Lessico


La carne dei nostri Nonni
la Razza Bovina Piemontese

di Giorgio Scelsi

Mi chiamo Giorgio Scelsi e sono un agricoltore con azienda a indirizzo zootecnico in Moncalvo Monferrato (AT), socio della COPAGRI di Asti, grazie alla quale ho già potuto parlarvi della Gallina Bionda delle Crivelle.

Da 35 anni allevo, studio e conduco esperimenti sulla Razza Bovina Piemontese. Sono un allevatore un po’ particolare. Durante gli studi in agraria avevo conosciuto e praticato l’agricoltura e l’allevamento cosiddetto convenzionale, cioè quel modo dl fare agricoltura e allevare gli animali secondo gli schemi imposti da ragioni esclusivamente economiche scaturite dopo la seconda guerra mondiale.

Per essere più precisi, tale tipo di agricoltura si basava e tuttora si basa nel fare a gara a produrre il massimo, cioè si privilegia la quantità ma non la qualità, che significa produrre secondo natura. Anzi, per avere delle sovraproduzioni ci si dimentica dell’ambiente circostante e si compromette tutto l’ecosistema delle nostre campagne. Perciò, quando acquistai i primi bovini di Razza Piemontese decisi senza ombra di dubbio di allevarli secondo quanto dettato dalla natura. Erano degli erbivori e l’erba doveva essere il loro unico sostentamento qualunque fosse il loro impiego sia da riproduzione che da ingrasso.

Dagli altri allevatori ero guardato con diffidenza perché la loro mentalità, condizionata anche da un certo tipo di informazione, li portava a considerare i bovini animali poligastrici, alla stessa stregua dei monogastrici (vedi polli e maiali).

Dopo 35 anni gli altri allevatori sono sempre rimasti sulle loro posizioni o hanno chiuso le stalle per insostenibili costi di gestione, come purtroppo si è verificato nel Monferrato, dove gli allevamenti sono quasi scomparsi.

Il sottoscritto, invece, con gli studi fatti sulle carni naturali (sottolineo naturali e non biologiche) della Razza Piemontese, può informare i consumatori che è possibile ricreare, con il concorso di tutta la filiera, la carne che si mangiava in Piemonte 2000 anni fa e che si è mangiata fino alla scoperta dell’America.

Devo fare una considerazione: i nostri antichi progenitori non avranno avuto le conoscenze scientifiche di oggi, ma sapevano veramente allevare gli animali, cucinare le loro carni e “gustare” il cucinato. Mi riallaccio alla parola cucinare perché, da quanto è prevedibile, nel prossimo futuro chi vorrà o potrà cibarsi di carne bovina dovrà imparare i tempi di cottura, perché non saranno più quelli a cui i consumatori sono oggi abituati. Infatti fra qualche tempo l’Europa sarà invasa da carne proveniente dal Sud America, dove viene praticato l’allevamento bovino al naturale. Si deve sapere che la natura per darci la qualità impiega tempi lunghi.

Se vi saranno richieste di dettagli e informazioni tecniche su questo tipo di carne da me sperimentato, del tutto differente dalla carne oggi in commercio in Piemonte, si procederà all’informazione sul sito della COPAGRI di Asti.

Il pascolo semibrado in Piemonte
intorno al 1970

Esperimenti di allevamento di Bovini Piemontesi
 allo stato semibrado
 praticati in Piemonte negli anni '70
con risultati mai pubblicati

di Giorgio Scelsi

2 giugno 2009

Mi chiamo Scelsi Giorgio, abito a Moncalvo e da 35 anni allevo bovini di razza piemontese. In questi ultimi anni chiunque legga certe riviste che trattano di allevamento di bovini piemontesi nel territorio regionale ma specialmente in provincia di Asti ha l’impressione di trovarsi non in Italia bensì nella Pampa Argentina. Dico questo perché da quanto si legge sulle riviste si vuole fare credere che la Razza Piemontese venga allevata allo stato semibrado. Parlare di stato semibrado in Piemonte e nelle regioni settentrionali al di fuori dei territori montani è un'utopia.

Alla diffusione del pascolamento nell’Italia Settentrionale si oppone innanzitutto la scarsità di terra, essendo quasi tutti i terreni suscettibili di coltivazione agraria sottoposti a colture intensive. È facile far credere a dei cittadini profani che gli allevatori di bovini piemontesi mantengano i loro animali con il pascolo semibrado e perciò con spese minime, ottenendo quindi dalla vendita di questi soggetti lauti guadagni. Poiché, come anziano allevatore e agricoltore, mi sento particolarmente indignato da certe false informazioni ho deciso di far conoscere a tutti i deludenti risultati degli esperimenti di allevamento di bovini piemontesi allo stato semibrado praticati negli anni settanta del secolo scorso a cui ho assistito personalmente.

In quegli anni un mio conoscente allevatore, abitante in Castelletto Merli, comune in provincia di Alessandria, confinante col comune di Moncalvo, con azienda agricola a 3 km dalla mia, decideva di tentare di allevare le sue bovine, per i mesi estivi e autunnali, con il pascolo semibrado itinerante su terreni non coltivati o a bosco della Valle Cerrina. Ogni anno, terminata la fienagione del maggengo che veniva stoccato per l’alimentazione invernale delle vacche, partiva ai primi di Giugno con la sua mandria composta da 30 bovine piemontesi, parte della coscia e parte nostrane. Le bovine erano fecondate da uno o due mesi. Durante il mese di giugno, data l’abbondanza delle erbe nei pascoli, la mandria si manteneva al massimo a una decina di km dall’azienda. Le vacche trovavano sufficienti unità foraggiere per rimanersi in condizioni fisiche ottimali.

Le dolenti note invece si riscontravano nei mesi di luglio-agosto quando regnava il gran secco. Gli animali dovevano percorrere  giornalmente qualche km per cercare di soddisfare la fame. Iniziavano a dimagrire. Molte volte nonostante la sorveglianza dei cani e dell’uomo sconfinavano nei vigneti e procuravano gravi danni cibandosi dei tralci. La mandria a metà di agosto sensibilmente provata raggiungeva le colline antistanti la città di Chivasso. Aveva percorso più di 60 km pascolando nei terreni incolti della Valle Cerrina appartenenti a tre province: Alessandria-Asti-Torino.

Dopo i temporali di fine agosto riprendeva il cammino in senso contrario sempre sugli stessi terreni pascolati all’andata e ai primi di novembre giungeva in azienda e veniva stabulata. Gli animali in 5 mesi avevano percorso, per poter sopravvivere, più di 120 km. Da segnalare il comportamento differente nell’alimentazione a pascolo tra le vacche nostrane e quelle della coscia. Le bovine nostrane risultavano in discrete condizioni mentre quelle della coscia erano molto dimagrite. Dovevano essere alimentate con particolare attenzione negli ultimi mesi prima del parto.

Questa era la situazione della mandria al pascolo in terreni incolti in un’annata normale. Però gli esperimenti sono continuati per una decina di anni. In questo lasso di tempo vi sono state annate particolarmente siccitose che hanno obbligato l’allevatore a ricondurre la mandria in azienda dopo solo 2 mesi di pascolamento a causa della mancanza di cibo e dalla mancanza di acqua nei punti di abbeveraggio. Facendo una accurata analisi, soprattutto economica in quei 10 anni di pascolamento semibrado, l’allevatore decise di rinunciare all’alimentazione itinerante delle sue vacche, di migliorare le produzioni foraggere aziendali introducendo, su mio suggerimento, la pratica degli erbai intercalari al fine di avere una massa di foraggio idonea per tutto l’anno al mantenimento della sua mandria in azienda.

Quindi da quanto riferito si evince che praticare il pascolo semibrado su terreno incolto nelle nostre province piemontesi così densamente coltivate è del tutto impossibile anche perché nei nostri terreni incolti sono molto scarse le erbe appetite dai bovini. In quegli anni molti allevatori del Monferrato oltre al sottoscritto hanno seguito con interesse l’esperimento, ma visti i risultati deludenti nessuno ha seguito l’esempio.

Oggi gli allevatori di bovini piemontesi allevano gli animali in recinti più o meno ampi dotati di ricoveri per le intemperie e provvedono giornalmente al foraggiamento adeguato in apposite mangiatoie. Questa è la reale situazione dell’allevamento della Razza Piemontese nelle nostre province. Le false informazioni non sono di beneficio a nessuno. Risultano anzi di grande danno per gli allevatori di bovini piemontesi che con grandi sacrifici e investimenti di notevoli capitali sono riusciti a far sopravvivere una razza bovina considerata universalmente tra le migliori del mondo per la qualità e la resa delle sue carni.

Piuttosto, poiché siamo in un grave periodo di recessione anche per il comparto bovino, soprattutto per quanto riguarda la Razza Piemontese, sarebbe molto opportuno che gli organismi di informazione tecnico-scientifica agricola facessero conoscere agli allevatori di Piemontese i sistemi più economici e naturali di alimentazione del bestiame al fine di far sì che la carne dei loro animali sia competitiva con quella delle altre razze da carne sia italiane che estere e non solo un prodotto di nicchia alla portata esclusiva delle categorie di consumatori più abbienti.

La biodiversità
per un'agricoltura sana

di Giorgio Scelsi

2 giugno 2009

Mi chiamo Scelsi Giorgio, sono un anziano agricoltore e allevatore piemontese che trenta anni fa ha smesso di praticare l’agricoltura convenzionale e ha dedicato le sue energie all’agricoltura e all’allevamento naturale. La maggior parte delle persone confondono l’agricoltura naturale con quella biologica. È doveroso dare una spiegazione definitiva.

L’agricoltura biologica è soggetta a leggi e regolamenti inventati dall'uomo mentre l'agricoltura naturale si basa esclusivamente sulle leggi dettate dalla natura fin dall'inizio della vita sulla terra. Per essere più chiaro faccio un banale esempio. La vacca appartiene alla classe dei mammiferi , specie bovina, gruppo  ruminanti cioè animali caratterizzati dall'alimentazione esclusivamente erbivora. La gallina appartiene alla classe degli uccelli ordine gallinacei caratterizzati dall’alimentazione granivora.

Orbene l’uomo moderno ha voluto stravolgere le leggi naturali per i suoi fini economici e ha trasferito l’alimentazione dei gallinacei ai bovini. Quindi si può intuire che i prodotti finali dei bovini, cioè latte, formaggi e carne sono stravolti. Non hanno niente a che vedere con quelli di cui si alimentavano i nostri antenati. Ho detto tutto questo per anticipare l’argomento di cui tratterò legato all’agricoltura naturale e cioè le biodiversità dei nostri territori piemontesi.
L’uomo moderno che oggi vive nell’epoca del consumismo in grandi agglomerati urbani ha scordato quasi del tutto le modalità del mangiar sano, gustoso e naturale. Dalla grande svolta economica degli anni sessanta del secolo scorso ai consumatori sono stati praticamente imposti certi parametri di alimentazione: sempre le solite varietà di ortofrutta ottenute con largo uso di prodotti chimici e produzioni animali ottenute da allevamenti intensivi che nulla hanno da invidiare alla  catena di montaggio dell’industria.

Oggi la situazione è ancora peggiorata poiché siamo in un mercato globalizzato dove conta solamente lucrare sulla pelle dei consumatori. Una quindicina di anni fa gli organi di informazione cominciarono a parlare della possibilità di tutelare le biodiversità sia vegetali che animali in pericolo di estinzione perché molto più robuste verso le avversità. Si era capito che il quotidiano ricorso ai preparati chimici per difendersi da parassiti e malattie avrebbe comportato un grave danno alla salute umana. Il progetto sembrava ottimo tanto che l’Unione Europea stanziò per le biodiversità sostanziosi fondi da ripartirsi tra gli stati membri. Le regioni italiane ebbero i finanziamenti. Anche la Regione Piemonte sembrava interessata alle biodiversità finanziando studi in materia. Furono fatti numerosi convegni in diverse località del Piemonte e ad alcuni fui invitato. Si presentarono studi sulle produzioni vegetali e animali meritevoli di salvataggio e poi tutto finì a tacere. Praticamente, all’infuori di qualche volenteroso agricoltore che tenta il salvataggio di alcune specie, le biodiversità in Piemonte sono ignorate dalle Istituzioni.

Dico questo perché da molti anni mi occupo di biodiversità animali e vegetali e non ho mai riscontrato apprezzamenti dai centri del potere. Mi sembra perciò doveroso far sapere che le biodiversità in Piemonte sono in parte già estinte e in parte in forte pericolo di estinzione. Il settore animale è quasi agli sgoccioli. Infatti, già negli anni trenta del secolo scorso è scomparso il maiale piemontese, detto anche di Cavour, suino dal mantello nero, rustico con carni molto saporite. Nel duemila è definitivamente scomparsa la vera gallina Bionda denominata di Buttigliera e delle Crivelle, una delle migliori razze italiane sia da carne sia da uova. Altra razza di gallina quasi del tutto scomparsa è la Gallina dal Collo Pelato, animale di taglia pesante produttrice di ottima carne e grandi uova. Altro animale in agonia è il Tacchino nostrano, erede dei tacchini importati nei nostri territori dal Nuovo Mondo nel 1500, animali con carni consistenti e saporitissime che nulla hanno a che vedere con le carni delle moderne razze di tacchini giganti allevati industrialmente. Scomparse dalle aziende agricole anche le faraone nostrane eredi di quelle importate dai Romani dal nord Africa, grandi pascolatrici, utilissime alleate dell’uomo nel distruggere ingenti quantità di insetti dannosi all’agricoltura.

Quasi del tutto scomparso il coniglio nostrano piemontese, animale dal mantello uniforme grigio, rustico, grande consumatore di erba. Praticamente a livello di reliquia la razza bovina Tortonese, un tempo a triplice attitudine, lavoro, latte, carne. Dal suo latte si ricavava uno speciale ottimo formaggio denominato Montebore. Oggi  nella zona di origine viene fatto con il latte della razza Frisona o Bruna alpina. È solamente una brutta copia di quello originale in quanto il latte della Tortonese aveva caratteristiche differenti.

Per quanto riguarda il settore vegetale le biodiversità erano migliaia. Solo nel comparto frutticolo in Piemonte si contavano più di ottocento varietà di mele, centinaia di varietà di pere, prugne, pesche, ciliegie ecc, che producevano frutti dai diversi colori e sapori. Al mercato dei contadini, oggi del tutto scomparso, veniva offerta frutta maturata naturalmente in tutte le stagioni e ogni stagione aveva le sue varietà, non come oggi che sui mercati giornalieri o nelle catene della grande distribuzione vengono imposte 4 o 5 varietà di frutta tutto l’anno raccolte verdi e conservate in celle frigorifere dove poi con l’ausilio di gas vengono preparate per la commercializzazione. Una prerogativa fondamentale delle antiche varietà di frutta è la rusticità e la robustezza verso gli attacchi dei parassiti. Se fossero salvate, si potrebbe ottenere ottima frutta senza l’ausilio dei prodotti chimici cosi diffusi invece per salvare le moderne varietà dalle malattie.

Anche per quanto riguarda le piante orticole oggi vengono proposte al consumatore varietà moderne, frutto di incroci e ibridazioni sempre più delicati verso i patogeni e perciò salvate solo dagli interventi chimici, quindi non naturali. Quasi del tutto scomparsi gli antichi ortaggi che seminavano i nostri nonni. Erano varietà così robuste che non erano attaccate da alcun parassita. Sono state abbandonate perché le loro dimensioni erano normali mentre oggi dagli ibridi si ottengono ortaggi giganti, pieni di acqua ma di bell’aspetto che appagano l’occhio del consumatore. Faccio un esempio esplicativo: i peperoni che oggi troviamo ai mercati sono di taglia enorme, sono degli ibridi soggetti a virosi e parassitosi inimmaginabili da parte del compratore e devono settimanalmente essere trattati da prodotti chimici sempre più potenti per  essere salvati per la commercializzazione. Però noi tutti sappiamo che il peperone è originario dell’America da cui è stato importato in Europa nel 1500. Si diffuse da allora in diverse varietà originali nelle nostre regioni italiane. Anche il Piemonte annoverava varietà naturali che sono state abbandonate e sostituite dai moderni ibridi. Solo da qualche anno si sono ritrovate alcune varietà dei tempi antichi e riprodotte hanno stupito coloro che le hanno piantate nei loro orti. Infatti, tali piante dalla nascita alla raccolta delle bacche mature risultano totalmente immuni da tutte le avversità. Le produzioni sono enormi perché da ogni fiore si ottiene un frutto e il periodo di raccolta va da luglio a novembre. Come al solito però la cosa è conosciuta da pochi e nulla viene fatto per la diffusione delle antiche varietà.

Un’altra dolente nota riguarda il comparto viticolo. Fino a quaranta anni fa in Piemonte avevamo molte varietà di viti ereditate dai tempi antichi che davano normali produzioni di uva che era trasformata in vino di ottima qualità. Ma anche questo settore si adeguò alle cattive leggi del consumismo. L’imperativo era produrre sempre di più per guadagnare di più. Poiché le antiche varietà di viti oltre quel limite non andavano si pensò di creare nuove varietà dalle produzioni prodigiose ma i nomi ai vitigni non furono cambiati. Così oggi si vuol far credere ai cittadini che il moscato, il barbera, il grignolino, la freisa ecc. siano sempre quelle coltivate dai nostri progenitori. Per farla breve il vino di oggi non ha nulla a che vedere con quello che si produceva fino a quaranta anni fa e gli anziani produttori e intenditori lo possono confermare.

In conclusione, se vogliamo uscire dalla profonda crisi economica che attanaglia la nostra agricoltura che ha definitivamente perso competitività  verso i mercati mondiali, dobbiamo tutti insieme, Istituzioni, organizzazioni agricole, agricoltori, riscoprire le Biodiversità che sono le uniche in grado di produrre un'agricoltura sana, di qualità, rispettosa dell'ambiente e con una importante opportunità: favorire il rilancio delle piccole aziende agricole che di questo passo sono destinate all’estinzione. Rilevante sarà la conservazione di un patrimonio ereditato dai nostri predecessori da trasferire alle generazioni future.