Vol. 1° -  VIII.15.7.

Gli storiografi del tacchino

È verosimile che Aldrovandi non avesse potuto leggere la quinta Decade [1] di Pietro Martire d’Anghiera, altrimenti non si sarebbe limitato a quei pochi cenni sulle galline di Imaica, amante com’era della ricerca e della precisione, tanto da venir accusato da Buffon di essere prolisso.

Se presumiamo con ragionevole fondatezza che le galline di Imaica fossero tacchini, è proprio nella quinta Decade che Pietro Martire fornisce su di essi notizie a iosa, come vedremo appresso.

Non ho a disposizione il termine esatto impiegato dal d’Anghiera quando parla dei volatili di Imaica. Egli, come Aldrovandi, scriveva in latino, e sia in latino che in castigliano gallinas si scrive allo stesso modo. Penso che per gli uccelli di Imaica il d’Anghiera abbia usato senz’altro gallinas e, leggendo il suo racconto, abbiamo la certezza che egli aveva ben presente la netta differenza esistente fra le galline europee - quelle comunemente intese - e quelle che descrive per l’America Centrale, che erano del tutto diverse.

Infatti, nel primo libro della quinta Decade, riferendo a Papa Clemente VII su una tribù che voleva scusarsi di aver attaccato Cortés tutto proteso alla conquista del Messico, così dice:

«Portavano anche numerosi cibi e una gran quantità di uccelli preparati secondo le loro usanze poiché, come abbiamo già detto e come Tua Santità ha già saputo, gli animali che si allevano laggiù al posto delle galline, non sono più piccoli né meno saporiti dei nostri pavoni. [2] »

Pietro Martire vuole appunto precisare nuovamente al Papa che, al posto delle galline come le nostre, laggiù erano allevati altri volatili e che la loro taglia era quella del pavone [3] . Non possiamo avere dubbi che il suo vocabolario fosse preciso.

Ed era preciso in quanto il d’Anghiera si era documentato in merito attingendo notizie da persone affidabili. Ne avremo conferma tra poco. Tuttavia a mio modo di vedere la notizia non è del tutto limitativa, in quanto saremmo indotti a ritenere che di polli non se ne allevassero. Credo che l’allevamento più importante fosse centrato sul tacchino.

Fig. VIII. 56 - Il cactus nopal: Tenochtitlán, sulle cui rovine sorse Città di Messico, in Nahuatl significava il luogo del tenochtli, cioè del cactus nopal.

Una piccola parentesi per precisare chi erano i Tenusitani, che incontreremo fra poco. La capitale dell’impero azteco, Tenochtitlán [4] , viene storpiata in Tenustitàn da Pietro Martire, che spesso riporta la grafia dei toponimi e dei nomi proprii in modo incerto ed erratico. La colpa è solo parziale, in quanto il d’Anghiera non ebbe mai la fortuna di sbarcare in America.

A pagina 72 della Quinta Decade, tradotta da Maria Barbara Giacometti, possiamo raccogliere notizie sul tacchino più di quanto ci offrirebbero certi opuscoli di avicoltura:

«I Tenustitani non mangiano né manzi, né capre o pecore ma, come ho già riferito, piccoli cani castrati all'ingrasso, e, spesso, cervi e cinghiali cacciati dai nativi con grande abilità. Quella terra è anche ricca di lepri, conigli, tortore, tordi, beccafichi, pernici, francolini e fagiani. Tra gli uccelli domestici ci sono oche ed anatre e vengono allevate gran quantità di certi pavoni, nello stesso modo in cui i nostri contadini fanno con le femmine dei polli che da noi chiamiamo galline.

Fig. VIII. 57 - Quei certi pavoni di Pietro Martire d’Anghiera.

«Ho già detto di come quegli animali somiglino anche, per forma e colore delle piume, alle femmine dei pavoni, ma non ho ancora descritto il loro comportamento. Le femmine depongono una ventina, a volte una trentina di uova, di modo che gli allevamenti crescono in continuazione. Si dice che i maschi siano sempre in amore e che per questo le loro carni siano assai leggere. Pare che, come i nostri pavoni, quegli animali passino le giornate a far la ruota con la coda di fronte alle femmine fermandosi ogni quattro passi, o poco più, e fremendo come un malato che batte i denti per i brividi, in preda a un attacco di febbre. Come un giovane ed elegante innamorato che cerchi il modo di piacere all'amica, i maschi ostentano diversi colori nel piumaggio del collo che, secondo il movimento delle piume, diventa ora azzurro, ora verde, ora rosso.

«A proposito di questi animali, il sacerdote Benito Martín, gran conoscitore di quelle terre, mi ha raccontato un fatto che diceva di aver osservato lui stesso, ma che mi pare poco credibile. Egli dice di aver allevato varie nidiate di quei pavoni e di averne studiato la riproduzione. Stando alle sue parole, il maschio, per un difetto alle zampe, ha difficoltà a praticare il coito, a meno che qualcuno non sorregga per lui la femmina. Essa non teme di essere tenuta in mano e il maschio non ha timore dell'uomo. Così il pavone accorre premuroso ad eseguire l’atto non appena vede qualcuno sollevare la sua femmina preferita. Questo è quanto mi ha riferito il sacerdote, ma i suoi compagni dichiarano che la cosa accade di rado.

«Sia quei pavoni, che le oche e le anatre fanno una gran quantità di uova che gli indigeni mangiano crude, condite in diverse maniere o impastate.»

La versione inglese della parte iniziale del brano - redatta in forma libera e condensata - è riferita da Schorger con queste parole:

«The Mexicans raise this bird (pauonum) as chickens (gallinas) are raised in Spain. Turkeys resemble peafowl in size and in the color of their plumage. The females lay from twenty to thirty eggs.»

A Schorger sfugge una cosa molto importante: il piumaggio del tacchino, sia maschile che femminile, non è simile a quello del pavone, bensì a quello della pavonessa che, per dirla con Vivarelli, “ci appare tinteggiata di un colore intermedio fra il grigio e il castano”.

Mentre d’Anghiera è per forza preciso: perché ben informato. Il fatto di riassumere il d’Anghiera, non esime Schorger dall’essere aderente alla realtà zoologica, poiché a farne le spese in seno al mondo anglofono è il d’Anghiera stesso.

Possiamo concludere che Aldrovandi non conobbe il tacchino in quanto non ebbe la fortuna di incappare in qualcuno gliel’avesse descritto a dovere, come invece era successo a Pietro Martire, né in qualcuno che glie ne facesse omaggio.

Strano anche ciò, in quanto il Bolognese morì che il tacchino manco più si ricordava delle sue nozze di platino con l’Europa.

La ricetta 549 de La Scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene è dedicata al tacchino, e l’Artusi così si esprime:

«Il tacchino appartiene all'ordine dei Rasores [5] , ossia gallinacei, alla famiglia della Phasanidae e al genere Meleagris. È originario dell’America settentrionale, estendendosi la sua dimora dal nord ovest degli Stati Uniti allo stretto di Panama, ed ha il nome di pollo d'India perché Colombo credendo di potersi aprire una via per le Indie orientali, navigando a ponente, quelle terre da lui scoperte furono poi denominate Indie occidentali. Pare accertato che gli Spagnuoli portassero quell'uccello in Europa al principio del 1500 e dicesi che i primi tacchini introdotti in Francia furono pagati un luigi d'oro.

«Siccome quest'animale si ciba di ogni sudiceria in cui si abbatte, la sua carne, se è mal nutrito, acquista talvolta un gusto nauseante, ma diviene ottima e saporosa se alimentato di granturco e di pastoni caldi di crusca. Si può cucinare in tutti i modi: a lesso, in umido, in gratella e arrosto; la carne della femmina è più gentile di quella del maschio.»

Ed ecco l’interessantissima nota a piè pagina dovuta a Piero Camporesi. Premetto che per quanto riguarda le presunte date d’arrivo in Europa del tacchino starei dalla parte dell’Artusi anziché di Camporesi, in quanto lo spostare l’avvenimento indietro di qualche decennio - come vorrebbe Camporesi - significa sovvertire la storia e la datazione: quella che attualmente va per la maggiore parla di 1511-1512, oppure di 1500. Avremo modo di discuterne.

«Brillat-Savarin sosteneva che il tacchino era arrivato in Europa alla fine del secolo XVII, sbagliando. Ha invece ragione l’Artusi, anche se la data va spostata indietro di qualche decennio.

«Le dindon - scrive Fernand Braudel - est venu d'Amérique au XVI siècle. Un peintre hollandais, Joachim Buedkalaer (1530-73), est l’un des premiers, sans doute, à l'avoir fait figurer sur l'une de ses natures mortes, aujourd'hui au Rijkmuseum d'Amsterdam.

«In Italia, verso la metà del Cinquecento, il tacchino (chiamato gallo o gallina d'India, pollo d'India, polastra de India) era entrato nell'uso di cucina: è ricordato dallo Scappi, dal Romoli, da Cristoforo di Messisbugo, dal Cervio nel Trinciante, da Andrea Calmo nell'ultimo libro delle sue Lettere, da Giovan Battista Della Porta nelle sue commedie.

«Il termine tacchino (dialettale e onomatopeico, tacco in Toscana, tòch, tuchén, nei dialetti emiliani) fu una vittoria dei dialetti sulla lingua colta. Il dottissimo Messedaglia ci dà indicazioni preziose sulla storia del tacchino ma non ricorda quanto preziosamente testimonia il Tanara. Per questo stimo opportuno citarne il passo: "... queste modernamente venute in Italia (le galline d'India o gallinazze) non sono né le Africane, né le Numidiche, né le Meleagridi de' Romani, perché è certo, che non è molto, che queste ci capitorno; anzi c'è chi narra che i primi Galli d'India che si vedessero in Bologna, furono mandati a Genova a donare a' Signori Boncompagni, mentre fioriva la santa memoria di Gregorio XIII, e che sia vero, fassi di giorno in giorno l’uso di questi più frequente; né Palladio, né Pietro Crescentio diligentissimi Scrittori de gli utili nella Corte della Villa ne parlano, né il Platina, qual tratta di tutti li cibi, questo nomina; e Bruirino [6] dice che a' suoi tempi fu portato in Francia. Aggiungo, che questo animale non ha per ancor determinato certo nome: chi lo chiama Gallo d'India, chi Pavone Gallo, chi Gallo Pavone, chi Gallinazzio, e da’ Rustici è chiamato Tocco..." (L'economia del cittadino in villa, Tramontin, Venezia, 1687, p.194

«Cfr. anche Petri Martyris Anglerii, De orbe novo, Parisiis 1587, pp. 365-66.

«Quanto all'uso culinario il Bertaldi c'informa ottimamente: «Si acconcia come il pavone, e si mette a bollir ancora, lasciandolo alquanto prima morto, e sua carne è vivanda da Prencipe, e nutrisce molto... è ottimo cibo, dellicato, et ha suavissimo sapore, et è di lodabil nutrimento: si digerisce facilmente, non grava lo stomaco, fa ottimo sangue, genera copia di seme; il Quercetano vuole, che superi in bontà tutte l’altre vivande. Si loda quel d'un anno: nell'estate. Si mettono ancora i loro polli arrostiti sulle tavole. Si mangiano rostiti, o bolliti come i caponi: i maschi sono più celebri che le femine... sono stati gli ultimi ad essere posti nell'uso delle mense, per cibi di esquisito, et dellicato gusto da' golosi: si come anco sono stati gli ultimi ad essere conosciuti, e riposti per la terza spetie di galline.» (Annotationi alle Regole della sanità et natura de' cibi di Ugo Benzo, pp. 243-44).»  

 sommario 

 avanti 

 


[1] La quinta Decade fu redatta fra il 1521 e il 1523; la prima edizione dell’opera completa, la cosiddetta edizione di Alcalá a cura di De Eguía, uscì postuma nel 1530.

[2] De Orbe Novo - Quinta Decade, traduzione di Maria Barbara Giacometti, Pierluigi Lubrina, Bergamo, 1991 - pagina 33. La traduzione è stata condotta sull’edizione autorevole di Parigi (1587) e sul confronto di essa con due traduzioni moderne, quella francese di Paul Gaffarel (Parigi, 1907), molto aderente al testo, e quella spagnola di Augustín Millares Carlo (México, Porrúa, 1964), più libera. Sono le testuali parole di Maria Barbara Giacometti.

[3] La taglia può ingannarci quando valutiamo il peso di un volatile. Infatti, un pavone adulto ha un peso pari a 4-4,5 kg nel maschio, 3-3,5 kg nella femmina. Il tacchino selvatico, progenitore di quello domestico, raramente supera i 10 kg nel maschio e i 6 kg nella femmina. Il maschio di tacchino ocellato si aggira intorno ai 4 kg e la sua femmina pesa circa 2 kg.

[4] Tenochtitlán - sulle cui rovine sorse il primo insediamento di Città del Messico - in Nahuatl, la lingua degli Aztechi, significava il luogo del tenochtli. Il tenochtli è il cactus nopal il quale, per intenderci, somiglia al Fico d’India, detto Opuntia ficus-indica. Sia il genere Opuntia che il genere Nopalea sono originari dell’America; in Messico si coltiva la Nopalea cochenillifera, che ospita come parassiti insetti emitteri, le cocciniglie, raccolte per estrarre una tinta detta rosso cocciniglia, ormai soppiantata dall’avvento dei coloranti chimici.

[5] Pellegrino Artusi nacque a Forlimpopoli nel 1820 e morì a Firenze nel 1911. La XIV edizione del suo trattato, dal quale è tratto il testo, risale al 1910. Possiamo pertanto desumere che all’inizio del XX secolo non si parlava di Ordine dei Galliformes, bensì di Rasores. Questo stesso vocabolo l’abbiamo incontrato in Poultry Yard di Miss Watts (1860), e abbiamo già chiarito cosa significhi Rasores: rado, in latino, vuol dire raschiare, ruspare. Anche l’italiano rasoio ha la stessa etimologia.

[6] Johannes Bruyerinus Campegius scrisse il De re cibaria, edito a Lione nel 1560.