Lessico


1960-2010
Cinquant’anni spesi dal comparto agricolo
a distruggere l’ambiente delle nostre campagne

di Giorgio Scelsi

Rana verde comune – Rana esculenta

Mi chiamo Scelsi Giorgio, sono un anziano agricoltore piemontese che di fronte a certe odierne affermazioni giornalistiche, volte a presentare all’opinione pubblica gli agricoltori come i difensori dell’ambiente campagnolo, ha deciso di far sapere a tutti come era l’ambiente agricolo dopo la seconda guerra mondiale fino agli anni sessanta e come è quello attuale fortemente inquinato a opera degli stessi abitanti delle campagne.

Inizialmente prendiamo in esame i contadini di quel periodo. Erano dei veri naturalisti che vivevano in simbiosi con il mondo campagnolo a loro affidato dagli antenati. Conoscevano a fondo le leggi della natura e le rispettavano. Erano consapevoli che ogni errore commesso contro l’ambiente avrebbe procurato danni economici alle loro famiglie. Un esempio significativo era la protezione dei loro orti dagli insetti nocivi alle coltivazioni che era affidata ad animali insettivori come rane, rospi, lucertole, ramarri, ricci e piccoli uccelli. Avevano creato degli habitat in cui tutte queste specie proliferavano. Gli ortaggi che le famiglie consumavano erano del tutto naturali.

Nella conduzione delle aziende agricole, sia piccole che di grandi dimensioni, le regole erano sempre le stesse: rispettare doverosamente l’ambiente e affidarsi a metodi sicuri sperimentati da secoli e tramandati di padre in figlio. Metodi rivelatisi remunerativi tanto da poter mantenere famiglie numerose come allora si potevano osservare nelle nostre campagne.

A quei tempi, poiché la meccanizzazione era ai primordi, qualsiasi azienda possedeva animali bovini a triplice attitudine (lavoro-latte-carne) e cavalli da tiro. Questi animali dai contadini dell’epoca erano tenuti in grande considerazione perché, oltre a svolgere i compiti loro assegnati, producevano un bene indispensabile alla coltivazione della terra: il letame. Ricordo ancora, quando partecipai da giovane a un convegno di agricoltori, la frase che un allevatore nato nei primi anni del novecento disse rivolto ai convenuti: «Cari agricoltori, ricordatevi che il letame per le vostre terre è ricchezza!».

Ho avuto modo in seguito di accertare quanto fosse vera quell'affermazione. Tornando al letame, ogni contadino di allora annualmente con le deiezioni degli animali riusciva a concimare alcuni campi della sua azienda. Gli altri terreni sarebbero stati svantaggiati nelle future produzioni agricole se non fosse intervenuta a favore del reddito aziendale la buona pratica agricola acquisita da tempo immemorabile, cioè il sovescio.

Per chi non lo sapesse, il sovescio consiste nel seminare in genere piante leguminose di rapido sviluppo con potente apparato radicale e sotterrarle con l’aratro dopo la fioritura. Così facendo si ottiene una concimazione a volte superiore allo spandimento di letame. Perciò quegli agricoltori di allora potevano tranquillamente seminare i cereali sicuri di avere ottimi raccolti. In effetti con le varietà di quei tempi per ogni ettaro coltivato si riusciva a ottenere mediamente 45-50 quintali di seme di grano e altrettanta quantità di paglia. Non esisteva l’altalena dei prezzi. La valutazione del grano era stabile, circa 7-8 mila lire al quintale, un prezzo piuttosto remunerativo per il contadino in considerazione delle ridotte spese di produzione.

Con la pratica del sovescio i terreni risultavano quasi sempre privi di erbe dannose alle coltivazioni. Gli agricoltori di allora sapevano distinguere le vere infestanti dalle erbe foraggere che erano di valido aiuto per la gestione delle loro stalle. Per essere chiaro, rispettavano nei campi di grano il loglio italico, le festuche, la coda di topo, la coda di volpe ecc., perché sapevano che queste graminacee non danneggiavano il grano, anzi miglioravano il valore della paglia che così era appetita dal bestiame che la mangiava avidamente. Codeste foraggere maturavano prima della raccolta del grano e rilasciavano sul terreno i loro semi. Poiché era buona regola non praticare il ristoppio per motivi economici, le stoppie per l’anno successivo venivano lasciate a riposo. I contadini però sapevano che la natura non riposa mai e anche se non seminavano quei campi erano consapevoli che l’anno dopo nel mese di maggio avrebbero avuto un abbondante raccolto. Infatti i semi caduti sul terreno l’estate precedente dalle foraggere mescolate al grano germinavano e trasformavano le stoppie in fitti prati che producevano enormi quantità di ottimo fieno che permetteva praticamente di mantenere gratis gli animali delle loro stalle.

Per quanto riguardava i vigneti, le uniche malattie da combattere erano la peronospora e l’oidio che venivano neutralizzate con pochi trattamenti a base di solfato di rame e polvere di zolfo. Le piante da frutto ogni anno fiorivano regolarmente e solo con uno o due trattamenti con solfato di rame producevano grandi quantità di frutti, che quando erano a un grado di maturazione ottimale venivano raccolti e conservati in locali freschi per mesi.

Questa era la situazione agricolo-ambientale delle nostre campagne nel periodo compreso tra il 1940 e il 1960. Ora analizziamo il secondo periodo, gli ultimi 50 anni che ho definito deleteri per l’ambiente campestre, il periodo della grande meccanizzazione e soprattutto dell’uso troppo disinvolto e incontrollato della chimica nel comparto agricolo italiano. Dagli anni sessanta in poi si è assistito a una trasformazione radicale del lavoro umano in agricoltura. Con l’avvento della meccanizzazione quasi tutte le operazioni prima manuali furono affidate alle macchine.

L’automatismo in agricoltura va diviso in tre periodi. Il primo periodo, purtroppo molto breve, vede uscire dagli stabilimenti macchine progettate con la consulenza degli agricoltori che, se da un lato desideravano risparmiare le fatiche per mancanza di manodopera, dall’altro esigevano dai costruttori il rispetto della buona pratica agricola. Un importante esempio che oggi nessuno ricorda, perché non si vuol ricordare, è la costruzione e la messa in commercio negli anni tra il 1960 e il 1965 di mietitrebbiatrici che separavano le messi dalle sementi delle erbe infestanti, che venivano recuperate per essere distrutte al fine di non inquinare i campi di zizzania. Un altro esempio era la costruzione di trattori di piccola e media potenza e aratri adeguati per conservare la fertilità dei terreni, dal momento che si era a conoscenza del fatto che i microrganismi svolgono la loro benefica azione solo nei primi trenta centimetri del terreno sotto i nostri piedi.

Tralascio altri esempi per venire a illustrare il secondo periodo. È questo il periodo del dominio incontrastato della chimica in agricoltura, che riuscì a imporre ai costruttori di mietitrebbiatrici l’abbandono degli organi separatori dei semi dei cereali da quelli delle erbe infestanti che vennero mescolati alla paglia e fatti cadere a terra dal momento che sarebbe intervenuto il diserbo chimico a neutralizzarli. Così facendo si sono praticamente distrutte le foraggere spontanee utili all’allevamento degli animali erbivori, l’ambiente si è degradato perdendo il normale equilibrio naturale e nei campi sono apparse erbe altamente infestanti, talmente resistenti ai diserbanti che pongono l’agricoltore in seria difficoltà nel tentare di contrastarle. Difficoltà che alla fine si possono concretizzare in un maggiore esborso economico e perdita rilevante di produttività.

Un altro errore commesso in questo periodo è stata la costruzione di trattori di grande potenza che con l’ausilio di grandi aratri distrussero quell’equilibrio benefico creatosi nei campi con le millenarie lavorazioni superficiali, portando in superficie terreno vergine e improduttivo. Fu così necessario e fondamentale ricorrere ai concimi minerali che nel frattempo l’industria chimica aveva messo a disposizione dell’agricoltura. Il patrimonio zootecnico, per una errata politica voluta dai governanti, fu dimezzato, per cui i terreni furono drasticamente impoveriti di sostanza organica e gli agricoltori furono costretti a rivolgersi alle concimazioni minerali che sono solo temporanee ma che a lungo andare provocano saturazione con problemi anche seri. In sostanza: a risentire i danni di questa dissennata politica agricola non fu solo la terra ma soprattutto l’ambiente che è stato inquinato sia dai prodotti chimici sparsi nelle nostre campagne sia dalle emissioni dei grandi stabilimenti chimici che lavorano per produrli.

Il terzo periodo è quello attuale, che va dagli ultimi anni del secolo scorso ad oggi. È il periodo che vede gli agricoltori e i costruttori di macchine agricole impegnati a rivalutare la pratica millenaria della leggera lavorazione del terreno o della semina su terreno non lavorato. Tecnica senza ombra di dubbio vantaggiosa per le coltivazioni nonché per l’agricoltore, che vede molto ridotte le spese delle lavorazioni meccaniche. Purtroppo anche in questo caso i costruttori di macchinari per l’agricoltura conservativa hanno dimenticato la buona pratica agricola. Hanno costruito potenti e pesanti macchinari che espletano in un solo passaggio 4 o 5 operazioni e che hanno bisogno per lavorare della potenza di enormi trattori. L’abbinamento di questi mezzi porta a un carico eccessivo che, per certi terreni come quelli argillosi, è molto compromettente Il passaggio di simili macchine su questi terreni porta a un compattamento tale che le sementi male allignano e i raccolti sono compromessi per scarsa penetrazione delle radici e asfissia per i ristagni di acqua.

La tecnica della lavorazione su terreno sodo ha portato a un incremento smisurato di spandimento di diserbanti nelle campagne con grave danno al già precario equilibrio ambientale. Si comincia, dopo la raccolta dei cereali, a diserbare le stoppie, in autunno alla semina viene applicato un diserbo prima dell’emergenza dei cereali, in primavera un diserbo di post emergenza, senza contare i diserbi sulle colture estive come mais, sorgo, soia, girasole. Praticamente gli agricoltori passano gran parte del tempo a inquinare l’ambiente dal momento che tutti sanno che i diserbanti e gli antiparassitari sono prodotti chimici tossici per la natura e per gli operatori che ne respirano i vapori.

Ora voglio fare una considerazione: gli agricoltori sono stati convinti dai venditori di prodotti per l’agricoltura della necessità di spargere nell’ambiente simili schifezze per poter dominare malerbe e parassiti al fine di salvare i raccolti. Orbene, lo scrivente, pioniere dell’agricoltura conservativa e delle semine su terreno non lavorato già dal lontano 1980, applicando le norme secolari della buona pratica agricola che qui non sta ad illustrare, perché dovrebbe essere palesemente conosciuta dagli operatori del settore, senza il ricorso a nessun genere di diserbanti e antiparassitari e di concimi chimici ha sempre ottenuto ottimi e abbondanti raccolti.

Devo dire che vi è qualche potere occulto che condiziona gli agricoltori a non rispettare l’ambiente, perché, di fronte ai risultati da me ottenuti, i miei numerosi confinanti, pur meravigliandosi per i miei raccolti, non hanno mai applicato i miei metodi e continuano ostinatamente anno dopo anno a inquinare le nostre campagne spendendo inutilmente grandi quantità di denaro con risultati deludenti sia riguardo al contenimento delle erbe infestanti e dei parassiti, sia riguardo ai raccolti poco soddisfacenti.

In sostanza: fino a quando gli agricoltori non comprenderanno che l’inquinamento dell’ambiente campestre è provocato da loro stessi che accettano passivamente dannosi consigli da ingannevoli pubblicità, l’ambiente che ci circonda peggiorerà sempre di più anche perché a livello istituzionale non si prendono decisioni concrete.

Ora desidero far sapere alla generazione odierna che naviga su internet come era l’ambiente agricolo piemontese nel periodo compreso tra il 1940 e il 1960, dal momento che non mi risulta siano state fatte pubblicazioni al riguardo. Iniziamo dal clima: le stagioni erano veramente 4  (inverno – primavera – estate – autunno), non come oggi che passiamo da inverni miti a calde estati che durano quasi fino a novembre. L’inverno era molto rigido e nevoso. I terreni, già alla fine di novembre / primi di dicembre, venivano ricoperti dalla neve che durava fino alla fine di febbraio. Le temperature erano alquanto rigide, i 10 / 15 gradi sotto zero erano nella norma e diverse volte si raggiungevano 25 / 30 gradi sotto zero in molte zone. L’aria era secca e pulita per cui simili temperature erano sopportate egregiamente dalle persone che lavoravano all’aperto. Alla scomparsa della neve l’aria si intiepidiva sempre più giorno dopo giorno e la campagna rinverdiva velocemente, tanto che le coltivazioni di crucifere, cioè colza e ravizzone, al 20 marzo erano in piena fioritura. Gli erbai di segale erano pronti da falciare già alla fine di marzo con grande beneficio per il bestiame che così poteva iniziare a cibarsi di erba verde dopo un lungo periodo di foraggiamento con fieno e paglia.

rondine comune – Hirundo rustica

Il 21 marzo, con l’arrivo delle rondini, iniziava veramente la primavera. I cieli di giorno erano solcati da una grande quantità di rondini e rondoni che, dopo il lungo estenuante viaggio dall’Africa alle nostre latitudini, cercavano il nutrimento consistente in insetti che erano già numerosi a metà marzo. Al crepuscolo e durante la notte invece si potevano vedere centinaia di pipistrelli svolazzare alla ricerca di cibo dopo il lungo letargo invernale. Oggi vedere un pipistrello è da considerarsi avvenimento straordinario. In questo periodo nel sottobosco trionfavano le grandi fioriture di primule, viole, viole del pensiero e soprattutto pervinche che formavano grandi tappeti azzurri, oggi quasi estinte.

Nel mese di aprile, con lo stabilizzarsi della temperatura su valori gradevoli, tutti gli uccelli manifestavano la volontà di creare nuove generazioni con la riparazione o la costruzione di nuovi nidi per la successiva covata. Si poteva osservare il grande impegno delle rondini nel riparare i vecchi nidi dell’anno precedente costruiti nelle stalle, sotto i portici, nelle autorimesse e addirittura nelle abitazioni degli agricoltori. Le siepi intorno ai giardini e agli orti erano il luogo preferito per la costruzione dei nidi da merli, usignoli, cardellini e verdoni, uccelli oggi rarissimi nelle nostre campagne. Dai rami dei grandi alberi intorno alle aziende agricole come acacie, querce, olmi, pendevano grossi nidi di forma cilindrica con vari fori di entrata. Erano i nidi dei passeri che vivevano in colonie e che col loro cinguettare dall’alba al tramonto producevano un grande frastuono.

Purtroppo oggi i passeri che allora erano milioni sono quasi estinti. Quei pochi rimasti hanno cambiato il modo di costruire i nidi. Dagli alberi sono passati nei sottotetti delle abitazioni e non vivono più in colonie ma a coppie singole. E come i passeri, anche tanti altri uccelli che nidificavano nei boschi oggi sono scomparsi.

Il mese di maggio iniziava con il trionfo delle fioriture delle erbe dei prati. Era uno spettacolo straordinario sia per il colore dei fiori che per gli insetti che li visitavano. Erano frequentati da decine di specie di farfalle dai mille colori insieme a bombi, api domestiche e varie razze di api selvatiche. Oggi i prati, a causa dei diserbanti, hanno perso molte varietà di essenze foraggere necessarie per ottenere fieni di alto valore nutritivo. Le farfalle sono ridotte a qualche esemplare, le api domestiche sono dimezzate mentre le api selvatiche sono scomparse. Di tutti gli insetti che in quel periodo frequentavano i prati ne è rimasta oggi una centesima parte. Verso la fine di maggio / primi di giugno alla sera si sentiva il canto dei grilli, il gracidare delle rane, il canto melodioso dell’usignolo e durante la notte nell’aria si vedevano migliaia di piccolissimi lumini che si accendevano e si spegnevano. Era la luce fluorescente prodotta dalle lucciole che oggi sono rarissime.

Il mese di giugno per gli abitanti delle campagne era molto importante perché era il periodo della maturazione dei cereali, il tempo della mietitura. I campi di grano erano frequentati da fagiani, pernici, quaglie con le loro covate alla ricerca dei chicchi caduti dalle spighe, mentre sugli stessi campi volteggiavano piccoli falchi che ogni tanto sparivano dentro le messi. Si trattava dei falchi grillai alla ricerca di grilli, grillotalpa, cavallette e coleotteri per alimentare la prole che aspettava nei nidi costruiti per terra proprio in mezzo ai campi di grano. Questi falchi oggi scomparsi dal nostro territorio erano rispettati dai contadini che sapevano del grande aiuto che questi rapaci davano nel contrastare gli insetti fitofagi dannosi all’agricoltura. In questo periodo gli stagni di acqua piovana, che servivano per irrigare gli orti degli agricoltori, pullulavano di girini che velocemente si trasformavano in piccole rane e in piccoli rospi che durante le calde notti abbandonavano l’acqua e si espandevano negli orti e nei campi circostanti alla ricerca degli insetti di cui si nutrivano. In qualche stagno formato da acqua di sorgente era possibile vedere nuotare un raro anfibio, la salamandra. Oggi incontrare in campagna rane e rospi è un avvenimento da ricordare.

Alla fine di giugno al calare del sole nell’aria si sentiva prima un ronzio, poi si vedevano apparire grossi coleotteri che nel volo assomigliavano a piccolissimi elicotteri. Si trattava di cervi volanti, di scarabei rinoceronte e di cerambici. I maschi dei cervi volanti avevano delle imponenti corna che chiudevano a tenaglia e ingaggiavano tra loro furibonde battaglie per la conquista delle femmine. Le battaglie venivano vinte dai maschi che riuscivano a mettere sul dorso i rivali che poi a stento con grandi sforzi riuscivano a rimettersi in posizione normale e abbandonavano la lotta. Raccontare queste cose ai giovani di oggi è come riferire di aver vissuto al tempo dei dinosauri.

Nel mese di luglio su certi alberi di prugne selvatiche e anche da giardino comparivano grossi bruchi di colore verde pisello che sulla schiena avevano tante stelle azzurre protette da corti aculei per la difesa contro i predatori. Erano i bruchi della Saturnia pyri o pavonia maggiore, della famiglia Saturnidi, la più grande farfalla europea che poteva raggiungere quasi 20 cm di apertura alare. Questi bruchi a piena maturità misuravano 10 cm di lunghezza e un pollice di larghezza, quindi tessevano come i bachi da seta un grosso bozzolo nel quale si rinchiudevano. L’anno successivo da questi bozzoli uscivano le grandi farfalle dette pavonie perché sulle ali erano raffigurati quattro occhi che avevano una somiglianza con quelli della coda del pavone.

Nelle ore della giornata più calde, quando il sole arroventava le zone pietrose collinari specialmente nelle Langhe, si vedevano crogiolarsi gli scorpioni. Osservandoli da vicino si potevano distinguere i maschi molto più piccoli delle femmine. Le femmine gravide erano riconoscibili per la grossa pancia, quelle che invece avevano partorito da poco trasportavano sulla schiena la prole che se ne stava tenacemente aggrappata. Per chi non lo sapesse gli scorpioni sono animali vivipari.

Nel mese di settembre, dopo i temporali di fine agosto, nei boschi si assisteva al trionfo dei funghi di tutti i tipi, mangerecci e velenosi, e i cercatori che si addentravano nelle parti del bosco più selvagge potevano di sfuggita vedere un raro animale solitario, il gatto selvatico, di abitudini notturne, che disturbato dalla presenza dell’uomo si rintanava nelle zone più inaccessibili. In questo periodo sempre nei boschi era facile vedere scoiattoli, ghiri, nocciolini, alla ricerca del cibo da immagazzinare, consistente in ghiande, noci, nocciole. Settembre e ottobre erano i mesi della vendemmia e delle semine. Che l’uva fosse matura, lo si poteva capire dagli immensi voli degli storni che attraversavano il cielo, oscurando il sole, alla ricerca di vigneti da saccheggiare. Erano così numerosi che, nei boschi dove trascorrevano la notte, sia le piante che il terreno sottostante erano insudiciati dai loro escrementi. Oggi durante il periodo della vendemmia è già un avvenimento vedere ogni tanto qualche centinaio di storni che svolazzano da un vigneto all’altro. Se lo storno, che è tra gli uccelli più resistenti e prolifici, si è così ridotto di numero è perché l’ambiente è talmente inquinato da pregiudicarne l’esistenza.

In sostanza, quello che ho descritto, resta solamente un ricordo per le vecchie generazioni. Le nuove generazioni, anche con tutta la buona volontà, non potranno mai più ricreare un ambiente che ha resistito inalterato per millenni, perché con la globalizzazione, voluta dai politici e non certo dagli agricoltori e dai naturalisti, è stato distrutto l’equilibrio biologico dell’ambiente delle nostre campagne. Potranno solo raccontare ai loro figli e nipoti come hanno trascorso gran parte della vita a combattere con prodotti chimici, per poter sopravvivere, contro diabrotica, piralide, punteruolo del riso, hifantria, metcalfa, flavescenza dorata, zanzara tigre, erbe infestanti sconosciute nei nostri territori, regalati all’ambiente italiano dalla lungimiranza di potenti organismi internazionali che pensano solo a lucrare sulla pelle degli agricoltori e dei consumatori.

Credevo di aver detto tutto riguardo al degrado dell’ambiente campestre quando per caso mi capita tra le mani un manuale per combattere la flavescenza dorata, malattia da fitoplasmi che colpisce i vigneti, redatto dalla Provincia di Asti con revisione scientifica della Regione Piemonte, settore fitosanitario. Leggo attentamente il manuale e così vengo a sapere che il 31 maggio 2000 il Ministero dell’Agricoltura emanava il decreto n. 32442 che all’art. 1 recitava: "La lotta contro la flavescenza dorata della vite e al suo vettore Scaphoideus titanus è obbligatoria nel territorio della Repubblica Italiana al fine di contrastarne la diffusione." All’art. 9 sanzioni civili e penali per i conduttori dei fondi inadempienti. Poiché il vettore scafoideo è un insetto, per la precisione una cicalina, sono obbligatori trattamenti insetticidi. L’elenco degli insetticidi pubblicato sul manuale fa inorridire. Dalla lettura del trattato si evince che il Ministero e le Regioni erano a conoscenza dei possibili gravissimi danni alle api e a tutti gli altri insetti pronubi indispensabili all’agricoltura. In parole povere lo Stato obbliga i viticoltori a inquinare l’ambiente, salvaguardandone però il reddito e pesantemente penalizzando altre categorie di agricoltori che come apicoltori, frutticoltori, orticoltori, produttori di sementi ecc. hanno bisogno delle api e degli insetti pronubi per produrre. Questi invece vengono sterminati dagli insetticidi sparsi nell’ambiente a difesa delle viti.

Dove erano nel duemila il Ministero dell’Ambiente, gli Assessorati Regionali all’Ambiente, il WWF, la Lega Ambiente e tutte le altre organizzazioni ambientaliste? Come è possibile che le Organizzazioni Sindacali Agricole, che dovrebbero tutelare tutti i comparti senza discriminazioni, non abbiano fatto sentire la loro autorevole voce? Faccio presente che questo inquinamento legalizzato interessa in Italia centinaia di migliaia di ettari, perché la nube prodotta dagli atomizzatori non si ferma solamente nei vigneti ma va alla deriva anche in terreni distanti contaminando altre colture e viene pure respirata da uomini e animali.

Lo Stato in primo luogo dovrebbe tutelare la salute dei cittadini, gli altri problemi dovrebbero essere secondari. Nella zona del Monferrato in cui vivo, gli insetti pronubi che 10 anni fa erano numerosissimi, oggi sono ridotti a reliquie e gli alveari stanziali devono essere ripopolati ogni anno con sciami artificiali acquistati a caro prezzo. La maggior moria di api avviene proprio in luglio / agosto quando vengono trattati i vigneti contro il vettore della flavescenza dorata perché in questo periodo vi è la raccolta da parte delle api della melata di metcalfa. Mi domando cosa fanno gli uffici degli Assessorati all’Ambiente regionali e provinciali preposti a monitorare il territorio. Sarebbe opportuno che si facesse finalmente chiarezza sul grave inquinamento delle nostre campagne.