Le mutazioni alterano il
genotipo in quanto cambiano la sequenza nucleotidica del DNA, mentre la
selezione naturale agisce sul fenotipo che dipende in larga misura da
particolari proteine sintetizzate dall’organismo. Lo studio della struttura
e della sequenza delle proteine possedute da un individuo può pertanto
dimostrarsi utile per comprendere in modo più approfondito le tappe dell’evoluzione
seguendo due importanti filoni.
Innanzitutto, paragonando la struttura di una proteina
specifica come il citocromo c
[1]
di specie differenti, diventa possibile stabilire oppure confermare le
relazioni filogenetiche in seno agli organismi e costruire un albero
filogenetico che comprenda classe, famiglia ordine, specie e così via.
Si è visto Inoltre che un certo numero di proteine esiste
in più forme strettamente correlate, come l’ovalbumina A e B, e questo
fenomeno è detto polimorfismo.
Lo studio della distribuzione delle differenti forme polimorfiche in seno a
una popolazione di una determinata specie, unitamente alla conoscenza delle
loro relazioni di dominanza, può servire a spiegare la loro storia più
recente.
Queste due aree di studio sono intercorrelate e cercheremo
di esaminare un certo numero di proteine, alcune delle quali sono state di
primaria importanza per stabilire o confermare le relazioni filogenetiche,
come è il caso delle proteine dell’eme, mentre altre si sono dimostrate
più utili per determinare le relazioni esistenti tra le razze del pollo
domestico, come è il caso delle proteine dell’albume.
L’evidenza che ha condotto Darwin
a proporre la sua teoria sull’evoluzione è emersa attraverso tre fasi
cronologiche. Dapprima il supporto maggiore al corso evoluzionistico proposto
da Darwin si basava su dati paleontologici, che raffrontano le caratteristiche
morfologiche anatomiche e macroscopiche di fossili appartenenti a periodi
diversi con le morfologie attuali. Se i sedimenti possono essere datati con
sicurezza, allora anche l’albero filogenetico dei fossili può essere
tracciato con una scala temporale rispondente al vero.
Siccome a partire dalla metà degli anni '60 sono state
acquisite sufficienti informazioni sulle sequenze proteiche, tali da
permettere un confronto di proteine specifiche in seno a specie differenti, l’evoluzione
proteica può essere esaminata su base molecolare. Ovviamente il concetto è
applicabile anche ai geni, nei quali si è verificata la mutazione che sta
alla base della sintesi delle differenti molecole proteiche.
Ma, a partire dalla metà degli anni '70, è diventato
più facile determinare le sequenze di DNA rispetto a quelle proteiche, e il
numero delle sequenze geniche sta rapidamente accrescendosi. Questo fatto
permette ora di paragonare i geni codificanti particolari proteine.
Un
albero filogenetico può essere
costruito seguendo modalità differenti,
per esempio ricorrendo alle sequenze proteiche derivanti da un singolo tipo di
proteina ottenuta da specie differenti. Sia le proteine che i geni dotati di
un numero significativo di somiglianze vengono detti omologhi. Una volta note
le sequenze di un certo numero di proteine
omologhe, le differenze relative alla loro sequenza possono venir
paragonate.
Se consideriamo le differenze esistenti tra due specie
particolari, si può dedurre la forma ancestrale dalla quale si crede che esse
possano essere derivate prendendo in considerazione il minor numero di
mutazioni. Simili deduzioni vengono generalmente fatte dopo aver preso in
esame le sequenze proteiche, e usando successivamente il codice genetico, al
fine di dedurre il numero minimo di cambiamenti nucleotidici richiesti nel
DNA. Paragonando due molecole proteiche dotate di lunghezza differente, la
conoscenza della loro struttura tridimensionale
viene avvantaggiata dalla determinazione di dove si sono verificate le
addizioni/delezioni, dal momento che la struttura terziaria viene
generalmente conservata affinché la proteina continui ad essere funzionante.
Pertanto, l’albero filogenetico prende forma
considerando il minor numero di eventi mutazionali richiesti per produrre il
cambiamento nella sequenza. I risultati di questo approccio sono stati
generalmente in eccellente concordanza con l’evidenza fossile. Tuttavia,
quando viene riscontrato solo un numero ridotto di differenze, dal momento che
possono essere coinvolti eventi casuali, si sono messe in evidenza alcune
discrepanze, specialmente quando fu presa in considerazione solamente una
singola proteina.
Analizzando un singolo tipo di proteina nel modo suddetto,
si è visto che la
frequenza
di
sostituzione
aminoacidica è costante nel corso dell’evoluzione.
Per esempio, nell’emoglobina la frequenza di sostituzione aminoacidica
corrisponde all’1% per 5,8 milioni d’anni. Se invece vengono confrontati
due tipi di molecole proteiche, come il citocromo c e i fibrinopeptidi, essi
mostrano frequenze sostitutive diverse, rispettivamente 1% per 20 M d’a e 1%
per 1,1 M d’a. Il motivo risiede nel fatto che certe proteine debbono venir specificate con molta precisione al fine di mantenere la loro
funzione intatta, come accade per l’emoglobina che deve legare l’ossigeno
alla pressione parziale fisiologica caratteristica dei polmoni e dei tessuti,
mentre altre proteine come i fibrinopeptidi, derivati dalla scissione del
fibrinogeno durante il processo coagulativo, possono tollerare maggiori
cambiamenti senza che la loro funzione vada persa.
Quando si analizzano le posizioni nella sequenza proteica
dove si verificano le sostituzioni, e vengono identificati gli aminoacidi che
sono sostituiti, si trova che la sostituzione è non casuale, cioè che certi aminoacidi vengono sostituiti più
frequentemente rispetto ad altri, e che la maggior parte delle
sostituzioni consistono in ciò che viene definito come sostituzione
neutrale, dal momento che non intacca in
modo apprezzabile il funzionamento della proteina. Le sostituzioni si
verificano più frequentemente nelle regioni delle molecole proteiche che non
sono state specificate con accuratezza. In questo modo, la percentuale di
sostituzione aminoacidica riflette in gran parte le sostituzioni neutrali in
posizioni non essenziali. La frequenza delle mutazioni è simile per tutti i
geni, ma l’entità dei cambiamenti a carico della struttura di una proteina
in accordo con la sua efficienza funzionale varia a seconda delle proteine, e
così si determina una sostituzione aminoacidica che sia accettabile per ogni
molecola proteica.
Le sostituzioni aminoacidiche sono pure responsabili di un
secondo fenomeno ad esse correlato, detto polimorfismo proteico. A partire dal momento in cui
fu possibile la separazione elettroforetica delle proteine, divenne evidente
che il polimorfismo proteico è ampiamente
diffuso. Il polimorfismo può essere scoperto se due enzimi o due
proteine qualsiasi differiscono nella loro carica elettrica globale e quindi
nella loro mobilità quando sono sottoposte a un campo elettrico. Un certo
numero di polimorfismi non può essere scoperto col metodo elettroforetico,
specialmente se essi coinvolgono delle mutazioni conservative, mutazioni cioè
in cui gli aminoacidi sono sostituiti da aminoacidi simili, la parte
idrofobica con un’altra parte essa pure idrofobica. Le osservazioni di Nevo (1978)
condotte
su 242 specie hanno messo in evidenza che il 26% di tutti i loci studiati era polimorfico
e che il 15% dei loci degli uccelli inclusi nello studio si presentava
polimorfico. Per le difficoltà insite in questo tipo di indagini, si può
addirittura arrivare a supporre che si tratta di una sottostima e che 2/3
di tutti i loci potrebbero essere polimorfici.
Quando una popolazione, appartenente a una determinata
specie, appare ben adattata all’ambiente, ci si potrebbe aspettare che nel
corso di parecchie generazioni si sia progressivamente selezionato un singolo
genotipo, il genotipo meglio adattato all’ambiente. Invece ciò accade
raramente, in quanto le popolazioni meglio
adattate mostrano un esteso
polimorfismo a carico di parecchi loci.
Un’ipotesi, che potrebbe spiegare perché accada tutto
ciò, consiste nella constatazione che lo stato di eterozigosi presenta dei vantaggi.
Un esempio è fornito da una patologia umana, l’anemia a cellule falciformi:
lo stato omozigote è spesso fatale poiché i globuli rossi si deformano a
falce e tendono ad aggregarsi nei capillari impedendo così l’apporto di
ossigeno ai tessuti; lo stato eterozigote presenta la stessa anomalia, ma di
molto minore entità, ed è in grado di conferire una resistenza nei confronti
della malaria, resistenza sconosciuta all’omozigote normale.
Parecchi ricercatori sono dell’avviso che molte delle
mutazioni che hanno dato origine a nuovi alleli, e quindi a polimorfismi, sono
mutazioni neutrali, per cui influenzano ben poco il funzionamento della
proteina. In questi casi non esiste una pressione selettiva tesa ad eliminare
la mutazione, per cui essa si fissa nella popolazione attraverso una deriva
casuale. Questo processo rappresenta un importante caposaldo per l’ipotesi
neutralista dell’evoluzione.
Ed effettivamente il polimorfismo potrebbe garantire a una popolazione un’elevata
capacità di adattamento alle variazioni delle condizioni ambientali.
[1] Citocromo: si tratta di uno dei numerosi carrier di elettroni, con funzione respiratoria e contenenti eme, presenti soprattutto in associazione con le membrane citoplasmatiche dei batteri anaerobi e con le membrane dei mitocondri negli eucarioti. Contengono ferro in forma ridotta, Fe++, o in forma ossidata, Fe+++. A livello delle membrane mitocondriali interne sono stati individuati almeno 5 citocromi, denominati b, c, c1, a, a3. Il citocromo c agisce come agente trasferente elettroni nelle reazioni di ossidoriduzione. Più della metà degli aminoacidi della sua molecola sono disposti secondo una sequenza identica in tutte le specie testate e le differenze nella sua struttura primaria tra le varie specie sono state correlate al grado di relazione filogenetica. L’uomo e le scimmie Reso differiscono per un solo residuo, mentre i pesci e i lieviti per 48.