del Mar Nero

Lo afferma l'archeologo Dr Daniele Petrella

Agosto 2011

«Marco Polo non arrivò mai fino a Pechino, si fermò molto prima»: è la tesi del Dr Daniele Petrella, archeologo dell'Università di Napoli e direttore di una missione archeologica italiana in Giappone, intervistato sul nuovo numero del mensile Focus Storia (n° 58 - agosto 2011). La nuova ipotesi sul viaggio del veneziano più celebre del mondo è che Polo non sarebbe mai arrivato a Pechino, ma si sarebbe fermato molto prima, forse sulle rive del Mar Nero, dove sarebbe venuto in contatto con viaggiatori persiani, raccogliendo da varie fonti di seconda mano le notizie riportate nel suo Milione. «Non ci sono in realtà elementi per stabilire una verità definitiva - afferma Petrella. Fino a questo momento i principali indizi che Marco non sia arrivato fino a Pechino si sono basati sullo studio del testo del Milione. Da archeologi, noi siamo andati alla ricerca del dato materiale, cioè di prove concrete di quel viaggio. E proprio quanto è emerso nel corso della nostra missione archeologica mi fa dubitare di quei racconti.»

In dubbio, in particolare, uno dei principali eventi storici descritti nel Milione: il tentativo di Kublai Khan di invadere il Giappone. «I tentativi di sbarco furono due, nel 1274 e nel 1281 - dice l'archeologo. Marco Polo li confonde, mischiando circostanze riguardanti la prima spedizione e altre della seconda. Racconta che gli uomini di Kublai Khan tornarono dal Giappone descrivendo un Paese ricchissimo, con i tetti dei palazzi ricoperti d'oro. Si riferisce probabilmente alla spedizione dei delegati mongoli che fu la premessa al primo tentativo d'invasione - precisa lo studioso, descrive poi la flotta che salpò dalla Corea e il tifone che la affondò prima di raggiungere le coste giapponesi, che però è del 1281. Com'è possibile che un testimone diretto faccia confusione tra fatti separati da sette anni?».

Inoltre, Marco Polo «è assai sintetico nel descrivere la flotta mongola. Eppure doveva essere alquanto imponente, visto che alcune fonti parlano addirittura di 4.500 navi. Uno schieramento che avrebbe colpito qualsiasi osservatore. Invece gli unici dati riportati sono le dimensioni delle imbarcazioni. Inoltre Marco Polo dice che gli alberi delle navi erano cinque. Invece erano tre, più un quarto albero mobile. Descrive le imbarcazioni come vascelli da guerra, invece erano navi mercantili, senza remi. E non accenna - conclude Petrella - alla bussola, di invenzione cinese.»

http://www.ilgazzettino.it/

Dottor Daniele Petrella
Archeologo terrestre e subacqueo

Si laurea in Lingue e Civiltà Orientali con indirizzo Archeologico (2003) presso l'Università degli Studi di Napoli "L'Orientale". Tesi di laurea in Archeologia e Storia dell'Arte del Giappone. Si addottora in Archeologia (Rapporti tra Oriente e Occidente) presso l'Università degli Studi di Napoli "L'Orientale" (2010). Tesi dal titolo "Archeologia Navale in Giappone: studio per la ricostruzione delle navi di Kublai Khan". Nel 2006 consegue il brevetto nel corso di "Archeologia e Scienze Subacquee" della International Academy of Underwater Sciences and Techniques. Dal 2001 al 2005 collabora con la Cattedra di Archeologia e Storia dell'Arte Giapponese presso l'Università degli Studi di Napoli "L'Orientale". Nel 2008 tiene due seminari sull'archeologia navale in estremo oriente all'Università delle Scienze Navali e Nautiche di Tokyo. È socio fondatore dell'Associazione Nazionale Archeologi (2005) di cui oggi riveste la carica di Direttore Nazionale (dal 2007). È socio dell'AIStuGia (Associazione Italiana per gli Studi sul Giappone). È socio fondatore dell'Associazione Culturale Orientalia Parthenopea. - Conoscenze linguistiche: giapponese moderno e antico, cinese antico, inglese. - Dal 2003 al 2008 lavora come archeologo terrestre e subacqueo con le soprintendenze di Napoli e Pompei e del Lazio e per alcune delle principali ditte di scavo archeologico italiane e irlandesi. Nel 2004 entra a far parte della Missione Archeologica Italiana in Oman e, nel 2005, in Nepal. Dal 2006 al 2008 lavora in Giappone negli scavi subacquei volti alla ricerca della flotta affondata di Kublai Khan. Nel 2009 organizza e diventa il Direttore della prima Missione Archeologica italo-giapponese in territorio nipponico ufficializzata dal Ministero per gli Affari Esteri.

http://www.archeologiattiva.com/Responsabili-gruppi.html

Marco Polo never went to China
and picked up tales of the Orient
from other travellers

Dr Daniele Petrella - University of Naples

August 2011

Marco Polo, one of history’s greatest explorers, may in fact have been a conman, it was claimed yesterday. Far from being a trader who spent years in China and the Far East, he probably never went further east than the Black Sea, according to a team of archaeologists. They suspect the Venetian adventurer picked up stories about the mysterious lands of the Orient from fellow traders around the Black Sea who related tales of China, Japan and the Mongol Empire in the 13th century. He then put the stories together in a book which purports to be his account of his travels between 1271 and 1291. It details his relations with Kublai Khan, the Mongol ruler.

But now an Italian team of archaeologists studying in Japan have cast doubts about one of their country's national heroes - although there have been competing claims to him from Croatia, which argues he was born there. Following the research, Dr Daniele Petrella of the University of Naples told in the Italian history magazine Focus Storia (number 58 – August 2011) there were many inconsistencies and inaccuracies in Marco Polo’s description of Kublai Khan’s invasions of Japan in 1274 and 1281. "He confuses the two, mixing up details about the first expedition with those of the second," Dr Petrella said. "In his account of the first invasion, he describes the fleet leaving Korea and being hit by a typhoon before it reached the Japanese coast," said Dr Daniele Petrella of the University of Naples, the leader of the archaeology team. "But that happened in 1281" – is it really possible that a supposed eye witness could confuse events which were seven years apart?'

Polo’s description of the Mongol fleet did not square with the remains of ships the archaeologists excavated in Japan, as he had written of ships with five masts, while those which had been found had only three. "It was during our dig that doubts began to emerge about much of what he wrote," added Dr Petrella. "When he describes Kublai Khan’s fleet he talks about the pitch that was used to make ships’ hulls watertight. He used the word 'chunam', which in Chinese and Mongol means nothing. In fact, it is the Persian word for pitch. It’s also odd that instead of using, as he does in most instances, local names to describe places, he used Persian terms for Mongol and Chinese place names."

The explorer claimed to have worked as an emissary to the court of Kublai Khan, but his name does not crop up in any of the surviving Mongol or Chinese records. The famous travel book was said to have been dictated by Polo to a prisoner fellow named Rustichello from Pisa while he was in jail after returning from his adventures, and to be fair to Polo, it is thought Rustichello embellished many of the stories. But the latest claims back those made in a book by British academic Frances Wood in 1995 entitled Did Marco Polo go to China?.  She argued he never got beyond the Black Sea and that his famed account was a collection of travellers’ tales.

http://www.dailymail.co.uk/news/