I metodi di datazione assoluti
sono in grado di stabilire, sia pure con un certo grado d’approssimazione, l’età
effettiva di un certo reperto.
Per lo più i metodi di
datazione assoluti sono radiometrici, cioè basati su misure di radioattività
residua di rocce e di resti organici e sull’analisi dei prodotti che si
formano nel processo di decadimento radioattivo (trasformazione di un elemento
radioattivo in un differente elemento stabile per emissione di particelle
alfa, beta, gamma etc). Il decadimento è un processo interno ai nuclei
atomici e segue un ritmo costante che è caratteristico di ogni specie chimica
radioattiva. Il tempo che impiega una certa quantità di un elemento
radioattivo a dimezzarsi è detto tempo
di dimezzamento o periodo
di semitrasformazione. Per esempio, l’uranio -238 (238U) si
trasforma in piombo -206 (206Pb) con un tempo di dimezzamento di
4,5 miliardi d’anni. Questo significa che dopo questo tempo 1 g di
238U
si è trasformato per metà in
206Pb e che dopo altrettanto tempo
saranno rimasti 0,25 g di
238U etc.
Il metodo di determinazione radiometrica consiste nel contare
gli atomi di isotopo radioattivo ancora presenti nei minerali della roccia e
quelli dell’elemento derivato dall’isotopo. La loro somma ci dà il numero
di atomi radioattivi iniziali, presenti nella roccia quando si è formata.
Conoscendo il tempo di dimezzamento e la quantità iniziale e finale dell’elemento
in questione, mediante opportune formule è possibile calcolare il tempo
trascorso da quando la roccia si è formata.
I principali isotopi radioattivi, o radionuclidi, utilizzati per le radiodatazioni sono, oltre a
238U,
l’uranio -235, che decade a piombo -207, il torio -232 (232Th)
che decade a piombo -208, il rubidio -87 (87Rb) che decade a
stronzio -87 (87Sr) e il potassio -40 (40K) che decade
ad argo -40 (40Ar).
Tutti questi elementi consentono
datazioni per intervalli di tempo superiori a 45.000 anni. Per la
determinazione di età relativamente recenti si ricorre a elementi radioattivi
di vita breve. Il metodo più usato, specialmente per datare i reperti
organici, è quello del radiocarbonio, basato sul decadimento del carbonio -14
(14C) ad azoto -14 (14N).
Metodi
di radiodatazione |
|||
radionuclidi |
prodotti
del decadimento |
tempo
di dimezzamento |
intervallo
di tempo in anni |
87Rb |
87Sr |
1,47·1010 |
4,5·109¸1010 |
232Th |
208Pb
4He |
1,39·1010 |
4,5·109¸107 |
238U |
206Pb
4He |
4,5·109 |
4,5·109¸107 |
235U |
207Pb
4He |
7,1·108 |
4,5 · 109¸107 |
40K |
40Ar |
1,33·109 |
4,5·109¸104 |
14C |
14N |
5,73·103 |
max
40·103 |
Il
metodo del radiocarbonio fu messo a punto nel 1947 dal fisico statunitense
premio Nobel Willard Frank Libby (1908-1980), osservando che l’isotopo carbonio -14 (14C)
è prodotto dall’isotopo 14N nell’alta atmosfera sotto il
bombardamento dei raggi cosmici. Ciascun atomo di 14N dà un atomo
di 14C e un protone. Il 14C Si combina con l’ossigeno
per dare biossido di carbonio radioattivo, 14CO2 che raggiunge la superficie della Terra e viene
assorbito dalla materia vivente. Quando un animale o una pianta muoiono, il
carbonio -14 in essi contenuto si disintegra con un tempo di dimezzamento di
5.730 anni. Con questo metodo è possibile effettuare datazioni fino a un
massimo di circa 40.000 anni, anche se con apparecchiature molto sofisticate
si può estendere quest’intervallo di tempo a circa 70.000 anni fa. I ritmi
di disintegrazione del
14C sono i seguenti: dopo 5.730 anni è
ridotto alla metà, dopo altri 5.730 è ridotto a un quarto, e così via.
Dunque ogni 5.730 anni il
14C contenuto in un organismo morto si
dimezza.
Il metodo delle tracce di
fissione è basato sul rilevamento dei danni provocati alle strutture
cristalline da parte delle disintegrazioni radioattive conseguenti alla
fissione di
238U. Le impronte dei danni sono messe in evidenza con
opportuni procedimenti chimici e vengono contate servendosi del microscopio
ottico. Il rapporto tra il numero di tracce di fissione vecchie (cioè già presenti nel campione) e di tracce di fissione nuove
(ottenute sottoponendo il campione a un bombardamento con quantità note di
238U)
corrisponde al tempo trascorso da quando il minerale subì un certo
raffreddamento. L’ampiezza degli intervalli misurabili con questo metodo va
da 300.000 a 300 milioni d’anni.
Il metodo delle varve si basa
sull’alternanza stagionale dei sedimenti deposti nei laghi periglaciali.
Poiché ciascun strato o varva
[1]
,
composto di un letto chiaro e uno scuro, rappresenta l’intervallo di tempo
di un anno, il numero di varve in un deposito ne definisce il tempo di
formazione. Con questo metodo, nei depositi glaciali scandinavi e americani
sono state datate delle sequenze che risalgono fino a 15.000 anni fa.
La dendrocronologia si basa
sulla misura degli anelli annuali di accrescimento delle piante, fossilizzate
o non fossilizzate. È possibile trarre indicazioni sulle variazioni
climatiche passate basandosi sul presupposto che i vasi conduttori delle
piante si modificano secondo la maggiore o minore presenza di acqua: in
primavera, per lo schiudersi delle gemme, è necessario un maggior apporto
idrico e le pareti dei vasi sono pertanto più sottili al fine di permettere
un flusso maggiore. Ogni stagione vegetale determina inoltre un accrescimento
del diametro del fusto con la formazione di nuovo tessuto. Nella sezione
trasversale di un tronco appariranno quindi degli anelli
annuali, ciascuno formato da una
parte più chiara e larga corrispondente al legno primaverile, e da una più
scura e compatta corrispondente al legno estivo.
La dendrocronologia non è applicabile agli alberi che
vivono in aree senza variazioni stagionali, dove l’accrescimento è costante
tutto l’anno, e neppure alle dicotiledoni, come le palme, in cui l’accrescimento
non avviene secondo anelli concentrici. Per stabilire l’età di un albero
senza abbatterlo si effettua un carotaggio,
si preleva cioè un tassello di legno corrispondente al raggio del tronco. La
dendrocronologia permette la datazione solo di periodi relativamente recenti,
vista la durata limitata della vita di una pianta e la scarsità di reperti
fossili.
[1] Varva deriva dallo svedese varv, deposito, passato in inglese come varve. Il termine fu introdotto dal geologo scandinavo De Geer nel 1912.