Vol. 1° -  VIII.15.8.

Il tacchino di Teofrasto

Eccoci di fronte a uno dei tanti problemi di lana caprina che infestano la storia, un problema che sarei tentato di maneggiare a mio favore, in quanto si tratterebbe di una inequivocabile testimonianza circa la presenza qui da noi del tacchino molto prima di quanto oseremmo pensare.

Essendo la vita già piena zeppa di mistificatori, e non essendomi congeniale incantare i serpenti come lo è per certi politici, vediamo di ghermire almeno una volta la verità, che esiste, credetemi.

Tra gli storiografi del tacchino dobbiamo parlare di un personaggio che morì quando Colombo doveva pazientare ancora quindici anni prima di sbarcare nel Nuovo Mondo. Si tratta dell’umanista Pier Candido Decembrio, del quale non possiamo trascurare alcune notizie biografiche desunte da L'anello mancante (KOS, n° 8, 1984).

Nacque a Pavia nel 1392 e alternò un’intensa attività letteraria ad un’altrettanto intensa attività politica, che lo vide segretario sotto Filippo Maria Visconti (1419-1447), alla corte pontificia come magister brevium, ancora segretario alla corte di Napoli (1456-1459); fece ritorno a Milano, si recò quindi a Ferrara (1466) e poi ancora a Milano, dove morì nel 1477.

Tradusse in latino la Storia romana - Rømaï - dello storico greco Appiano di Alessandria (nato ca.95 dC), alcune Vite di Plutarco e 5 libri dell'Iliade, volgarizzò il De bello gallico di Cesare e il Bellum punicum di Polibio (ca. 200 - ca. 120 aC). Scrisse epigrammi e, tra le opere in prosa, le biografie di Filippo Maria Visconti e di Francesco Sforza. Lasciò inoltre un Epistolario, comprese le lettere dei corrispondenti, fonte molto importante per la storia politica e letteraria del tempo.

Tra i Codices Urbinates Latini, il manoscritto 276 è catalogato come De natura avium et animalium di Pier Candido Decembrio, anno 1460, conservato presso la Biblioteca Vaticana. Il titolo originale del codice è De omnium animalium natura atque formis nec non rebus memoria et annotatione dignis ad illustrissimum principem D.Ludovicum Gonzagam Mantuae Marchionem. L’opera è suddivisa in cinque libri secondo uno schema proprio dei bestiari medievali. Nel primo sono descritti i quadrupeda, nel secondo gli aves, nel terzo i pisces, nel quarto i serpentes e i vermes, nel quinto è descritto tutto ciò che può destare curiosità e ammirazione; quindi penso che il Basilisco di Decembrio sia contenuto in quest’ultimo libro. La sua estesa cultura risulta chiaramente dalle fonti classiche cui fa riferimento e che elenca all’inizio del trattato: vi compaiono con più frequenza Aristotele, Plinio, Isidoro, Teofrasto [1] e Galeno.

La nota più esaltante di questo manoscritto - del quale è stato curato un facsimile da un gruppo di importanti Editori - è rappresentata dalle miniature. Si tratta di quasi 500 disegni, di cui 473 di animali, eseguiti a fondo pagina. Le miniature sono bellissime e in molti casi riproducono l’animale con notevole fedeltà. La sezione più aderente alla realtà è quella degli uccelli, quasi tutti riconducibili a specie esistenti. Il corredo iconografico non sembra essere coevo al testo, specie per le figure semiumane che talora sono presenti anche in dipinti del XVI secolo, ma per gli animali il discorso è leggermente diverso: la realizzazione a volte impacciata di alcuni farebbe propendere per una datazione anteriore, ancora pienamente quattrocentesca.

Fig VIII. 58 - Gallina Indiae quae orix ab antiquis dicitur. Quest'immagine è contenuta in De natura avium et animalium (1460) di Pier Candido Decembrio, Codices Urbinates Latini, manoscritto 276 (da KOS, n° 8 - 1984). Si tratta di un abbaglio del miniaturista: in un testo del 1460 ha riprodotto il tacchino sotto la voce Gallina Indiae, facendo così sorgere un duplice dubbio: o Teofrasto (370-285 aC) già conosceva il tacchino, oppure il tacchino raggiunse l’Europa nella seconda metà del 1400, quindi molto prima del 1511-1512. Possiamo persino azzardare un'ipotesi: il miniaturista lavorò a quest'immagine dopo il 1520. Infatti, poco dopo il 1520 una tacchina bianca giunse a Roma da Hispaniola. Con ogni verosimiglianza l'autore del testo, cioè Decembrio, quando parla dell'orix - che sta per ornis e che è dovuto a un errore di tradizione -, parla della Faraona, e si tratta quindi di un’iconografia posteriore alla stesura del testo.

Indipendentemente da queste considerazioni sull’epoca in cui fu curata l’iconografia, bisogna dare una spiegazione al testo di Decembrio che accompagna l’immagine del tacchino, Gallina Indiae:

Gallina Indiae, quae orix ab antiquis dicitur, vario colore distinguitur; corpore anati par. Foetificat [Fetificat] maxime; ovat autem gallinarum nostrarum ritu verum statuto tempore eodemque modo pullos educit et nutrit. Harum magna in orientali plaga copia est pinguescuntque maxime et ob id divitum mensarum contubernio et fama notissimae habentur. Hae palmarum fructibus avidissime vescuntur ut Theophrasto placet.

La gallina d’India, che dagli antichi viene detta orix, si distingue per il fatto di essere variopinta; è uguale all’anatra per mole corporea. È un’ottima fetatrice; depone le uova come le nostre galline, e, in verità, a tempo debito e allo stesso modo fa nascere i pulcini e li alleva. Di queste galline vi è abbondanza nelle regioni orientali e s’ingrassano notevolmente, e per questo sono arcinote per la fama che hanno di essere allevate per finire sulla mensa dei ricchi. Sono particolarmente golose dei frutti delle palme, come concorda Teofrasto.


Il testo latino è stato decifrato grazie alla collaborazione del Professor Filippo Capponi, in quanto le mie conoscenze di paleografia sono alquanto limitate. Anche la punteggiatura e la traduzione dei passi più difficili è dovuta al suo prezioso intervento.

Risolviamo una volta per tutte un problema di toponomastica che per noi è fonte di confusione, in quanto l’India di oggi corrisponde a una ben precisa area geografica dell’Asia.

Per dare un esempio della babilonia geografica del passato, gli antichi indicavano genericamente con il termine Etiopia  l’interno dell’Africa che sta a sud del Sahara; Erodoto distingueva gli Etiopi dell'Africa dagli Etiopi dell'Asia - gli Indiani - per la differenza dei capelli, rispettivamente crespi e lisci; nella cartografia tolemaica viene fatta una suddivisione fra Aethiopia sub Aegypto ed Aethiopia interior, a sudovest della precedente; per gli scrittori dell'ultimo Medioevo, come il Vespucci, l’Etiopia corrispondeva all'Africa occidentale dalla Mauritania alla Guinea. Ancor oggi esiste un’apparente discrepanza fra la toponomastica corrente e quella adottata dagli zoologi, per i quali la parte meridionale della Penisola Arabica appartiene alla regione etiopica.

Infatti, attualmente si usa suddividere le terre in regioni zoogeografiche secondo un criterio più moderno, adottando la linea di Wallace  che porta il nome di Alfred Russel Wallace, lo zoogeografo che collaborò con Darwin alla stesura del trattato sull’origine delle specie. La linea di Wallace separa la regione australasiana dalla regione orientale; al di qua e al di là di tale linea la differenza fra le due faune è notevole: la loro discontinuità è giustificata dal fatto che le isole a nord e a ovest di detta linea fanno parte della piattaforma continentale asiatica, alla cui terraferma erano collegate durante le glaciazioni, mentre le isole a sud e a est ne rimanevano anche allora isolate.

Marco Polo distingueva tre Indie, corrispondenti a tre grandi penisole protese nell’Oceano Indiano:

§ India Minore: l’Indocina

§ India Maggiore: l’Indostan, inteso come l'intero subcontinente indiano

§ India Mezzana: l’Arabia, cui erano annesse la Nubia e l’Abissinia.

L’unico vocabolo che possa essere assimilato all’orix di Decembrio è il latino oryx, che in greco ha la stessa grafia.

Nel vocabolario di greco - Lorenzo Rocci, 1956 - troviamo che óryx significa piccone e, per estensione, orige, cioè antilope o gazzella a corna acute, antilope o gazzella indiana.

Il genere Oryx è composto da artiodattili ruminanti appartenenti alla famiglia dei Bovidi, e comprende antilopi di grossa mole con testa relativamente piccola, proprie delle regioni aride, subdesertiche o desertiche dell'Africa e dell'Arabia meridionale. L’Orice bianco d’Arabia è l’unico rappresentante - quasi sterminato nei luoghi d’origine - che viva in Asia. Questo dell’Orice bianco d’Arabia è l’unico addentellato geografico che sono riuscito a trovare fra orix e Gallina Indiae, che secondo Decembrio gli antichi chiamavano orix.

Può darsi che il termine orix derivi dal fatto che il tacchino possiede un’escrescenza frontale somigliante a un corno. Che l’orix di Decembrio sia o non sia il tacchino, sta di fatto che un volatile con questo nome greco, ghiotto di frutti di palma, era noto anche a Teofrasto, il quale concordava sulle sue abitudini alimentari: ut Theophrasto placet.

Nell’iconografia del testo di Decembrio possiamo notare che le proporzioni dei tre volatili non sono rispettate, in quanto centimetro alla mano, la differente altezza scarta di un millimetro. Il gallo ha tutte le fattezze di un mediterraneo e sfido chiunque a trovare un gallo di questa estrazione che sia alto quanto la sommità della ruota di un tacchino. Se l’uccello di destra è una tacchina, si tratta di una mutazione a piumaggio bianco: questo implicherebbe una selezione operata dall’uomo, che perciò ha richiesto un po’ di tempo, salvo trattarsi di una rarità raffigurata in quanto tale. E la tacchina, rispetto al suo maschio, non è certo di proporzioni minori, come vorrebbero le regole biologiche.

Che possa trattarsi di una tacchina bianca possiamo arguirlo da una notizia che sembra inutile, come tante altre: una coppia di tacchini, la cui femmina era bianca, fu inviata a Roma da Hispaniola poco dopo il 1520. È quindi logico supporre che alcune immagini di questo codice siano state eseguite dopo questa data. È tuttavia necessaria una precisazione sul colore della tacchina, una precisazione il cui colpevole è stato Viviano Masconni: infatti, nella primavera del 2007, discutendo con lui su antiche raffigurazioni europee del tacchino, mi sono ricordato di questa femmina. Grazie a Viviano ho potuto appurare che si tratta senz'altro di un'antenata dell'ermellinata di Rovigo, o della tedesca Cröllwitzer, o della belga Ronquières che dir si voglia.

Decembrio afferma che il corpo dell’orix è uguale a quello di un’anatra. Io non sono in grado di identificare un’anatra che mi ricordi la mole di un tacchino, perlomeno a prima vista, poiché il palmipede si presenta più basso e più compatto. Ma queste sono sottigliezze, in quanto bisognerebbe sapere a quale anatra si riferiva Decembrio, supposto che il paragone sia il suo, mentre potrebbe trattarsi di una notizia tratta da Teofrasto: allora la cosa si fa più complicata, perché bisognerebbe risalire alle dimensioni delle anatre del 300 aC.

Ed eccoci al problema dei frutti di palma dei quali questi uccelli sono avidissimi. Di quale palma? Le mie ricerche in merito mi conducono a un’unica soluzione: la palma da datteri, Phoenix dactylifera. Essa ha una ben precisa diffusione geografica e il suo uso è attestato da numerose notizie storiche.

Per i Caldei e gli antichi Arabi la Phoenix dactylifera rappresentava l’albero della vita, l’albero benedetto. Strabone racconta che la palma da datteri forniva ai Babilonesi pane, pietanza, vino, aceto, miele e farina. Essa era già coltivata sulle isole greche nel 1000 aC. I frutti dolci - lo ricorda anche Senofonte nell’Anabasi - vengono mangiati; dalle foglie si ottengono corde, stuoie, coperture per capanne; dal fusto inciso si ottiene un liquido zuccherino che, per fermentazione, dà il laghbi, un vino di palma che secondo l'Enciclopedia del Giardinaggio Curcio (1973) è permesso ai Musulmani e del quale parla già Erodoto.

Phoenix, nome scientifico della palma da datteri, era usato da Teofrasto e sta a indicare, forse, la Fenicia, una delle regioni d’origine della pianta; secondo altri sarebbe da ricollegare al mitico uccello Fenice, che rinasceva dalle ceneri e del quale parleremo in altre pagine. Il genere Phoenix comprende palme a foglie pennate, conosciute fin dall’antichità e spesso raffigurate dai Babilonesi insieme alla vite: sono piante originarie esclusivamente delle regioni tropicali dell’Africa e dell’Asia, attualmente coltivate in ogni parte del mondo. Le specie coltivate sono le seguenti: canariensis, dall’aspetto eretto e slanciato; reclinata, che è la palma da datteri del Senegal; roebelinii, che ben si adatta agli appartamenti; rupicola, dell’Himalaia; silvestris, dell’India, dal cui fusto inciso sgorga un liquido, che, rappreso, fornisce uno zucchero di palma; dactylifera, la vera palma da datteri, la sola che produce i datteri del commercio, originaria dell’Asia occidentale e del Nordafrica.

Teofrasto conosceva senza dubbio la gallina faraona, poiché era nota al suo maestro Aristotele, e la faraona ha anch’essa una qualche protuberanza sul capo, per cui, in base a questo tratto anatomico, si può presumere che gli antichi le avessero dato lo stesso nome dell’antilope.

Il Professor Capponi mi fa giustamente notare che oryx deriva dal verbo orýsso, che in greco significa scavare, per cui potrebbe trattarsi di un uccello ruspante. Ma la faraona non è ruspante al punto da scavare buche come fanno i polli, mentre le si addice benissimo l’attributo di ottima fetatrice, in quanto Ghigi afferma che essa depone tutti i giorni - salvo pochissime e brevi interruzioni - dalla fine di marzo ad ottobre, raggiungendo e superando le 100 uova. Io propendo per il fatto che oryx voglia denotare qualcosa di acuminato come il piccone, come le corna di antilope, in quanto Strabone usa oryx per parlare di un cetaceo, forse del narvalo  Monodon monoceros, nella cui femmina i denti possono mancare del tutto, mentre nel maschio esistono di norma solo i due anteriori della mascella superiore, dei quali il sinistro subisce uno sviluppo enorme - oltre 2,5 m di lunghezza - sporgendo orizzontalmente e assumendo una forma cilindrica a spirale.

Un’interpretazione del vocabolo orix che reputo piuttosto azzeccata e verosimile mi è stata suggerita dal Professor Capponi dopo alcuni giorni di sue meditazioni e ricerche: potrebbe trattarsi dell’errata trascrizione da parte dell’amanuense di ornis, come veniva chiamato dai Greci il pollo, sia gallo che gallina, corrispondente al latino avis, cioè uccello. Nei lessici non esiste orix per indicare un volatile, per cui si tratterebbe di un errore di tradizione, come viene detto in termine tecnico.

In base alla distinzione geografica delle Tre Indie è chiaro che la faraona è di casa nell’India Mezzana. Se non era una faraona, cosa peraltro improbabile, allora Teofrasto conosceva già il tacchino.

Un’ultima ipotesi, tutta da dimostrare, ma alquanto verosimile: il tacchino di Decembrio è stata una libertà iconografica che qualcuno ha voluto concedersi, ma solo dopo l’arrivo del Gallopavo in Europa, e quindi dopo la morte di Decembrio, nonché parecchi decenni dopo l’edizione del suo manoscritto.

La storia è piena di queste illazioni che possono sembrare panzane ma che invece costituiscono pastoie dalle quali è difficile districarsi.

Chiudo quest’ennesima diatriba accennando a un’altra illazione pregna di ombre per gli allevatori di palmipedi. Abbiamo visto che nel De bello gallico Cesare riferisce che presso i Britanni era ritenuto illecito mangiare galline, lepri e oche.

Sapete come Adriano Pennacini ha tradotto anserem - oca - in La guerra gallica edito da Einaudi nel 1996?

Anserem fu tradotto con anatra.

Se non credete a me, rivolgetevi al Professor Filippo Capponi: i Latini con anser volevano solo e sempre indicare l’oca.

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[1] Teofrasto: filosofo greco (Ereso, isola di Lesbo, ca. 370 - Atene ca. 285 aC). Nato da ricca famiglia, dapprima seguì qualche lezione di Platone ad Atene, ma poi si unì ad Aristotele e ne divenne il più stretto discepolo, fino a sostituirlo come capo della scuola peripatetica. Vedi notizie più dettagliate nel lessico.