In tutti gli organismi pluricellulari il modo in cui la storia della vita è architettata dipende in modo critico dagli ormoni.
Il curriculum vitae dell’individuo getta un ponte che parte dai gameti, frutto delle generazioni precedenti, e che si estende al di là dello sviluppo somatico in quanto termina con gli stadi della post-maturità e della senescenza, quando il deterioramento delle funzioni vitali espone i soggetti adulti e maturi al fisiologico rischio della morte. Il bilanciamento tra mortalità e fertilità determina un aumento oppure una semplice sopravvivenza di una popolazione.
Specie dotate di caratteristiche anatomiche e fisiologiche simili, mostrano
ampie differenze nella durata della vita dei loro componenti. È esperienza
comune osservare uccelli e mammiferi la cui vita è estremamente breve, oppure
inaspettatamente lunga: i soggetti a vita breve mostrano di possedere una base
ormonale oppure nervosa che conduce a una rapida senescenza, mentre quelli
longevi, pur essendo strutturati in modo simile ai primi, vivono e si
riproducono per parecchie stagioni con lenti fenomeni d’invecchiamento.
Sia i fattori genetici che quelli ambientali possono
determinare la durata della vita attraverso l’influenza che esercitano sulla
durata dei vari stadi di sviluppo dell’organismo e può verificarsi che gran
parte della vita dei soggetti che si riproducono una sola volta sia dedicata
allo sviluppo dell’organismo e alla sua maturazione. Il passaggio attraverso i vari stadi di sviluppo
vengono abitualmente regolati da segnali ormonali oppure nervosi
anziché da meccanismi autonomi che in via solo ipotetica sarebbero
preprogrammati nelle singole cellule, quasi frutto di una scheda elettronica autonoma e indipendente dal resto dell’organismo.
Gli ormoni hanno un ruolo invasivo e permeante sull’orchestrazione temporale
della vita, a loro volta essendo soggetti e dipendenti dai controlli neurogeni
o da loro equivalenti.
Attualmente gli ormoni, coi loro meccanismi associati,
vengono visti sotto un altro profilo che va al di là del classico concetto di
molecole prodotte in un determinato distretto dell’organismo per essere
trasportate a distanza allo scopo di regolare l’attività di cellule oppure
di interi organi. Infatti l’attuale distinzione parla dei seguenti tipi di regolatori
biologici:
q
regolatori
endocrini: si tratta del classico concetto riservato agli ormoni
secondo il quale le sostanze regolatrici raggiungono le cellule bersaglio
servendosi del torrente ematico
q
regolatori
paracrini: essi vengono prodotti localmente e agiscono sulle
cellule bersaglio poste nelle immediate vicinanze e solo dopo essersi diffusi
nel liquido extracellulare
q
regolatori
autocrini: agiscono sulla cellula stessa dalla quale hanno preso
origine
q
regolatori
intracrini: essi agiscono all’interno della cellula.
Per fare alcuni esempi, possiamo citare il fattore di
crescita dei fibroblasti, che può agire sia in modo intracrino che paracrino,
i neurotrasmettitori che agiscono come regolatori paracrini diffondendosi ai
recettori delle cellule nervose o muscolari contigue ma che possono agire
anche in modo autocrino attraverso autorecettori posti sulla cellula dalla
quale vengono sintetizzati. I regolatori paracrini e autocrini possono agire
come induttori embrionali che danno inizio ai programmi di differenziazione
cellulare, grazie ai quali le cellule acquisiscono la competenza per
rispondere ai regolatori, tipicamente ormonali, implicati nei successivi stadi
di prosecuzione della vita.
La capacità degli ormoni di influenzare diverse attività
in parecchi tipi cellulari viene definita in genetica classica ed
evoluzionistica come pleiotropia,
situazione in cui un gene singolo è dotato di influenze molteplici. La
pleiotropia ormonale può derivare dai geni che codificano i recettori
ormonali presenti nei tessuti dell’organismo, e l’effetto pleiotropico
potrebbe essere spiegato attraverso i dominî leganti il DNA dei recettori
ormonali riscontrabili nei promotori dei geni, caratterizzati da sensibilità
all’azione ormonale, oppure attraverso enzimi che sintetizzano e degradano
gli steroidi.
Affinché un organismo pluricellulare possa conservare lo
stato di benessere col variare delle condizioni ambientali, deve essere in
grado di monitorare le informazioni endogene ed esogene servendosi di
meccanismi chemiosensitivi e neurogeni. Tali informazioni vengono tradotte
attraverso segnali neuroendocrini oppure ormonali di altro tipo capaci di
modificare la funzione in cellule o in organi bersaglio. Tutto ciò non è
appannaggio degli organismi pluricellulari, in quanto la traduzione chemiosensoriale è ben documentata nei lieviti,
nei protozoi e in altri microrganismi eucariotici che servono da ottimo
riferimento.
Le variazioni genetiche in grado di alterare la risposta ormonale costituiscono un possibile cardine per l’evoluzione degli esseri viventi, in quanto sono causa di una mutazione di tipo quantitativo. Esistono variazioni genetiche che riguardano il tasso ormonale, i recettori ormonali e le attività stimolate dal legame con l’ormone. Nei mammiferi esistono delle mutazioni a carico dei recettori che sfociano in disordini endocrini, tra i quali possiamo citare l’insensibilità agli androgeni, una mutevole risposta agli estrogeni con successiva insorgenza di tumore mammario, polimorfismi circa i recettori per i glicocorticoidi e per la vitamina D (VDR).
Quest’ultima situazione è stata recentemente scoperta nelle
donne caucasiche ed è in grado di condizionare la densità della struttura
ossea rendendo così possibile la predizione di fratture spontanee. Esistono
forme di diabete non insulino-dipendente
(diabete di tipo II o NIDD) poste sotto influenza genetica e dovute a ridotta
sensibilità dei tessuti bersaglio cui consegue un’aumentata increzione
insulinica e iperinsulinemia. Quest’ultima situazione, nonostante riconosca
una base genetica, non è ancora compresa in modo sufficiente e gli studi
epidemiologici mostrano un’incidenza elevata negli abitanti delle isole del
Pacifico e negli Amerindi dell’America del Nord.
Nell’uomo il complesso maggiore di istocompatibilità o MHC è un complesso di geni posto sul braccio corto del cromosoma 6 che si estende per circa 3.000 kilobasi e 3 centimorgan. L’MHC contiene più di 80 geni, alcuni dei quali estremamente polimorfi. È conosciuto soprattutto per i geni deputati alla regolazione delle funzioni immunologiche inizialmente identificate col nome di antigeni del trapianto, in particolar modo per le glicoproteine codificate dai 15-20 geni correlati e localizzati in ognuna delle regioni della classe I e II. Le glicoproteine della classe I sono presenti su quasi tutte le membrane cellulari dell’organismo, mentre le glicoproteine della classe II si trovano prevalentemente sui linfociti T e altre cellule derivate dal midollo osseo. Le glicoproteine di queste due classi formano dei complessi bimolecolari in unione con gli antigeni durante la presentazione alle cellule T degli antigeni sottoposti a processamento.
A differenza dei recettori per gli steroidi e
parecchie altre famiglie multigeniche distribuite su parecchi cromosomi, i
geni strettamente correlati e deputati alla sintesi delle glicoproteine delle
classi I e II non sono presenti ovunque. Anche i geni coinvolti nel
processamento intracellulare dell’antigene sono localizzati nella regione
della classe I.
Altri geni facenti parte dell’MHC codificano per enzimi deputati al metabolismo degli
steroidi e delle sostanze carcinogenetiche, per la proteina dello shock da calore
con peso di 70 kDa e per diversi fattori facenti parte del sistema del complemento. L’espressione dei geni della
classe I e II viene stimolata in parecchi tipi cellulari dall’interferone g, e si tratta del miglior
esempio di regolazione genica coordinata in seno all’MHC.
Questo antico sistema di geni presenta un’organizzazione
generale simile in tutti i vertebrati esaminati. Tuttavia le varie specie
differiscono tra loro circa le particolarità dei geni congregati nel locus
MHC e circa il numero di geni strettamente correlati, che sembra abbiano preso
origine da un processo di duplicazione. Le differenze presentate dalle specie
circa numero e tipo dei geni, quando vengano considerate insieme alla presenza
di numerosi pseudogèni, mostrano un quadro di evoluzione senza pausa a carico dei geni appartenenti all’MHC,
geni che si trovano in vari stadi di benessere o di decadimento (Trowsdale, 1993).
Le frequenze di ricombinazione nell’MHC umano generalmente rassomigliano a
quelle che si svolgono ovunque in seno al genoma. Tuttavia l’MHC ha delle
aree calde di ricombinazione come pure delle estese regioni, talora di 100 kb,
in cui non si sono mai potute mettere in luce delle ricombinazioni geniche.
Le differenti combinazioni di alleli in seno al locus dell’MHC
sono denominate aplotipi. Gli alleli dei geni della classe I e II influenzano
la forza della presentazione dell’antigene che per certi aplotipi può
essere debole mentre altri aplotipi producono una forte risposta immune nei
confronti dello stesso antigene. Le
variazioni geniche in seno ai geni dell’MHC sono in grado di influenzare numerosi aspetti della
storia della vita: dalla sua durata allo stato di benessere, dall’attività
enzimatica al processo di trascrizione genica.
Anche se l’MHC non è in grado di influenzare in modo
particolare la durata della vita dell’uomo, alcuni aplotipi si associano con un aumentato rischio per malattie
ereditarie in
grado di accorciare l’aspettativa di vita. Dopo la pubertà
possiamo osservare l’insorgenza di gruppi di malattie ereditarie tra loro
completamente differenti collegate a questo locus, malattie che hanno il loro
impatto maggiore durante l’età media quando l’attività riproduttiva è
tipicamente in declino. Gli esempi più significativi sono su base
autoimmune: diabete insulino-dipendente, IDD o diabete di
tipo I, che compare tipicamente alla pubertà, spondilite anchilosante dopo i
trent’anni, artrite reumatoide tra i 20 e i 40 anni, sclerosi multipla anch’essa
nello stesso periodo. Il diabete di tipo I mostra un’interazione
gene-ambiente con un’infezione virale che colpisce le funzioni ormonale e
immunitaria. Abitualmente è causato da un’autodistruzione immunitaria delle
cellule b delle isole di
Langerhans del pancreas da parte di cellule T autoreattive ed è relativamente
più frequente in alcuni aplotipi che coinvolgono i geni di classe II dell’MHC.
È stato dimostrato che l’antigene endogeno delle cellule b nel diabete di tipo I è la
decarbossilasi dell’acido glutammico o GAD, deputata anche alla formazione
del neurotrasmettitore glutammato. Inoltre, la GAD possiede una sequenza
dotata di elevata similarità con un peptide composto da 24 aminoacidi
presente anche nei Coxsackievirus B dotata di elevato potere antigene e in
grado di mimare la molecola di GAD. Tale somiglianza molecolare può essere
alla base dell’andamento epidemico delle infezioni da virus Coxsackie B e
diabete di tipo I. Gli aplotipi prevalenti a carico di MHC in questo tipo di
diabete possono intensificare la presentazione dell’antigene da parte delle
proteine dei virus Coxsackie.
Agli alleli di MHC si trovano associati anche parametri
riproduttivi generali. Dopo selezione artificiale per migliorare le funzioni
riproduttive nei mammiferi e nel pollo domestico, sono state trovate delle associazioni tra gli aplotipi MHC e la produzione
di uova e latte. Alcuni enzimi deputati al metabolismo degli
steroidi e di altri composti policiclici vengono codificati da MHC: per
esempio una C21 steroide idrossilasi è
implicata nella sintesi di due ormoni steroidi cruciali per il metabolismo e
per la produzione di energia, il cortisolo e l’aldosterone. Da ultimo
possiamo aggiungere che i geni dell’MHC interagiscono coi sistemi ormonali
attraverso le regioni di controllo della trascrizione.
Il locus MHC contiene alcuni dei geni più altamente
polimorfici conosciuti nei vertebrati. Nell’uomo parecchi geni delle classi
I e II posseggono da 30 a 100 alleli la cui frequenza varia in seno alle varie
popolazioni. Parecchi altri mammiferi presentano un esteso polimorfismo,
mentre alcune specie rappresentano un’eccezione mostrando solo piccole
variazioni a carico di MHC, come accade per il ratto delle dighe dei Balcani.
Alcune
combinazioni alleliche possono essere antiche, come le combinazioni
alleliche trans-specie dell’uomo
che sembra si siano stabilite prima della divergenza delle linee delle
proscimmie e dei primati antropoidi avvenuta 85 milioni d’anni fa. In base
all’associazione tra le risposte ormonali e gli aplotipi di MHC, si potrebbe
supporre che gli aplotipi di MHC
vanno incontro a selezione a causa degli effetti
pleiotropici sullo stato di benessere che coinvolge direttamente la
riproduzione e la resistenza agli agenti patogeni. Quest’ultima
caratteristica dipende dagli alleli di MHC attraverso l’entità della risposta dell’organismo agli
antigeni estranei.
La persistenza di un elevato grado di polimorfismo in seno a MHC può essere
dovuta a una pleiotropia antagonista o all’instabilità delle mutazioni dell’ambiente
microbico patogeno che determina una selezione per differenti alleli da parte
delle resistenze opposte dell’ospite. Come esempi di resistenza alle
malattie infettive e parassitarie associate al locus MHC possiamo citare l’influenza
da parte dell’MHC umano nei confronti del Plasmodium
falciparum nelle popolazioni dell’Africa occidentale e dell’MHC del
pollo verso i tumori indotti dagli herpes virus
o dai virus del sarcoma di Rous.
Un’analisi dei vari avvenimenti che possono influenzare
la durata della vita attraverso un meccanismo pleiotropico come è posseduto
dal locus MHC e da altri loci composti da complessi di geni, deve farci
concludere che la regolazione ormonale dell’evoluzione
è dotata
di
ampia flessibilità, non trascurando anche l’ipotesi che talora l’evoluzione
in seno ai gruppi tassonomici possa avere dei momenti caotici che rendono vana
qualsiasi interpretazione degli avvenimenti biologici basati su una visione
evoluzionistica rigida.