Vol. 2° -  XXVIII.2.

Considerazioni generali sulle melanine

Da notare che i primi studi sulla pigmentazione della pelle umana condotti da Malpighi [1] , da Pechlin e da altri studiosi del XVII secolo, avevano portato all’ipotesi secondo cui il colore scuro fosse dovuto alla bile.

Questa convinzione permane tuttora camuffata dalle espressioni diventare nero dalla bile, soggetto bilioso, farsi venire un travaso di bile, quando perdiamo il controllo di noi stessi per diventare preda della collera. E collera deriva appunto dal greco cholë, o chólos, che significa appunto bile.

È come quando diciamo che il sole tramonta, e non veniamo minimamente sfiorati dall’idea che la scienza ha dovuto procedere a tappe forzate per giungere a un’esatta definizione di fenomeni biochimici o astronomici.

Il riscontro ubiquitario della tirosinasi negli organismi eucariotici e procariotici dimostra che durante il processo evolutivo degli esseri viventi la melanogenesi è comparsa precocemente e che è proseguita senza sostanziali modificazioni sino al momento della differenziazione dei mammiferi, nei quali la pigmentazione melanica, presente nei capelli, nella cute, nell’occhio, è dotata di un ruolo fisiologico importante e a vasto raggio d’azione: protezione dei tessuti dalle radiazioni UV, irradiazione del calore e controllo della temperatura, adattamento all’ambiente attraverso un’adatta pigmentazione.

In alcuni casi è la bassa temperatura a stimolare la formazione di melanina, come nel Coniglio Himalaia, che è bianco alla nascita. Successivamente l’estremità del naso, delle orecchie, della coda e delle zampe diventa nera per l’ipotermia di tali distretti, e ponendo l’animale in ambiente più freddo il nero si estende. Si tratta dell’effetto di un gene recessivo, come nel Gatto Siamese.

La Tortora Inca, Scardafella inca, abitualmente grigio-bruno chiaro, in un’atmosfera super umida diventa sempre più scura con l’avvicendarsi delle mute. Non è normale per l’Orpington fulva presentare un piumaggio striato di nero, ma dopo 6 settimane di dieta deficiente in vitamina D molte piume mostrano un’intensa pigmentazione nerastra che scompare somministrando la vitamina carente.

La zona dorsale di parecchi pesci e di altri animali è più scura di quella ventrale: questa differenza è per lo più su base genetica, ma potrebbe trattarsi di un effetto diretto della luce. Allo scopo di chiarire il problema, Cunningham e MacMunn (1893) illuminarono dal basso pesci piatti e dopo alcuni mesi notarono la comparsa di melanofori sulla superficie ventrale che in precedenza ne era priva. Recentemente questa antica esperienza è stata confermata, ma non esiste la certezza su come agisca la luce: direttamente sulla pelle o attraverso gli occhi? Numerosi lavori sperimentali hanno infatti messo in evidenza che pesci e anfibi acquisiscono più melanofori e più melanina quando vivono su una superficie scura, perdendoli quando sono mantenuti su una superficie chiara.

È oltremodo noto il fatto che anfibi, pesci e vari invertebrati che hanno come habitat le caverne, sono pallidi o bianchi. In molti casi questo fatto è probabilmente sotto controllo genetico, ma esiste un caso in cui l’assenza di luce è almeno parzialmente responsabile: il Proteus anguineus, una salamandra del Carso dagli occhi atrofizzati e nascosti sotto la cute, è incolore nelle grotte di Postumia, che è il suo habitat circoscritto, mentre si colora alla luce del giorno per sviluppo di un pigmento scuro a livello cutaneo.

La stessa esperienza è stata ripetuta con una salamandra americana delle grotte, Typhlotriton, anch’esso cieco come dice il nome. Parecchie specie di Rabdocèli, piccoli vermi della classe dei Turbellari che vivono nella profondità dei laghi alpini, differiscono dalle stesse specie che vivono nelle acque basse della costa in quanto mancano di pigmento scuro e il loro albinismo aumenta proporzionalmente alla profondità, dove si colorano in rosa tenue. I Turbellari sono così chiamati a causa delle ciglia che rivestono almeno la faccia inferiore del corpo; le specie più piccole si muovono unicamente grazie al vortice (turbo in latino) provocato da queste strutture. Ai Turbellari appartiene anche una delle Planarie europee, il Dendrocoelum lacteum, che nelle parti periferiche del Lago di Ginevra è più scuro degli individui pallidi trovati a 200 metri di profondità; un’altra Planaria, la Dugesia lugubris del Lago Maggiore, è più scura alla superficie che nei fondali.

Nei Lepidotteri il colore della luce può intervenire nella formazione della melanina durante lo stadio di pupa. Usando luce gialla si sono ottenute pupe con scarsissimo pigmento nero in Pieris brassicae , Vanessa io - -   e Vanessa urticae: l’irradiazione con luce blu o viola e specialmente coi raggi UV ha fornito delle pupe con parecchia melanina. In questi casi la luce agisce attraverso gli occhi e non direttamente sul tegumento, dal momento che la sezione del nervo della corda ventrale prima del terzo ganglio toracico impedisce l’esplicarsi dell’effetto delle varie luci, mentre tutto fila liscio se il taglio cade al disotto di questo ganglio.

In alcuni mammiferi e in alcuni uccelli è osservabile lo strabiliante fenomeno del mutamento cromatico stagionale: i peli o le piume sono scure d’estate, mentre sono bianche in inverno. Ne sono un esempio la lepre variabile di montagna Lepus timidus, l’ermellino Mustela erminea, lo zigolo delle nevi Plectrophenax nivalis. Sappiamo che nell’ermellino esistono abitualmente due mute annuali e che prima della seconda muta possono cominciare a crescere nuovi peli bianchi al di sotto di quelli vecchi colorati: quando si verifica la muta e vengono persi i peli vecchi, l’animale è già praticamente vestito del nuovo abito bianco.

Una famiglia composta da 6 ermellini allevata in Europa centrale venne suddivisa in due gruppi esposti a differenti temperature: un gruppo venne tenuto per tutto l’inverno in ambiente caldo e non perse il pelo scuro estivo, l’altro gruppo venne esposto alle basse temperature esterne andando incontro a muta e a crescita del nuovo pelo bianco. D’altro canto esiste la donnola di Bonaparte del Nordamerica, Mustela cicognanii, nella quale le normali oscillazioni della temperatura non hanno alcun effetto sul controllo della muta e del colore del pelo: è stato dimostrato che l’accorciamento della luce diurna che si verifica all’inizio dell’inverno è in grado di indurre la muta seguita dalla crescita di pelo bianco al posto di quello scuro.

Questo comportamento non è osservabile nell’europea Mustela erminea, attualmente considerata identica alla cicognanii; pertanto, trattandosi dello stesso mustelide, è stata proposta l’ipotesi secondo cui la riduzione della temperatura, comportando un cambiamento delle abitudini di vita, è in grado di provocare una riduzione della quantità di luce che gli animali ricevono, con possibile riduzione dell’attività, per cui ambedue i fattori sono in grado di produrre sia la muta che il cambiamento di colore.

Nella lepre variabile del Nordamerica, Lepus americanus, si verificano 3 mute durante l’anno: la prima è quella primaverile che veste di marrone l’animale, la seconda si instaura verso la tarda estate e soppianta il precedente pelo con un’altro marrone più intenso, la terza muta avviene in autunno e rende candido il soggetto. L’aumento sperimentale in autunno della durata della luce diurna, arresta completamente il viraggio al bianco, e un precoce aumento dell’illuminazione diurna in gennaio induce un’altrettanto precoce muta primaverile. Si dà per certo che questa ciclicità è indipendente dalla temperatura.

La pernice bianca Lagopus mutus, e la pernice bianca nordica Lagopus lagopus presente anche in Nordamerica, hanno una muta invernale che comporta un piumaggio bianco. Quando gli appartenenti alla seconda specie hanno l’abito bianco invernale e vengono sottoposti a incremento della luce diurna, sviluppano un piumaggio primaverile ed estivo, per cui il controllo della pigmentazione risiede prevalentemente nel fattore luminoso anziché termico. Controprova: in soggetti che in febbraio hanno un piumaggio primaverile completo la riduzione della luce diurna è in grado di indurre nuovamente un piumaggio bianco. È curioso il fatto che il pelo o le piume di questi soggetti diventano bianchi d’inverno, mentre le estremità del coniglio Himalaia, di vari insetti e le forme artiche di Daphnia (pulci d’acqua) diventano scure in condizioni identiche.

Le varie funzioni svolte dalla melanina esprimono chiaramente una finalità adattativa di un processo biochimico che in origine doveva avere un significato biologico ben più importante della semplice sintesi di un pigmento visibile. Infatti parecchi organismi sono dotati di popolazioni cellulari che producono pigmento nero o bruno in distretti non illuminati, come accade nei neuroni del sistema nervoso centrale e nelle cellule del sistema cromaffine dell’uomo e di altri vertebrati, dove la formazione di melanine può difficilmente essere spiegata solo nel senso di una mera pigmentazione.

Verosimilmente il vero significato biochimico della sintesi melanica deve essere ricercato nei passi iniziali del processo che conduce alla formazione degli ortochinoni. Fra tutti i composti chimici organici gli ortochinoni sono quelli dotati di maggiore reattività chimica: una volta formati, possono scatenare tutta una serie di reazioni spontanee, senza escludere la polimerizzazione ossidativa, i processi ossidoriduttivi, la condensazione di importanti metaboliti o di proteine essenziali con i gruppi -NH2 e -SH, nonché la perossidazione dei lipidi.

Lerner & Pawelek hanno messo in evidenza l’effetto citotossico dei metaboliti della tirosina: il melanocita diventa progressivamente più vulnerabile fino a morire quando si trova in uno stato di accelerata sintesi melanica. Da una serie di osservazioni cliniche e sperimentali emerge che qualsiasi composto fenolico può dimostrarsi tossico per i melanociti a causa della presenza endocellulare della tirosinasi che agisce come punto focale di assorbimento del substrato, da cui consegue un metabolismo che genera dei chinoni potenzialmente lesivi.

Alla luce di questi eventi chimicobiologici, il processo che conduce alla sintesi del pigmento può essere considerato come un meccanismo detossicante, attraverso il quale un chinone estremamente reattivo viene rapidamente convertito in un polimero insolubile, relativamente inerte e non diffusibile, ricorrendo a tutta una serie di reazioni chimiche spontanee.

La composizione chimica della melanina non è completamente nota, essendo una sostanza refrattaria a molti solventi e resistente agli acidi concentrati, per cui la sua purificazione risulta difficile. Per fortuna può essere dissolta negli alcali, ma non è stato possibile spezzarne la molecola in frammenti chimicamente riconoscibili.

Fig. XXVIII. 1. – Mary Anning da Lyme Regis,
la prima ricercatrice e rivenditrice di fossili per professione.

I Cefalopodi rappresentano la classe più evoluta dei molluschi: comprende i calamari, le seppie, i polpi e le estinte ammoniti, usate come fossili guida del Giurassico, essendo molto comuni negli strati rocciosi. Le ammoniti sono caratterizzate da una conchiglia spiralata suddivisa in numerose camerette con funzione idrostatica. Il Lias (derivato dal francese antico liois e moderno liais, nome di un calcare) è un termine di cronologia geologica che indica il sottoperiodo inferiore del Giurassico, rappresentato da calcari regolarmente intercalati ad argilla.

Lyme Regis, nel sud dell’Inghilterra, è una località famosa per i fossili e per i primi ritrovamenti: nel 1810, a soli 11 anni, Mary Anning estrasse dalle scogliere di Lyme il fossile di un intero ittiosauro; in seguito Mary diventò la prima persona a guadagnarsi da vivere raccogliendo e vendendo fossili. All’inizio del 1800 nel Lias di Lyme Regis furono scoperti i sacchi di inchiostro fossilizzati di un’ammonite, Geoteuthis, che doveva essere morta improvvisamente in quanto non aveva scaricato l’inchiostro. La stabilità della melanina è dimostrata dal fatto che è stata trovata ancora immodificata in questa ammonite, datata 150 milioni d’anni fa.

L’inchiostro dei cefalopodi è una soluzione concentrata di minute particelle meglio osservabili al microscopio in campo oscuro; i granuli di melanina sono abitualmente contenuti nei cromatofori, ma non accade così in Limnaea, genere di molluschi Gasteropodi della famiglia dei Limneidi. Nei vertebrati pecilotermi [2] i cromatofori consistono in cellule ramificate dette melanofori. Sono stati riscontrati melanofori contenenti un pigmento scuro nella pelle di pesci e di una rana dell’Eocene, nonché in un ittiosauro del Lias. Alcune melanine possono esser portate a 600°C senza che per questo si decompongano.

Essendo improbabile che questa sostanza avesse la stessa composizione in tutto il regno animale, a partire dal 1940 sono stati dimostrati tre distinti e importanti pigmenti, considerati varietà della melanina. A dispetto del suo nome, non sempre la melanina è nera: può essere marrone, marrone rossastro, rossa, addirittura gialla come nel piumino dei pulcini. Si distinguono i seguenti 3 tipi di melanina:

· eumelanina: dal greco eu = buono, si tratta della vera melanina; si presenta nera o marrone scuro.

· feomelanina, o melanina bruna, dal greco faiós; è quella fulva, gialla, rossa, marrone chiaro, mogano.

· allomelanina: állos = altro, cioè tutte le altre melanine; è presente nelle piante, nei miceti e nei batteri.

Se le strutture microscopiche dell’eumelanina sono molto ravvicinate, esse determinano il nero; quando sono tra loro distanziate, la colorazione è meno intensa, tende cioè al grigio secondo una gamma di sfumature in rapporto diretto all’entità del diradamento. Allo stesso modo la feomelanina produce un bruno cupo, un rosso bruno, un rosso pallido, persino il giallognolo. Uccelli legati filogeneticamente tra loro hanno spesso un mantello nero se abitano territori caldo-umidi, si presenta rosso bruno in zone fredde e umide, grigio o color sabbia in regioni calde e aride. Nelle zone polari, dove il clima è rigido e asciutto, il mantello è completamente bianco, assecondando le esigenze del mimetismo.

L’eumelanina è presente nelle piume degli uccelli neri, nel pelo dei gatti neri, nella pelle e nei capelli scuri dell’uomo, nelle uova di rana, nell’occhio della chiocciola, nelle squame di molti pesci, nell’inchiostro di seppia; solo occasionalmente è presente nelle piante, come accade per i funghi. Molti uccelli hanno piume nere a causa dell’eumelanina; se le piume sono azzurre o verdi la melanina si limita a fare da sfondo scuro necessario a una miglior percezione dell’azzurro o del verde dovuti a diffusione di Tyndall; lo stesso accade per l’iride azzurra dell’uomo, del gatto, e senz’altro per l’iride di un bell’azzurro posseduto da tante oche.

Un azzurro turchese dovuto alla diffusione di Tyndall è una caratteristica obbligatoria dell’orecchione della Moroseta , dove lo sfondo melanotico gioca indubbiamente il suo ruolo nella diffusione della luce da parte del bianco delle guanine. Nei vertebrati la melanina può essere presente anche all’interno dell’organismo: superficie di alcuni vasi sanguigni della rana, connettivo della Moroseta, in certe parti del cervello umano.

Il significato evoluzionistico delle melanine è stato oggetto di approfondite considerazioni da parte di numerosi antropologi e biologi. Al di là di miti e speculazioni, si può affermare che in quasi tutti i mammiferi, nonché in parecchi altri vertebrati, le melanine assolvono a due importanti funzioni:

§ aumentano l’efficienza ottica dell’occhio

§ sono responsabili della produzione di modelli cromatici a carico della cute, dei capelli, dei peli e delle piume, per lo più di significato adattativo.

Nell’uomo questa seconda funzione è molto meno chiara, in quanto, pur essendo evidente che la pigmentazione cutanea ha un significato protettivo contro gli effetti dei raggi UV, l’attuale meccanismo attraverso il quale tale protezione si attua è ancora oggetto di controversie a dispetto delle ampie ricerche in merito.

L’eumelanina è più efficace della feomelanina, specie quando presente in forte concentrazione, rendendo la piuma più solida, meno soggetta all’usura e alle alterazioni fotochimiche. Nelle farfalle la melanina potrebbe avere finalità etologiche, come dimostrano i recenti studi sul cosiddetto melanismo industriale: si tratta di un aumento delle forme scure di un animale in ambienti inquinati da fumi dell’industria. L’esempio più citato è quello della farfalla Biston betularia , le cui forme melaniche aumentarono notevolmente di numero nelle aree industriali dell’Inghilterra del nord nel corso del XIX secolo. Gli esperimenti mostrarono che le farfalle scure aumentavano nelle regioni inquinate perché meno facilmente visibili dagli uccelli quando esse si posano sulla corteccia annerita degli alberi; le forme più chiare avevano maggiori possibilità di sopravvivenza in ambienti non inquinati. Tuttavia questi motivi non costituiscono l’unica ragion d’essere della melanina, in quanto essa è presente anche nei tessuti interni di animali opachi.

Il significato funzionale delle melanine è intimamente connesso con l’attività metabolica di una linea cellulare tutta sui generis, rappresentata dai melanociti. Essi contengono un enzima specifico, la tirosinasi, che catalizza gli eventi iniziali della melanogenesi, cioè la conversione della tirosina in dopachinone, che è l’o-chinone chimicamente più reattivo e che, una volta formato, può dar luogo a tutta una serie di trasformazioni spontanee, inclusi lo scambio ossidoriduttivo, la ciclizzazione intramolecolare, il legame covalente coi gruppi nucleofili di componenti cellulari, nonché polimerizzazioni ossidative dei prodotti risultanti (Prota, 1980).

Vista sotto questo profilo, la formazione di melanina appare come una tessera di una serie più complessa di eventi biochimici che caratterizzano il metabolismo della tirosina in seno ai melanociti. Tipo e quantità di melanina sintetizzata sono geneticamente determinati, ma possono essere influenzati da tutta una serie di fattori ormonali e ambientali, tra i quali possiamo annoverare l’infiammazione, il sesso, l’età, nonché l’esposizione ai raggi UV che causa il fenomeno a tutti noto dell’abbronzatura.

In aggiunta a questi fattori esiste una serie di anomalie di sviluppo, su base genetica o acquisita, accompagnate da riduzione o da incremento della sintesi melanica, dette rispettivamente ipomelanosi e ipermelanosi. Alcuni di questi disordini pigmentari sono ben conosciuti e includono:

o l’albinismo

o la vitiligine

o le macchie mongoliche

o il melanoma.

Quest’ultimo è un tumore con elevata propensione per le metastasi, e la sua aumentata incidenza, non disgiunta da una resistenza alle terapie convenzionali, rappresenta una sfida al mondo scientifico. Il melanoma non è limitato all’uomo, in quanto si sviluppa in tutti i gruppi di vertebrati, particolarmente in certi pesci del genere Xiphophorus che hanno dato un enorme contributo alla comprensione del meccanismo genetico che guida la trasformazione delle cellule verso la malignità.

L’interesse per le melanine si estende anche in campo neurologico in quanto esse sono implicate, attraverso la neuromelanina, in disordini neurologici come il morbo di Parkinson.

Nel 1978 Blois affermava che a partire da Aristotele fino alle ricerche più recenti le melanine hanno virtualmente coinvolto nel loro studio qualsiasi tecnica applicabile di tipo fisicochimico, e che nonostante gli sforzi sostenuti non conosciamo ancora la loro struttura chimica né il loro peso molecolare, senza dimenticare che non esiste ancora un parere concorde sulla loro modalità di sintesi, né una nomenclatura soddisfacente esiste a tutt’oggi e il loro ruolo biologico deve ancor essere comprovato.

Innanzitutto le melanine naturali sono sostanze altamente insolubili con presunto elevato peso molecolare, per cui risulta alquanto indaginosa la loro separazione dagli altri componenti cellulari in cui sono presenti.

Anche quando una melanina è stata isolata, è difficile sapere se sia pura oppure no. Inoltre, fatta eccezione per alcuni pigmenti correlati dotati di basso peso molecolare, le melanine non sono delle entità ben definite, bensì miscele di polimeri più o meno simili, costituiti da unità strutturali differenti unite da legami chimici non idrolizzabili. Pertanto la degradazione chimica è inefficace, salvo far ricorso a condizioni drastiche quali la fusione in alcali a 200-250°C o all’ossidazione con permanganato, che comportano un’ampia frammentazione del pigmento e formazione di piccoli frammenti privi di significato strutturale.

Ulteriore frustrazione riservata ai chimici nasce dal fatto che le melanine sono prive di caratteristiche fisiche e spettrofotometriche ben definite, per cui il moderno approccio strutturale attraverso le tecniche spettroscopiche e l’analisi ai raggi X, veramente utili nella definizione di prodotti naturali complessi e di macromolecole, non è stato di alcun supporto sostanziale. Non bisogna tuttavia credere che, nonostante queste difficoltà, non siano stati fatti passi avanti negli ultimi vent’anni, per cui i punti oscuri sono diventati via via meno numerosi.

La pigmentazione posseduta dalle diverse razze umane, unitamente  alle sue complesse implicazioni di ordine sociopolitico, ha rappresentato il fenomeno naturale capace di stimolare le ricerche sulle melanine. Il primo passo fu mosso da Bourquelot e Bertrand nel 1895 i quali trovarono che una sostanza incolore contenuta in un fungo, la Russula nigricans, veniva trasformata in un composto nero da un enzima presente nel fungo stesso. Nel 1896 Bertrand stabilì che il substrato era rappresentato dall’aminoacido fenolico tirosina. In breve tempo fu dimostrata la presenza di un enzima simile in estratti di parecchie altre piante e nei tessuti di numerosi vertebrati e invertebrati. La Russula nigricans è un fungo abbastanza frequente e commestibile, cresce a gruppi numerosi nelle pinete e nei boschi misti su terreni ricchi di humus, sia in estate che in autunno. Se ci capiterà di cucinarlo, sulla superficie di taglio noteremo una sequenza cromatica interessante: la polpa, dapprima bianca, diventa rossiccia e infine nerastra.

Essendo la concentrazione della tirosinasi alquanto bassa nei tessuti dei mammiferi, per parecchio tempo non fu chiaro se tale enzima fosse presente anche nella pelle umana normale, nonostante il suo riscontro nei melanomi. Solo nel 1950 Lerner e Fitzpatrick dimostrarono che non esistevano due enzimi distinti, la dopaossidasi e la tirosinasi, per giustificare la sintesi melanica, in quanto la sintesi avviene grazie a uno solo dei due enzimi, la tirosinasi.

Le successive indagini di Raper e quindi di Mason (1967) portarono alla conclusione che la melanina è un omopolimero, cioè un polimero regolare formato dall’autocondensazione del 5,6-indolchinone. Ma la teoria della struttura della melanina proposta da Mason non si dimostrò pienamente soddisfacente, tant’è che i dati sperimentali provenienti dallo studio delle melanine di sintesi sono stati estesi alle melanine naturali, portando alla conclusione che esse sono strettamente simili dal punto di vista della struttura e dell’origine, da cui la tendenza a descriverle in modo collettivo sotto il nome di melanina.

Quando l’ossidazione della tirosina ad opera della tirosinasi si svolge in vitro, si ottiene la formazione di un pigmento similmelanico nero. Al contrario, il metabolismo della tirosina in seno ai melanociti è più colorito e variabile, come si può osservare a carico delle varie forme e delle varie sfumature e tinte assunte dalla colorazione melanica sia negli animali che nell’uomo.

Alcuni colori prendono origine dalla differente concentrazione, grandezza e distribuzione dei granuli di pigmento piuttosto che da differenze qualitative di composizione chimica. Effetti ottici quali la diffrazione, la diffusione e l’interferenza, contribuiscono a loro volta in modo significativo all’estensione della tavolozza dei colori prodotti in vivo dalle melanine.

Tuttavia, a livello chimico, fu noto fin dai primi tempi che la policromia della pigmentazione melanica coinvolge almeno due gruppi distinti di pigmenti:

§ le eumelanine, insolubili, nere e marroni

§ le feomelanine, solubili in alcali, caratterizzate da un colore che si estende dal giallo al marrone rossastro.

Frequentemente ambedue i tipi di pigmento sono presenti nello stesso animale, come accade per il pigmento scuro negli occhi e per quello feomelanico nei capelli e nei peli. Inoltre, in alcuni mammiferi il pelo non è colorato in modo uniforme, mostrando una banda gialla terminale o subterminale imputabile a feomelanina, mentre la base è pigmentata dall’eumelanina. Questo pelo bicolore, o di tipo aguti, riveste un interesse del tutto particolare, in quanto sta a dimostrare che lo stesso melanocita può produrre ambedue i tipi di melanina, eumelanina e feomelanina, a seconda del prevalere di determinate condizioni nell’ambiente che circonda la cellula pigmentaria.

Se poi abbiamo l’accortezza di analizzare macroscopicamente una piuma, ci renderemo conto che una barba può essere nera all’apice e poi bianca fino al rachide. Questa situazione è responsabile dell’orlatura, e in questo disegno del piumaggio tutte le barbe che si staccano dall’asse centrale sono colorate allo stesso modo.

Altre volte può accadere di osservare che l’apice è rossiccio e il resto della barba è nero, ma solo da una parte del rachide, mentre sull’altro versante le barbe sono nere: ciò accade per esempio nelle remiganti dei soggetti dorati. Talora i colori presenti sono tre: esistono barbe completamente apigmentate, quindi bianche, giustapposte ad altre che vanno gradualmente sfumando in nero in vicinanza del rachide, a loro volta giustapposte ad altre completamente nere fino a delimitare in modo più o meno netto l’area bianca, mentre il resto della piuma è rossiccio: abbiamo così descritto il piumaggio tricolore.

Altre volte le barbe sono nere in vicinanza del rachide e rossicce alla periferia: la fiamma nera delle lanceolate dei soggetti dorati ha questa disposizione del pigmento, o dei pigmenti, a seconda che si pensi a una genesi unica o multipla della melanina. Lo stesso vale, ma con disposizione inversa del pigmento, quando il mantello di un pollo è un oro orlo nero. E così via.

In base a osservazioni biologiche di questo tipo, Fitzpatrick (1958), in seguito a un’ampia revisione dei precedenti studi sulla natura dei pigmenti dei peli, ha suggerito che, mentre le eumelanine provengono dalla tirosina, la formazione di feomelanine richiede probabilmente l’intervento di un altro substrato, che potrebbe essere il triptofano o un suo metabolita correlato, per esempio la 3-idrossichinurenina, che può venir ossidata enzimaticamente in pigmenti gialli solo in presenza di prodotti intermedi dell’iter biosintetico dell’eumelanina, come il dopachinone. In queste condizioni, il dopachinone verrebbe ridotto rapidamente a dopa con la stessa rapidità con cui è prodotto, facendo così un passo a ritroso, senza che possa così formarsi pigmento nero. Gli sforzi tesi a dimostrare l’intervento di metaboliti del triptofano nella formazione della feomelanina è stata vana, con successivo abbandono di questa teoria.

La prime indicazioni sulla natura delle feomelanine provengono dallo studio di un gruppo minore di pigmenti epidermici che caratterizzano certi tipi di peli e di piume colorati in rossastro o in giallo. Questi pigmenti furono descritti per la prima volta da Sorby (1878) il quale trovò che il processo di estrazione dal capello rosso impiegando acidi minerali a caldo forniva un pigmento color porpora non ottenibile dal capello di qualsiasi altro colore. Nel 1945 Flesh e Rothman tentarono di attribuirgli una formula e lo battezzarono tricosiderina, per mettere ben in evidenza il contenuto in ferro. Nel 1956 Barnicot ottenne la dimostrazione che la tricosiderina era probabilmente un artefatto: l’estrazione dal capello rosso con alcali diluiti a freddo diede esito a un pigmento gialloarancio, convertito in tricosiderina rossa scaldandolo in presenza di acidi. La conferma fu data anche da numerosi altri studiosi, tra i quali quelli della scuola napoletana, rappresentati da Prota e Nicolaus (1967), che giunsero all’evidenza conclusiva che i pigmenti acido-estraibili erano artefatti derivanti da precursori gialli instabili. Per l’assenza di ferro, Prota e Thompson (1976) proposero il nome di tricocromi per quei pigmenti gialli presenti in natura e studiati inizialmente nelle piume delle galline di razza New Hampshire.

È stato riconosciuto che i tricocromi sono chimicamente correlati alle feomelanine, esse pure trovate nel capello rosso e nelle piume dello stesso colore, in quanto ambedue questi tipi di pigmenti provengono da una deviazione che si verifica lungo il cammino biosintetico dell’eumelanina per intervento della cisteina.

Questa scoperta è stato il punto di partenza per una nuova ed eccitante era della ricerca sulle melanine, che ha comportato una modificazione radicale nei tradizionali concetti sulla melanogenesi. Da notare che, nonostante tirosina e tirosinasi siano ampiamente presenti nel regno animale e vegetale, la presenza di melanine autentiche, nel significato moderno della parola, è molto più ristretta di quanto si pensasse un tempo, poiché le melanine provengono dall’attività metabolica di cellule specifiche, i melanociti, presenti nei vertebrati e solo occasionalmente negli invertebrati.

I pigmenti scuri riscontrabili nelle piante superiori, nei funghi e nei batteri, includono un’ampia gamma di prodotti derivati da una varietà di substrati che hanno solo una piccola interrelazione strutturale, salvo la presenza di gruppi fenolici. Gli esempi più noti di pigmenti similmelanici si trovano nei funghi e nei batteri. A differenza delle melanine di origine animale, sintetizzate nel comparto intracellulare a partire dalla tirosina, i pigmenti fungini sono abitualmente extracellulari e provengono dall’ossidazione enzimatica di fenoli non nitrici e susseguente interazione con le proteine.

Esse ricevono il nome di allomelanine. Lo scurimento delle patate, delle banane, delle mele e di altre parti di piante traumatizzate, in parecchi casi è dovuto all’effetto della tirosinasi sulla tirosina o prodotti azotati correlati contenenti un substrato fenolico, come dopa, idrossitiramina e dopamina. Queste reazioni di scurimento sono del tutto simili a quelle che si verificano durante la sintesi delle melanine e sono perciò utilissime come modello di studio della melanogenesi, pur differendone in quanto si tratta di un processo extracellulare.

Tuttavia, è degno di nota il fatto che un certo numero di melanine non nitriche provengono dall’attività di un sistema enzimatico analogo alla tirosinasi dei tessuti animali. Viste sotto questa prospettiva, le melanine non nitriche possono essere considerate un’esemplificazione di una divergenza evoluzionistica che si è verificata a carico di un più generale iter del metabolismo ossidativo dei fenoli.

Nel 1833 Gloger riferì le sue osservazioni sulla regolarità con cui si manifesta la pigmentazione delle piume e delle varie pellicce, nonché le relazioni esistenti tra le varie colorazioni e le aree geografiche in cui gli animali vivono. Le forme più scure delle varie specie, sottospecie e razze, sono presenti nelle aree calde e umide. Nelle aree calde e aride si verifica una riduzione dell’eumelanina e un incremento della feomelanina, fenomeno noto come colorazione del deserto. Nelle regioni fredde si verifica una diminuzione della feomelanina e nelle regioni polari si assiste a una drastica riduzione dell’eumelanina, la cosiddetta colorazione polare. La Barre (1955) e altri studiosi sono dell’avviso che le popolazioni con pelle scura che vivono presso l’equatore rappresentino il più grande errore di Madre Natura, in quanto la pelle scura assorbe la radiazione solare, che viene invece riflessa dalla pelle chiara.

Tuttavia, alcuni antropologi hanno dato una spiegazione alla pelle nera degli Africani - : quando il Sahara era un’immensa foresta, le popolazioni non erano in grado di ricevere la luce solare filtrata e schermata dalla vegetazione ad alto fusto, per cui gli uomini che vivevano al suolo dovevano poter utilizzare quella poca luce che riuscivano a catturare.

Non sempre esiste una corrispondenza tra colore della pelle e del pelo. Mammiferi delle zone artiche con una pelliccia densa, come l’orso polare e la volpe artica, hanno pelle nera, naso glabro e anelli perioculari neri di cute anch’essa glabra.

Nelle scimmie del sottogenere Rhesus esistono alcuni dettagli strani circa la colorazione della pelle, come il fatto che la cute durante la vita fetale è dotata di melanociti funzionanti che non lo sono nella vita adulta. Tutti i pesci abissali hanno pelle scura, nera o marrone scuro come il pelo di gran parte dei pipistrelli, parecchi dei quali volano di notte.

Lo stesso discorso sulla discrepanza tra colore della pelle e delle piume è valido per la Moroseta bianca. Robins pensa che la pelle nera sia un adattamento insorto nell’uomo con lo scopo di permettergli di nascondersi e dovrebbe inoltre rappresentare un adattamento all’albedo [3] o coefficiente di riflessione dell’ambiente presente in origine, costituito da foreste tropicali scure e dense.

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[1] Malpighi Marcello (1628-1694): di Crevalcore, a 30 km da Bologna, e che a Bologna si laureò in medicina e filosofia e dove insegnò, alternando i soggiorni bolognesi con quelli di Pisa, Messina e Roma. L'adozione sistematica del metodo microscopico assicurò a Malpighi il titolo di fondatore dell'anatomia microscopica e quando scoprì i capillari chiuse definitivamente il circuito sanguigno lasciato aperto da Harvey. Malpighi usò il microscopio anche per studi embriologici: sul baco da seta - De bombyce (1669) - e ovviamente sul quasi abusato, fin dai tempi ippocratici, embrione di pollo - Dissertatio epistolica de formatione pulli in ovo e Appendix iteratas et auctas de ovo incubato observationes continens, rispettivamente del 1° febbraio e del 15 ottobre 1672 - in cui descrisse dettagliatamente la cicatricula o blastoderma oltre alle membrane che avvolgono l'embrione, e quasi altrettanto dettagliatamente l'area vascolare abbracciata dal seno terminale, il tubo cardiaco nei vari segmenti che lo compongono, gli archi aortici, i somiti, le pliche e il tubo neurale, le vescicole cerebrali, le vescicole ottiche, l'abbozzo ghiandolare del fegato, i polmoni, i reni, le ghiandole del prestomaco e i follicoli delle piume.

[2] Pecilotermi sono quegli esseri viventi la cui temperatura corporea è variabile e si adatta a quella dell’ambiente. In greco poikílos vuol dire vario.

[3] Albedo (dal latino albus, bianco): rapporto tra l’intensità della luce riflessa dalla superficie di un pianeta e l’intensità della luce incidente. Ne indica quindi la capacità riflettente ed è espresso da un numero compreso fra 0 (nessuna riflessione, superficie perfettamente assorbente) e 1 (riflessione totale, superficie perfettamente riflettente). L’albedo dipende dalla natura della superficie planetaria e dall’atmosfera eventualmente presente. Nel caso della Terra ha un valore medio di 0,35 che varia a seconda della copertura nuvolosa, dell’estensione dei ghiacci e della presenza di particolari aerosol atmosferici. Poiché indica quanta parte della luce solare viene assorbita dal sistema terra-atmosfera, la conoscenza dell’albedo è importante nell’analisi del bilancio energetico dell’intero pianeta.