I primi resti ossei attribuibili con sicurezza a un nostro progenitore - Australopithecus afarensis - risalgono a poco meno di 4 milioni d’anni fa: si tratta di uno scheletro incompleto, ritenuto di sesso femminile per la forma del bacino, battezzato Lucy, venuto alla luce nel novembre del 1974 ad Hadar lungo il fiume Awash, in Etiopia, grazie alla spedizione del francese Coppens e dello statunitense Johanson.
Etimologia
di Australopithecus afarensis
Australopithecus
dal latino australis, meridionale, del sud
e dal greco píthëkos, scimmia
afarensis
della regione di Afar in Etiopia nord-orientale
abitata in maggioranza da popolazioni Afar.
La regione-stato è stata istituita nel 1995.
Confina a nord con l'Eritrea,
a est con Gibuti (già Territorio francese degli Afar e degli Issa) e con la
regione dei Somali,
a sud con la regione di Oromia
e a ovest con le regioni di Amara e del Tigrè.
Forse ispirato dalla nostra futura antenata Lucy
già nel 1971 Bruno Lauzi componeva
una canzone
che anticipava di 3 anni la scoperta dell'Australopithecus afarensis
avvenuta nel 1974
Quattro milioni d'anni fa
Questa specie di ominidi fu scoperta, nello stesso periodo, anche da Mary Leakey a Laetoli, in Tanzania. Lucy è il più completo fossile pre-Homo mai trovato, essendo costituito da più di 60 segmenti ossei, ma sfortunatamente si sa poco sulle dimensioni e sulla forma del cranio. Comunque, si può dedurre che Lucy avesse dimensioni scheletriche ridotte: alla morte, avvenuta ad accrescimento ultimato, era alta un metro e sessanta e pesava da 22 a 36 kg. I maschi dovevano avere dimensioni maggiori.
Fig. I. 10 - Da Lucy a Rambo la strada è stata lunga: non solo la statura è mutata, in quanto basta osservare la capacità e la conformazione del cranio. La ricostruzione dello scheletro di 4 specie di ominidi mette anche in evidenza la loro statura relativa e il loro portamento. Da sinistra si susseguono: Lucy, cioè Australopithecus afarensis - Australopithecus africanus - Australopithecus boisei - Homo sapiens.
Dopo affannose ricerche è anche venuto alla luce perché la nostra antenata venne battezzata Lucy: mentre il gruppo di scienziati festeggiava il sensazionale ritrovamento, trasmettevano per radio la canzone dei Beatles Lucy in the sky with diamonds, un titolo che, secondo alcuni, rappresenterebbe la forma svolta di un acronimo, il micidiale LSD, dietilamide dell’acido D-lisergico [1] .
Lucy in the sky with diamonds
Lucy in the Sky with Diamonds è il titolo di una canzone composta e registrata dai Beatles nel 1967. Scritta da John Lennon (ma accreditata alla coppia Lennon/McCartney) ha creato parecchie controversie in quanto il suo titolo venne interpretato come una possibile allusione all'LSD, essendo infatti L, S e D le iniziali dei sostantivi contenuti nel titolo. Lennon invece affermò che l'ispirazione del titolo gli venne da un disegno di suo figlio Julian in cui si vede una compagna di classe di Julian che passeggia in un cielo pieno di diamanti. Tutto il testo del brano è un susseguirsi di immagini psichedeliche ispirate alle atmosfere surreali e sognanti dei celebri romanzi Alice nel Paese delle Meraviglie e Attraverso lo Specchio di Lewis Carroll (pseudonimo dello scrittore e matematico inglese Charles Lutwidge Dodgson, 1832-1898) del quale lo stesso Lennon era un grande ammiratore. Musicalmente presenta un complesso arrangiamento tipico delle ultime composizioni beatlesiane e la melodia è relativamente semplice. Il 30 novembre 1974 ad Hadar lungo il fiume Awash, in Etiopia, vennero rinvenuti i resti di una femmina di Australopithecus afarensis chiamata Lucy in onore di questa canzone che andò in onda alla radio proprio durante i festeggiamenti del sensazionale ritrovamento.
Grazie a Fernando Civardi, che per nostra fortuna non è allergico alla lettura dei quotidiani, il 29 settembre 2009 scopro la vera fonte del nome di battesimo della nostra antenata Lucy. Si tratta di Lucy O'Donnell, Vodden da sposata, colei che quand'era bambina ispirò il celebre brano dei Beatles Lucy in the Sky with Diamonds. Il titolo di questa canzone del 1967 si deve a Julian, figlio di John Lennon, che nel 1966, quando aveva 3 anni, portò a casa un suo disegno fatto alla scuola materna in cui era raffigurata Lucy, sua compagna d'asilo, anch'essa di soli 3 anni, contornata da stelle. Interrogato su cosa volesse esprimere, Julian rispose: "È Lucy nel cielo con i diamanti." La vera identità della Lucy della canzone è stata dibattuta per anni. In un primo momento i giornali inglesi avevano rivolto la loro attenzione a Lucy Richardson, art director cinematografica di successo, scomparsa nel 2005 a soli 47 anni. Anche la Richardson era nella stessa scuola di Julian Lennon, ma era di qualche anno più grande. A essere coetanea di Julian, e a frequentare la stessa classe del figlio di Lennon, era proprio Lucy O'Donnell. Julian, negli ultimi anni, era tornato in contatto con la ex compagna d'asilo e nel 2007 Lucy aveva confermato che la vicenda della nascita della canzone, così come era contenuta in molte biografie dei Beatles, era effettivamente dovuta a lei quand'era bambina.
Lucy O'Donnell
Lucy O'Donnell è morta il 28 settembre 2009 all'età di 46 anni al St Thomas Hospital di Londra per lupus eritematoso sistemico, una malattia autoimmune che di norma non perdona. Autoimmune significa la presenza di una disfunzione del sistema immunitario. In parole povere: invece di proteggere il corpo da virus, batteri e agenti estranei con anticorpi specifici, esso crea autoanticorpi che aggrediscono vari organi e tessuti, provocando un danno che si manifesta per lo più con esantema al volto, febbre, artriti, lesioni cardiache, difficoltà respiratorie e deficit della funzionalità renale.
Secondo una teoria accreditata, Lucy apparterrebbe al tipo ominide dell’Australopithecus afarensis e da lei discenderebbero in linea diretta l’Australopithecus africanus propriamente detto e l’Australopithecus robustus. I loro resti sono distribuiti in una fascia di territorio orientale africano che va dall’Etiopia al Sudafrica.
Tra le forre d’Etiopia è comparso il fantasma di un anello mancante, capace di collegare più strettamente Lucy ad antenati più antichi, e che quindi sospinge l’origine dell’uomo verso parenti più stretti: le scimmie antropomorfe, simili agli attuali Scimpanzé. In Etiopia, nei sedimenti del fiume Awash e dei suoi affluenti, un’équipe di ricercatori statunitensi, giapponesi ed etiopi, coordinata da Tim White, ha scoperto i resti di 17 individui che apparterrebbero alla più antica specie di ominide conosciuta: Australopithecus ramidus.
Nella lingua degli Afar, abitanti della zona, ramid significa radice e il vocabolo si applica sia a piante che a persone. L’importanza della scoperta sta soprattutto nella datazione, collocabile in quel buco nero di fossili situato prima dei 4 milioni d’anni fa, momento cruciale della divergenza tra ominidi e scimmie antropomorfe.
Le regole della nomenclatura zoologica stabiliscono che quando si assegna un nome a una nuova specie, un campione della specie in esame debba essere designato come esemplare tipico della specie, l'olotipo, che letteralmente significa tipo totale. L'olotipo deve essere depositato in un museo, dove funge da documentazione permanente delle caratteristiche della nuova specie scoperta. Prima di includere un altro individuo in una determinata specie, in passato lo si doveva confrontare con l’olotipo che quindi era l’unico campione in base al quale si dovevano definire le caratteristiche essenziali della nuova specie. Per la descrizione di nuove specie ancor oggi si fa ricorso agli olotipi, ma il loro ruolo è cambiato in modo significativo; così, oltre all'olotipo, oggi di norma si depositano anche parecchi altri esemplari chiamati paratipi o serie paratipiche. I paratipi servono a mostrare la variabilità della specie, soprattutto per quanto riguarda le dimensioni corporee, la colorazione e la morfologia. L'olotipo oggi viene utilizzato solamente nella rara eventualità in cui due specie, non ancora battezzate, siano state confuse l’una con l’altra ed entrambe siano rappresentate nelle serie paratipiche. In questo caso, alla specie della quale già esiste l’olotipo viene assegnato il nome di quest'ultimo, mentre all'altra si assegna un nome nuovo.
L’olotipo della nuova specie di ominide - quindi il fossile-tipo su cui basare i raffronti interni e con le altre specie - è ARA-VP-6/1. Si tratta dell’insieme dentario di un individuo, comprendente incisivi, canini, premolari e molari, soprattutto della mascella.
L’olotipo fu trovato da Gada Hamed il 29 dicembre 1993. Tutti i resti degli ominidi giacevano in superficie, in una sorta di sandwich geologico formato da vetri tufacei e tufo basaltico. Con la datazione basata sul metodo radioisotopico della fusione laser a cristallo singolo di feldspato, si è ottenuta una data per l’orizzonte geologico Gàala (cammello), acronimo GATC, di 4,387±0,031 milioni di anni. La più antica datazione calcolata per i fossili di ominide dell’area dell’Awash raggiungeva finora i 3,9 milioni di anni.
Questa scoperta riguarda pertanto una nuova specie di ominide e l'origine dell’Umanità viene automaticamente ricacciata indietro nel tempo. Finora è stata opinione corrente che l’antenato fosse Lucy, e il suo scopritore Donald Johanson nonché lo stesso Tim White furono d’accordo nel denominare Australopithecus afarensis la specie cui Lucy appartiene, collocandola alla base dell’albero genealogico umano. Oggi i nuovi fossili di ramidus raccontano una storia diversa, attribuendo all’afarensis un ruolo meno centrale nell’evoluzione della nostra famiglia.
Le ipotesi basate su ricerche biomolecolari collocano la divergenza tra ominidi e scimmie antropomorfe intorno a 6-7 milioni di anni, però mancavano gli anelli di congiunzione. Il ramidus comincia a dar ragione alle ipotesi, portandoci sempre più vicini al momento della cladogenesi (dal greco kládos = ramo). Tuttavia, l’insieme dei caratteri dedotti dal ramidus induce alla cautela. Che si tratti di una nuova specie è indubbio, ma a quale genere appartenga, se uomo o scimmia, non si può ancora dare una risposta certa.
Per dimostrare come stiamo ancora navigando in un mare infido e tenebroso, basti pensare che secondo alcuni studiosi Lucy non sarebbe affatto l’antenato comune degli Australopitechi africani, ma semplicemente la progenitrice di un uomo africano estintosi con l’Australopiteco robusto.
In ogni caso, da un ramo degli Australopitechi deriva l’Homo habilis - anch’egli, come il robustus d’origine africana - comparso intorno a 2 milioni di anni orsono, dotato di un cervello più sviluppato rispetto a quello degli Australopitechi e in grado di utilizzare i primi utensili in pietra o in legno. Inoltre non era solo un raccoglitore vegetariano, in quanto aveva imparato ad uccidere gli animali e a cibarsene.
Ma il 2000 è giunto a confondere ulteriormente le idee, in quanto prima degli Australopitechi, a far da progenitori, ci sarebbero stati gli gli Ardipitechi: infatti nel 2000 è stato scoperto l'Ardipithecus ramidus, soprannominato Uomo del millennio.
Nel 2001 si è fatta un'altra scoperta: Ardipithecus ramidus kababba, ominide senz'altro bipede e che aveva una dieta diversificata rispetto a quella delle scimmie. Ci aggiorniamo grazie al Corriere della Sera di giovedì 12 luglio 2001.
Dal Corriere della Sera - giovedì 12 luglio 2001
La scoperta
In gruppo
I movimenti
Gli strumenti
La posizione
Gli usi
Trovati i resti di
cinque individui: risalgono a quasi 6 milioni di anni fa
Avevano già la
posizione eretta
I paleontologi: «Non
riusciamo a capire se erano maschi o femmine»
Scoperto uno dei più antichi antenati
dell’uomo: visse tra i 5,2 e i 5,8 milioni
di anni fa, in Etiopia, e i paleontologi l’hanno identificato come un
rappresentante della famiglia degli Ardipithecus ramidus, aggiungendo
a questo nome il termine kababba per distinguerlo da altri ominidi
della stessa specie rinvenuti precedentemente in Africa orientale.
La particolare importanza della scoperta
sta nel fatto che l’ominide appena ricomparso visse poco dopo il
momento in cui - circa 6 milioni di anni fa - da un progenitore comune si separarono due rami evolutivi che
presero strade del tutto diverse: da una parte andarono i progenitori di
scimpanzé e gorilla, dall’altra gli ominidi che in milioni di anni di
evoluzione portarono alla comparsa dei primi Homo.
Autori della scoperta, annunciata nell’ultimo
numero di Nature, sono i paleontologi di un’équipe internazionale
diretta da Yohannes Haile-Selassie dell’Università di Berkeley, in
California, che dal 1995 stanno effettuando ricerche nella media
valle dell’Awash, in Etiopia.
«I resti che abbiamo trovato
appartengono a cinque individui diversi - ha dichiarato Haile-Selassie - e,
grazie alla presenza di una mandibola che ha conservato alcuni denti,
sappiamo che avevano adottato una dieta più varia di quella delle scimmie;
inoltre, la presenza delle ossa di un dito dimostra con certezza che questi
individui avevano già adottato la posizione eretta. La frammentazione e la
diversificazione delle ossa non ci ha invece permesso di stabilire se si
trattava di maschi o femmine».
Gli Ardipithecus sono una specie
di ominidi che precedette quella degli Australopitechi a cui appartenne la
celebre Lucy, la giovane femmina vissuta circa 3,7 milioni di anni fa che ci
ha restituito uno degli scheletri di ominidi più completi che conosciamo.
Il genere Homo, dal quale noi tutti discendiamo, apparve solo attorno
ai 2,5 milioni di anni fa e ancora si discute da quale ramo degli
Australopitechi si sia evoluta.
Il fatto che le ossa ora ritrovate
appartengano a diversi individui non deve comunque far pensare che questi
morirono tutti insieme nello stesso momento. Agglomerati di ossa fossili,
infatti, si formano solitamente per l’azione delle acque che raccolgono in
uno stesso punto le ossa rimaste in superficie. Poi, col passare del tempo,
i resti vengono sepolti da strati di sedimenti che, nei casi più fortunati,
ne assicurano la fossilizzazione.
La scoperta di fossili di ominidi così
antichi è estremamente rara poiché - oltre all’esiguità della
popolazione in epoche così antiche e la fragilità di gran parte dello
scheletro - gli strati di sedimenti possono raggiungere decine di metri di
spessore e i paleontologi riescono a ritrovarle solo se l’erosione
naturale le riporta in superficie.
Le continue notizie di ritrovamenti di
ominidi costringono a destreggiarsi con una quantità di nomi diversi e
difficili da ricordare: Ardipithecus, Australopithecus, Homo
habilis, Homo erectus, ecc. Questo non dipende da un eccesso di
fantasia dei paleontologi, ma dal fatto che sul Pianeta, negli ultimi 6
milioni di anni, sono comparsi tantissimi antenati diversi che spesso sono
convissuti sugli stessi territori per milioni di anni.
Nei libri di paleontologia l’affollamento
è tale che ormai è difficile parlare di «albero genealogico», sul quale
collocare uno dopo l’altro in precisa successione i differenti individui,
e ora si preferisce alludere a un «cespuglio» con tantissimi rami, spesso
inestricabili.
La grande scoperta di questi ultimi
decenni è infatti quella di aver capito che sul Pianeta sono apparse e
convissute moltissime specie di ominidi e poi differenti specie di Homo.
Gli stessi paleontologi hanno detto per anni di non sapere se davvero tanti
nomi indicassero specie differenti (cioè separate da una barriera genetica
che ne impediva l’incrocio), ma alcuni indizi recenti paiono rafforzare l’ipotesi
che davvero siano vissute popolazioni di Homo appartenenti a specie
diverse che, almeno per certi periodi, convissero ma non dettero vita a una
prole ibrida in grado di riprodursi.
Poi, una dopo l’altra, le specie più
vecchie scomparvero lasciando il posto alle nuove, con un cervello sempre
più sviluppato. Quali meccanismi evolutivi abbiano portato a un pianeta
popolato da una sola specie umana, non è chiaro e forse non lo sapremo mai.
All’Homo sapiens - cioè
noi - che ha già «archiviato» l’Homo rudolfensis, l’Homo
habilis, l’Homo ergaster, l’Homo erectus e l’Homo
neanderthalensis (e forse altri ancora), rimane questo interrogativo e
una certezza: le specie possono scomparire. Forse, avendolo presente,
cambieremmo stile di vita e guarderemmo con occhio diverso ai popoli a
rischio di estinzione. Che comunque sono della nostra stessa specie, l’unica
che è rimasta.
Come vivevano i nostri lontanissimi
antenati? Per rispondere a questa domanda, dopo milioni di anni i
paleontologi utilizzano i risultati di una quantità di discipline diverse
(genetica, zoologia, anatomia, palinologia, sedimentologia ecc.) che negli
ultimi decenni sono diventate strumenti indispensabili per ricostruire il
passato. Comunque, anche con questi importanti aiuti, rispondere non è
facile.
Il primo «punto di appoggio», sia pure
indiretto, è comunque lo stile di vita degli scimpanzé. Grazie agli studi
di genetica e alle centinaia di fossili che negli ultimi decenni sono
affiorati dai terreni dell’Africa orientale, oggi sappiamo con certezza
che gli ominidi ebbero origine circa 6 milioni di anni fa quando da un
progenitore comune - per ora introvabile - si originarono sia le scimmie
antropomorfe che gli ominidi. Proprio questa stretta parentela ha indotto i
paleontologi a studiare il comportamento delle scimmie antropomorfe per
ipotizzare come vivevano i nostri antenati più lontani.
Osservando le bande degli scimpanzé,
gli studiosi ipotizzano che anche i primi ominidi vivessero in gruppi di
poche unità - una ventina di individui - con un maschio dominante e molte
femmine, tutti in qualche modo imparentati. Questi gruppi si spostavano sul
territorio in cerca di cibo seguendo probabilmente la stagionalità dei
vegetali e predando occasionalmente anche piccoli animali. Già in questa
fase, sicuramente, i nostri antenati utilizzavano utensili di legno e pietre
per stanare animali o scavare radici commestibili, ma non si ritiene che
realizzassero utensili standardizzati.
La differenza più immediatamente
evidente tra le scimmie e i primi ominidi fu la capacità di questi ultimi
di camminare su due zampe per periodi di tempo abbastanza lunghi e
certamente superiori alle rare passeggiate bipedi di alcune scimmie attuali.
La conquista della posizione eretta fu una tappa fondamentale per l’evoluzione della nostra specie e
le conseguenze che ne derivarono furono davvero impressionanti. Naturalmente
fu una conquista che richiese milioni di anni di adattamenti dello scheletro
e certamente i primi ominidi utilizzavano per la locomozione anche gli arti
anteriori, soprattutto per arrampicarsi sugli alberi dove probabilmente si
rifugiavano per sfuggire ai predatori e per passare la notte in posizione di
difesa.
La postura bipede presentava l’indubbio
vantaggio di lasciare le mani libere e disponibili per altri impieghi che
non fossero quello della locomozione e - secondo alcuni ricercatori -
avrebbe indotto anche un importante cambiamento delle abitudini sessuali
favorendo il rapporto «faccia a faccia» (peraltro praticato anche da
alcuni scimpanzé nani di oggi) che alla lunga portò all’identificazione
del partner e quindi alla formazione della coppia più o meno stabile.
Quest’ultimo aspetto avrebbe favorito
il prolungamento della cura dei piccoli da parte della femmina che, grazie
all’amoroso partner, sarebbe stata in parte sollevata dalle incombenze
della ricerca del cibo. E proprio le cure prolungate avrebbero favorito un
migliore sviluppo affettivo e intellettuale della prole. In definitiva, la
posizione eretta avrebbe favorito lo sviluppo dell’intelligenza dell’uomo.
Tra gli svantaggi della postura eretta
vi fu invece una forte modificazione del canale del parto che rese sempre
più difficile la nascita di piccoli con un grande volume cerebrale. A
questo inconveniente (che nelle donne attuali pare aver raggiunto il punto
critico) l’evoluzione sopperì inducendo appunto cure parentali molto più
protratte nel tempo rispetto a qualsiasi altra specie animale.
Le bande degli ominidi, prima della
completa conquista della postura eretta, dovevano essere organizzate come le
attuali bande di scimpanzé che difendono il loro territorio, conoscono le
aree e le stagioni dove sono disponibili certi alimenti, riconoscono le erbe
medicinali, hanno una «mappa mentale» del territorio in cui vivono, creano
alleanze «politiche» all’interno del gruppo (quasi sempre per scopi
sessuali), e sembrano aver cognizione della morte: sono state osservate
scimmie affrante che hanno atteso anche giorni accanto al loro piccolo morto
nella speranza di vederlo saltare in piedi
[2]
.
I territori dove vissero i nostri
antenati vengono descritti dagli studiosi come una savana aperta con erbe
alte e piccole macchie di alberi dove gli ominidi si muovevano in cerca di
vegetali e carcasse di animali morti; infatti, poiché erano alti appena un
metro e non possedevano armi naturali, non potevano far altro che
raccogliere quello che gli altri grandi predatori lasciavano sul terreno.
Ma, evidentemente, l'organizzazione sociale e lo sviluppo dell’intelligenza
furono alla fine le armi vincenti che permisero ai nostri antenati di
sopravvivere ed evolversi per milioni di anni.
Oggi i ricercatori sono praticamente
tutti concordi nel dire che il luogo dove apparvero i nostri più lontani
antenati furono le savane di Etiopia, Tanzania e Kenia. Forse, il primo
«paradiso terrestre» fu proprio nella valle dell’Awash, dove è ora
ricomparso l’antenato di quasi sei milioni di anni fa.
[1] I ragazzi sono spesso disarmanti. Mentre a fine gennaio 1996 sottolineavo ai miei cugini di Milano le stressanti peripezie volte ad appurare una notizia, esordii con l’esempio di Lucy. Avevo fatto setacciare anche da due amici il libro Le ossa della discordia, ma l’esito sul perché del nome Lucy fu negativo. Un giorno la soluzione arrivò grazie ad un giornale austriaco. Ma rimasi doppiamente di stucco quando il figlio dei miei cugini, Fulvio Martinoia, mi disse: “È facilissimo!” In un attimo trovò la pagina del suo libro di scuola media inferiore dove veniva riportata, giustamente, la canzone dei Beatles. Una cosa però non concordava con la mia fonte: gli scienziati disponevano di un mangianastri, e la canzone non era affatto trasmessa per radio. Di una cosa posso darvi certezza: a quei tempi non si usavano ancora i CD, usciti per la prima volta dai laboratori Philips nel 1980.
[2] A questo proposito ho ancora nitida davanti agli occhi una scena che osservai nel 1987 in Kenya nelle immediate vicinanze di un Hotel sulla strada Nairobi-Mombasa. Orbene, qui i Babbuini verdi o Anubi sono soliti sostare ai bordi della carreggiata in attesa che qualche cliente li gratifichi con avanzi di cibo, e si arrabbiano alquanto se non ricevono nulla, tanto che una scimmia balzò sul cofano dell’auto su cui viaggiavo e continuò a percuotere il parabrezza finché non ottenne un biscotto . Ma questo episodio fu per me di scarsa rilevanza psicologica rispetto a quanto osservai non appena l’attacco ebbe fine: una femmina se ne stava oltremodo tranquilla e teneva fra le mani un qualcosa che a tutta prima mi parve un pupazzo di peluche. Invece si trattava del suo piccolo che ormai aveva la consistenza di un pupazzo e che la madre si portava appresso da chissà quanto tempo . La cosa mi colpì profondamente, non immaginando che una scimmia potesse provare sentimenti che oggi sempre più raramente possiamo osservare nel genere Homo.