Meleagro
&
Numida
meleagris
Meleagro e il cinghiale
Copia romana in marmo (ca. 150) da un originale greco
del IV secolo aC
conservata al Museo Pio-Clementino - Città del Vaticano
In greco Meléagros; in latino Meleager oppure Meleagrus: eroe della mitologia greca, figlio di Eneo, re di Calidone in Etolia, e di Altea. Di Calidone esistono i resti presso l'attuale Missolungi, sulle prime pendici del monte Arákynthos, quasi di fronte a Patrasso. Meleagro - implicato nell’etimologia della Numida meleagris e dei Meleagridi, tra cui il tacchino, Meleagris gallopavo - fu il protagonista di una famosa impresa collettiva: la caccia al cinghiale calidonio, inviato per vendetta da Artemide – o Diana – che non era stata onorata da offerte da parte di Eneo. Il cinghiale si era messo a devastare i campi e infine venne ucciso da Meleagro.
Il mito della morte di Meleagro si riferisce alle relazioni di parentela: egli rompe tali relazioni uccidendo due zii materni per una disputa insorta circa il destinatario della preda, l’irsuto cinghiale: era la bella Atalanta, agognata da Meleagro nonostante avesse come moglie Cleopatra.
La madre Altea, per vendicare i fratelli, fa morire Meleagro ricorrendo a una maledizione. In un'altra versione - quella adottata da Ovidio in Metamorfosi VIII,267-546, dove si palesa appieno la sua strabiliante verve poetica - Altea uccide il figlio in un modo ancor più prodigioso: ella conservava un tizzone che aveva tolto dal fuoco quando le Moire le si erano presentate dicendole che suo figlio Meleagro sarebbe vissuto per tutta la durata di quel tizzone che stava bruciando. Allorché Altea decise di far morire il figlio, prese il tizzone e lo gettò a consumarsi nel fuoco.
Meleagro morì, ma Altea si suicidò con un colpo di pugnale al petto, oppure impiccandosi. La leggenda vuole che le sorelle di Meleagro, che piangevano la morte dello sfortunato fratello avvinghiate alla sua lapide, furono trasformate da Artemide in uccelli, in faraone, e le macchioline bianche sul piumaggio, altrimenti uniformemente nero, furono il marchio indelebile delle lacrime versate dalle fanciulle per l’amato fratello.
Ma Omero nel IX canto dell’Iliade non conclude la storia di Meleagro, che dà così l’impressione di essersi spento per morte naturale anziché per intervento della madre Altea.
Calidone, in greco Kalydøn, genitivo Kalydônos: antica città della Grecia, nell'Etolia, di cui sussistono i resti presso l'attuale città di Missolungi, sulle prime pendici del monte Arákynthos, a pochi chilometri dal golfo di Patrasso. Nota nella mitologia greca per l'episodio del feroce cinghiale caledonio ucciso da Meleagro, fu indipendente al tempo della guerra del Peloponneso ed entrò a far parte, al tempo di Epaminonda, della Lega Etolica. In epoca romana la città era in decadenza. Il complesso più interessante di Calidone è costituito dal Láphrion, il recinto sacro a SW dell'abitato con i templi di Apollo (sec. VII aC) e di Artemide (sec. VII-IV aC). A est di questo sorge l'heròon, databile al sec. I aC. Le terrecotte di rivestimento e le metope dei templi più antichi di Calidone sono tra i documenti più importanti della pittura corinzia arcaica.
Meleagro
Caccia del cinghiale - sarcofago romano
Roma - Musei Capitolini
« Ella dunque, stirpe divina, l'Urlatrice, irata, gli mandò contro un feroce cinghiale selvaggio, zanna candida, che prese a conciar male la vigna d'Eneo; molti alberi alti stendeva a terra, rovesci, con le radici e con la gloria dei frutti. L'uccise Meleagro, il figliuolo d'Eneo, chiamando cacciatori da molte città e cani, ché vinto non l'avrebbe con pochi mortali, tant'era enorme, e gettò molti sulle pire odiose. » (Omero, Iliade, libro IX)
Meleagro è una figura della mitologia greca. Era figlio del re degli Etoli di Calidone, Eneo, e di Altea, sorella di Leda, anche se la madre lo aveva concepito in una notte in cui aveva giaciuto tanto con il marito quanto con Ares. Quando furono passati sette giorni dalla nascita, le Moire si presentarono ad Altea e fecero ognuna una predizione: per Cloto il fanciullo avrebbe manifestato un'indole nobile; per Lachesi si sarebbe coperto della gloria riservata agli eroi; per Atropo, infine, sarebbe vissuto fino a quando fosse durato il tizzone che stava in quel momento ardendo sul camino. Altea si slanciò immediatamente a togliere il fatidico pezzo di legno dal fuoco e lo spense, conservandolo poi in un cofano con grande cura e segretezza.
Col passare degli anni Meleagro, ormai adulto, divenne uno dei più valorosi lanciatori di giavellotto dell'intera regione e sposò Cleopatra, figlia di Ida. Nel frattempo il padre Eneo aveva offerto un sacrificio a tutte le divinità dopo un abbondante raccolto, ma aveva dimenticato di onorare Artemide. La dea, indignata, aveva allora inviato contro il paese di Calidone un cinghiale di proporzioni spettacolari che devastava i campi e uccideva i sudditi del re. La gente spaventata non aveva più tranquillità e si nascondeva solo nelle città fortificate.
Quando Meleagro seppe dei tragici effetti causati dall'arrivo del cinghiale, si sentì in obbligo di liberare il paese dall'orrida creatura. Per questo riunì un gran numero di eroi delle città vicine e da tutta la Grecia. Alcuni mitografi ce ne hanno tramandato la lista: Driante, figlio di Ares; Ida e Linceo, i due figli di Afareo, che venivano da Messene; Castore e Polluce, i Dioscuri, di Sparta (che sono cugini di Meleagro); Teseo di Atene; Admeto, di Fere, in Tessaglia; Anceo e Cefeo, figli dell'arcade Licurgo; Giasone, di Iolco; Ificle, fratello gemello di Eracle, che veniva da Tebe; Piritoo, figlio di Issione e amico di Teseo, venuto da Larissa, in Tessaglia; Telamone, figlio di Eaco, giunto da Salamina; Peleo, suo fratello, giunto da Ftia; Eurizione, cognato di quest'ultimo, figlio di Attore; Anfiarao, figlio d'Oicle, venuto da Argo, insieme ai figli di Testio, zii di Meleagro.
C'era anche una cacciatrice, Atalanta, figlia di Scheneco, venuta dall'Arcadia. Tutti questi cacciatori fecero festeggiamenti presso Eneo per nove giorni. Il decimo partirono tutti contro il cinghiale, ma la partecipazione di Atalanta alla caccia fu da subito un elemento di disturbo da parte di un certo numero dei cacciatori che rifiutavano di avere una donna nella loro schiera. Ma Meleagro riuscì a convincerli, poiché era innamorato della giovane: da lei desiderava anche avere un figlio, benché fosse già sposato a Cleopatra.
I cacciatori (secondo Apollodoro una ventina) sguinzagliarono i cani e seguirono le grandi orme della bestia, fino a quando snidarono il cinghiale presso un corso d'acqua mentre si abbeverava. Il cinghiale, scoperto, si scagliò ferocemente in mezzo ai cacciatori, i quali a gara cercarono di ferirlo. Nestore trovò scampo a fatica salendo su un albero, mentre Giasone lanciò il proprio giavellotto, mancando il bersaglio. Telamone invece scagliò la lancia contro la bestia, ma colpì accidentalmente il cognato Eurizione, il quale stava tentando di scagliare i suoi giavellotti contro il cinghiale. Peleo e Telamone rischiarono però di essere caricati dalla belva che per fortuna fu colpita a un orecchio da una freccia di Atalanta e fuggì. Anceo, spintosi troppo avanti per dare un colpo d'ascia al cinghiale, venne lacerato dalle zanne della bestia, cadendo a terra morto. Anche Ileo venne ucciso, insieme a molti dei suoi cani da caccia. Allora Anfiarao colpì il cinghiale con una pugnalata all'occhio, accecandolo, e, quando Teseo fu sul punto di essere travolto, Meleagro conficcò il giavellotto nel ventre dell'animale e lo finì con un colpo di lancia al cuore.
Meleagro e Atalanta di Jacob Jordaens (Anversa 1593-1678)
Museo del Prado - Madrid
Meleagro scuoiò l'animale e ne offrì la pelle ad Atalanta, perché fra tutti era stata la prima a ferirlo. Plessippo, fratello di Altea e quindi zio di Meleagro, che era fra quelli che più si erano opposti all'idea di maneggiare delle armi insieme a una donna, protestò, appoggiato dal fratello, e propose criteri diversi per l'assegnazione del trofeo. Essi ribadirono quanto aveva promesso Eneo all'inizio della spedizione: la pelle e le zanne del cinghiale erano destinate al suo uccisore; se Meleagro voleva proprio rinunciarvi, avrebbe potuto farlo in loro favore piuttosto che per Atalanta. Meleagro, in cui l'amore per Atalanta accentuò l'ira per essere stato contraddetto, rifiutò sdegnato l'offerta. Gli zii, a questo punto, non esitarono a rubare vilmente il dono che la fanciulla aveva ricevuto dall'eroe, il quale, irritato per quest'azione, li uccise entrambi in un momento di furore. Ebbe per questo la maledizione della madre Altea e si scatenò una guerra che i parenti superstiti dichiararono alla città di Calidone.
Sua moglie, Cleopatra, si rifugiò allora presso di lui e gli fece presente
quale sarebbe stata la sorte degli assediati se i nemici avessero riportato la
vittoria. Al triste quadro che ella dipinse, finalmente si commosse e rivestì
l'armatura. L'eroe non fece alcuna fatica a ristabilire la situazione,
mettendosi tuttavia contro Apollo che proteggeva gli assalitori. In guerra
Meleagro uccise altri suoi zii, ed a questo punto le Moire si recarono dalla
madre di lui per invitarla a ributtare nel fuoco il tizzone serbato per anni.
Altea, irata per la perdita, per mano del figlio, anche degli altri due
fratelli, andò a riprendere la cassa dove aveva riposto il pezzo di legno
collegato alla vita di Meleagro, e lo gettò nel fuoco. Meleagro, in pieno
combattimento, si sentì bruciare dentro le viscere e il dolore provato
permise agli avversari di ucciderlo. Una volta che Altea si calmò e si
accorse di ciò che aveva fatto in un momento di collera, s'impiccò insieme
con Cleopatra, divorata dal rimorso. Le donne di Calidone, invece, sopraffatte
dal dolore, piansero tanto a lungo da impietosire gli dei, che le tramutarono
in galline faraone, o meleagridi, ad eccezione di Deianira.
Meleager after Skopas – IV c. BC
British Museum
In Greek mythology, Meleager (Ancient Greek: Μελέαγρος, Meléagros) was a hero venerated in his sanctuary at Calydon in Aetolia. He was already famed as the host of the Calydonian boar hunt in the epic tradition that was reworked by Homer. Meleager was the son of Althaea and the vintner Oineus and, according to some accounts father of Parthenopeus and Polydora.
When Meleager was born, the Moirae (the Fates) predicted he would only live until a brand, burning in the family hearth, was consumed by fire. Overhearing them, Althaea immediately doused and hid the brand. Meleager married Cleopatra, daughter of Idas. However, in some versions, he had to defeat Atalanta in a footrace, in which he was aided by Athena.
Oineus sent Meleager to gather up heroes from all over Greece to hunt the Calydonian Boar that had been terrorizing the area, rooting up the vines, Oineus having omitted Artemis at the festival. In addition to the heroes he required, he chose Atalanta, a fierce huntress, whom he loved. According to one account of the hunt, when Hylaeus and Rhaecus, two centaurs, tried to rape Atalanta, Meleager killed them. Then, Atalanta wounded the boar and Meleager killed it. He awarded her the hide since she had drawn the first drop of blood.
Meleager's brother Toxeus, the "archer", and Plexippus (Althaea's brother) grew enraged that the prize was given to a woman. Meleager killed them in the following argument. He also killed Iphicles and Eurypylus for insulting Atalanta. Since Meleager had killed her two brothers, Althaea placed the brand back upon the fire, consuming him.
Meleager is also mentioned as one of the Argonauts. In Hades, his is the only shade that does not flee Heracles, who has come after Cerberus. In Bacchylides' Ode V, Meleager is still in his shining armor, so formidable, in Bacchylides' account, that Heracles reaches for his bow to defend himself. Heracles is moved to tears by Meleager's account; Meleager has left his sister Deianira unwedded in his father's house, and entreats Heracles to take her as bride; here Bacchylides breaks of his account of the meeting, without noting that in this way Heracles in the Underworld chooses a disastrous wife.
With his wife Cleopatra, daughter of Idas and Marpessa, he had a daughter Polydora who became the bride of Protesilaus, who left her bed on their wedding-night to join the expedition to Troy.
Among the Romans, the heroes assembled by Meleager for the Calydonian hunt provided a theme of multiple nudes in striking action, to be portrayed frieze-like on sarcophagi.
Iliade
Canto IX
Traduzione di Ettore Romagnoli
Note di Pietro
Novelli
525 |
Gli
Etoli
[1]
, prodi alla pugna, facean per Calidone bella, guerra
ai Cureti
[2]
; e gli uni facevano strage degli altri, gli
Etoli, per salvare Calidone bella, i Cureti desiderosi, invece, di prenderla e farne sterminio. Ora, un malanno inviò agli Etoli Artemide, irata, |
530 |
che
non le avesse offerte primizie nel poggio dell’orto Eneo
[3]
, mentre ecatombi godevano gli altri Celesti. Sola
non ebbe offerte la figlia di Giove possente, oblio
che fosse, o spregio, che l’anima cieca gli rese. E
irata allor, la Diva fanciulla che vaga è di frecce, |
535 |
contro gli spinse un cinghiale
[4]
di candide zanne, selvaggio, che devastava, con danno perenne, le terre d’Eneo, l’uno su l’altro a terra svelleva molti alberi
grandi, con le radici via sbarbate, col fiore dei pomi. Morte
gli diede infine il figlio d’Eneo, Meleagro
[5]
, |
540 |
che
cacciatori e segugi da molte città quivi addusse; ché
non bastò la forza di pochi mortali, a domarlo, tanto
era grande; e molti mandò su la pira fatale. Rissa
la Diva allora d’intorno al cinghiale e tumulto per la sua
testa accese, pel cuoio di setole fitto, |
545 |
fra
gli Etoli dal cuore gagliardo, e la gente Cureta. Ora,
sinché pugnò Meleagro diletto di Marte, trista
ai Cureti volse la sorte; né fuor dalle mura reggevan
dei nemici, sebben molti fossero, all’urto. Ma
quando Meleagro fu invaso dall’ira, che il petto |
550 |
a
molti altri pur gonfia, per quanto provvisti di senno, contro
sua madre Altea, crucciato nel cuor, si ritrasse presso
la sposa sua, Cleopatra dal fulgido viso, figliuola
di Marpessa dall’agil malleolo, figlia d’Eveno, e
d’Ida
[6]
, ch’era fra gli uomini tutti il più forte: |
555 |
d’Ida
che per la sua fanciulla dagli agili piedi tendere
l’arco osò contro Febo che lungi saetta. Lei
nella casa il padre, la madre onorata, Alcione solean
chiamare, nome di vezzo, perché la sua madre avea,
come alcione che sempre si lagna, gemuto |
560 |
quando
rapita Febo l’aveva, che lungi saetta. Dunque,
vicino a lei, Meleagro smaltiva il suo cruccio, perché
la morte ad esso aveva imprecata sua madre. Molto
la terra altrice percossa ella avea
[7]
con le mani, Ade
invocando, e la Dea spietata Persefone, al suolo |
565 |
su le
ginocchia stesa, bagnando di lagrime il grembo, |
570 |
lui
scongiurâr che uscisse, movesse a difesa: i più santi ministri
a lui dei Numi mandâr, promettendo un gran dono. Dove
eran pingui più di Calidone amabile i campi, quivi
dissero a lui che un terreno scegliesse, il più bello, grande cinquanta gie [8] , metà da piantarci la vite, |
575 |
l’altra
metà nel piano, da semina, d’alberi spoglia. Molto
Eneo lo pregò, vegliardo signor di cavalli, sopra
la soglia stando del talamo bene costrutto, le
ben connesse imposte scotendo, pregando suo figlio: molto
pregâr le sue sorelle, e la madre onorata
[9]
; |
580 |
ed egli sempre più persistea nel
rifiuto: i compagni molto
pregaron, quanti migliori ne aveva, e più cari; ma
non poteron, neppure così, far convinto il suo cuore, sinché
non fu percosso di colpi il suo talamo, e ascesi sopra
la torre, i Cureti già davano al fuoco la rocca. |
585 |
E
allor, la sposa bella, gemendo, implorò Meleagro, e
ad uno ad uno tutti gli strazi gli espose, che quando cade
espugnata una rocca, s’abbattono sopra le genti: cadono
gli uomini spenti, le fiamme divoran le case, gli stranieri via conducono pargoli
e donne. |
590 |
Udendo
questi orrori, fu scosso alla fine il suo cuore: chiuse
le membra tutte nell’armi sue lucide, e mosse. Dunque,
così tenne lungi dagli Etoli il giorno fatale, cedendo
al proprio cuore. Né gli altri gli diedero i doni
[10]
molti
e graditi; eppure salvò da sciagura la patria. |
Metamorfosi
Libro VIII
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267 - Vagando per le città dell'Argolide, la fama aveva sparso
notizia
dell'impresa, e i popoli stanziati nella ricca Grecia,
in caso di pericolo,
invocavano l'aiuto di Teseo.
E il suo aiuto
chiese, con preghiere angosciate, anche Calidone,
che pure aveva tra i
suoi Meleagro: causa della supplica
era un cinghiale,
strumento di vendetta del rancore di Diana.
Si racconta infatti
che Eneo, per l'esito felice del raccolto,
avesse offerto le
primizie delle messi a Cerere,
a Bacco il suo vino,
e il succo d'oliva alla bionda Minerva.
Onorate le divinità
campestri, un ambìto omaggio
fu reso a tutti gli
altri dei; solo gli altari della figlia
di Latona,
dimenticati, rimasero vuoti e senza incenso.
Lo sdegno coinvolse
gli dei. "Non lo subirò impunemente!
Potranno dirmi senza
onori, mai senza vendetta!"
esclamò Diana; e
per vendicarsi dell'offesa mandò
nei campi di Eneo un
cinghiale, grande quanto nei prati d'Epiro
o nelle campagne di
Sicilia non sono i tori.
Di fuoco gli
brillano gli occhi iniettati di sangue; ispide
sul collo possente
si ergono setole come rigidi aculei,
286 - [come una palizzata di lunghe aste piantate al suolo;]
con rauco sfrigolio
gli scorre lungo tutto il petto ribollente
la bava; le zanne
sembrano quelle d'elefante indiano;
fiamme eruttano le
fauci, che di vampate bruciano le foglie.
La belva qui
calpesta le colture fresche di germogli,
là falcia le
speranze mature del contadino in lacrime,
sottraendogli il
pane sulle spighe: invano l'aia,
invano il granaio
attenderanno un raccolto, ch'era ormai sicuro.
Fa strage di frutti
maturi con i loro lunghi tralci,
di bacche d'ulivo
coi loro rami sempreverdi.
E infuria contro le
greggi: non c'è pastore o cane contro quello,
non c'è toro
infuriato che possa difendere le mandrie.
La gente in fuga si
rifugia dentro le mura della città,
dove solo si sente
sicura, finché per amore di gloria
Meleagro non raduna
al suo fianco una scelta schiera di giovani:
i figli gemelli di
Tìndaro, ammirevole uno coi pugni,
l'altro a cavallo;
Giasone, inventore della prima nave;
Teseo e Pirìtoo,
esempio di rara amicizia;
i due figli di
Testio e quelli di Afareo, Linceo
e il veloce Ida;
Cèneo ormai non più femmina,
il fiero Leucippo e
Acasto, un campione nel lancio dell'asta;
Ippòtoo, Driante e
il figlio di Amintore, Fenice;
i figli gemelli di
Actore e Fileo venuto dall'Elide.
E c'erano Telamone,
il padre del grande Achille,
il figlio di Ferete,
Iolao della Beozia; c'erano
l'infaticabile
Eurizione, Echìone imbattibile nella corsa,
Lèlege di Nàrice,
Panopeo e Ileo,
il fiero Íppaso e
Nèstore ancora in verde età;
e gli uomini che
Ippocoonte mandò dall'antica Amicle,
il suocero di
Penelope, Anceo della Parrasia,
il figlio indovino
di Ampice, quello di Ecleo, non tradito ancora
dalla moglie; e
Atalanta di Tegea, vanto dei boschi del Liceo,
che portava una
veste fermata in cima da una fibbia brunita,
capelli raccolti
senza ornamenti in un unico nodo,
appesa alla spalla
sinistra una tintinnante faretra eburnea
per le frecce e,
stretto sempre nella sinistra, l'arco:
abbigliata così,
l'avresti detta una fanciulla con l'aspetto
di un ragazzo o un
ragazzo con quello di una fanciulla.
Meleagro, l'eroe di
Calidone, non fece in tempo a vederla
che la desiderò,
malgrado il divieto divino, e ardendo in cuore
d'amore: "Beato
l'uomo, se mai ve ne sarà uno," pensò,
"che lei
riterrà degno!". Ma non ebbe il tempo né l'ardire
d'aggiungere altro.
Più grande impresa premeva: la grande caccia.
Un bosco fitto di
fusti, incontaminato dal tempo dei tempi,
saliva dal piano
dominando ai suoi piedi la campagna.
Quando gli uomini vi
giunsero, alcuni tesero le reti,
altri sciolsero i
cani e altri ancora si misero a seguire le orme
impresse nel suolo,
smaniosi di scovare a proprio rischio il mostro.
C'era una valle
profonda, dove confluivano i rivoli
dell'acqua piovana:
il fondo paludoso era invaso
di salici flessuosi,
tenere alghe, giunchi palustri,
vimini e piccole
canne sovrastate da altre più alte.
Snidato da qui, il
cinghiale s'avventa con furia contro il nemico,
come una folgore che
si sprigiona dallo scontro delle nubi.
E nella sua corsa,
aprendosi con fragore la strada nel bosco,
fa strage di piante:
i giovani lanciano grida e con mano ferma
tengono protese le
lance brandendone il ferro minaccioso.
L'animale carica i
cani e disperdendo quelli che si oppongono
alla sua furia,
sbaraglia a zannate oblique la muta che latra.
A vuoto andò la
prima lancia, scagliata dal braccio
di Echìone, che
scalfì leggermente il tronco di un acero.
La seconda, se il
lanciatore non vi avesse impresso troppa forza,
parve che dovesse
conficcarsi nel dorso a cui era diretta,
ma finì ben oltre;
autore del tiro: Giasone di Pàgase.
"Febo,"
sbottò il figlio di Ampice, "se ti ho onorato e ti onoro,
concedimi di colpire
al cuore il bersaglio col mio tiro!"
Per quel che poté,
il nume l'esaudì: il cinghiale fu colpito,
ma non rimase
ferito; Diana aveva sfilato il ferro
dalla lancia durante
il volo: il legno arrivò, ma privo di punta.
Provocata, la belva
s'infuria, esplode più violenta di un fulmine:
sprizza scintille
dagli occhi, sprigiona fiamme dalla bocca,
e come il macigno
scagliato da una corda tesa vola dritto
contro le mura o le
torri stipate di soldati,
così sui giovani si
getta con furia tremenda quel cinghiale
micidiale e abbatte
Eupàlamo e Pelagone, che erano schierati
sull'ala destra:
d'un balzo i compagni gli sottraggono i caduti.
Ma ai colpi mortali
non sfugge Enèsimo, il figlio di Ippocoonte,
che mentre
trepidando si accingeva a volgergli le spalle,
ebbe recisi i
tendini del ginocchio, che più non lo sostenne.
E forse prima della
guerra di Troia anche Nèstore di Pilo
sarebbe morto, se
puntando al suolo la sua lancia, con un salto
non si fosse
lanciato sui rami di una quercia posta nei pressi,
per guardare di
lassù al sicuro il nemico al quale era sfuggito.
Inferocito il
mostro, arrotando le zanne contro il tronco,
minaccia nuove
stragi e, forte di quelle armi rese aguzze,
colpisce al femore,
col suo grugno adunco, il grande Euritide.
Intanto i figli
gemelli di Tìndaro, prima d'essere stelle,
l'uno più bello
dell'altro, affiancati, cavalcavano cavalli
più candidi della
neve, brandendo entrambi nell'aria una lancia,
la cui punta vibrava
ad ogni minimo sobbalzo;
e avrebbero colpito
il villoso animale, se nel bosco fitto,
inaccessibile ad
armi e cavalli, lui non si fosse cacciato.
Telamone l'inseguì,
ma nella fretta di correre
non vide la radice
di una pianta, inciampò e cadde bocconi.
Mentre Peleo
l'aiutava ad alzarsi, la fanciulla di Tegea
incocca veloce una
freccia alla corda, incurva l'arco e la scaglia.
Conficcato sotto
l'orecchio della bestia, il dardo lacera
la cute e qualche
goccia di sangue arrossa le setole.
Ma se Atalanta fu
felice di quel colpo fortunato,
di più lo fu
Meleagro, che pare l'avesse visto per primo
e, indicando per
primo il fiotto di sangue ai compagni, le dicesse:
"Di questa
impresa a buon diritto tu sola ne porterai l'onore!".
Gli uomini
arrossirono, e per farsi coraggio, con grida di guerra
si esortano a
vicenda e scagliano dardi alla cieca:
quella babele
ostacola i tiri, impedendo che colgano il segno.
Ed ecco che,
accecato dal destino, Anceo con in pugno una scure:
"Guardate come
i colpi di un uomo valgano il doppio, o giovani,
di quelli di una
donna!" gridò. "Fatemi largo! guardatemi!
Armi alla mano,
protegga quel mostro Diana stessa:
malgrado la figlia
di Latona, la mia destra l'annienterà!".
Con enfasi aveva
tutto tronfio pronunciato queste parole,
e sollevando la
scure con entrambe le mani,
si levò sulla punta
dei piedi, le braccia tese sopra il capo:
la belva previene il
temerario e gli pianta tutte e due le zanne
in alto all'inguine,
dove più rapida giunge la morte.
Anceo stramazza e
grovigli di viscere gli colano dal ventre
in un fiume di
sangue e di umori che intridono la terra.
Contro il nemico,
brandendo con forza nella destra
una picca, si lancia
allora Pirìtoo, il figlio d'Issìone.
"Scòstati,"
gli grida il figlio di Egeo, "più di me stesso mi sei caro!
Fèrmati, anima mia!
Combattere a distanza non scema il valore:
guarda Anceo,
vittima dissennata del suo coraggio!"
E detto questo,
scaglia un'asta armata con una punta di bronzo:
dritta l'aveva
vibrata e avrebbe potuto colpire il bersaglio,
se contro non avesse
trovato il ramo frondoso di una quercia.
Anche il figlio di
Esone lanciò un giavellotto, ma sfortuna volle
che sviato centrasse
un cane senza colpa: penetrato
nelle viscere,
gliele trapassò, conficcandosi al suolo.
Esito alterno hanno
i tiri del figlio di Eneo: di due lance
che scaglia, la
prima si pianta a terra, l'altra in mezzo al dorso.
Senza tregua, mentre
la belva si dibatte, gira su sé stessa,
vomita con un
grugnito bava e fiotti di sangue,
il feritore gli è
addosso, irrita e provoca il nemico
e affrontandolo gli
immerge tra le scapole una picca fiammante.
Danno sfogo alla
gioia i suoi compagni con applausi e grida,
fanno a gara per
stringere la destra al vincitore,
e stupefatti
contemplano l'immane bestia lungo distesa
sulla terra, e
malgrado non ritengano ancora sicuro
toccarla, immergono
le proprie armi nel suo sangue.
Meleagro, ponendovi
sopra un piede, calpesta quella testa
micidiale e
proclama: "Prenditi il trofeo che mi compete,
Atalanta, così che
con te sia spartita la mia gloria!".
E le dona le
spoglie: la pelle irta di rigide
setole e il muso su
cui spiccano due zanne enormi.
Felice è lei del
dono e perché è lui che glielo dona.
Ma gli altri provano
invidia e per tutto il gruppo corre
un mormorio. Fra
questi, agitando le braccia e con voce rabbiosa
i figli di Testio
gridano: "Lascia, donna, non toccare
ciò che ci spetta!
Non credere che la tua bellezza ti dia credito
o che l'amore del
donatore possa servirti!".
E strappano a lei il
dono, a lui il diritto di donarlo.
Meleagro non lo
sopporta e digrignando i denti, gonfio d'ira,
grida: "Vi
mostrerò io, ladri della gloria altrui, che differenza
c'è tra i fatti e
le minacce!", e con la sua arma scellerata
trafigge il petto a
Plessippo, senza che lui se l'aspettasse;
nemmeno a Tosseo
permise di esitare a lungo, incerto com'era
tra la sete di
vendicare il fratello e il timore
di condividerne la
sorte: ancora fumante di strage,
tornò a scaldare
l'asta sua nel sangue del congiunto.
Mentre ai templi
degli dei stava recando doni per la vittoria
del figlio,
riportare vide Altea le salme dei propri fratelli.
Affranta riempie la
città dei suoi lamenti,
si batte il petto,
muta le vesti dorate in nere;
ma quando apprende
chi è l'autore della strage, il suo cordoglio
si dilegua e da
pianto si converte in sete di vendetta.
Il giorno in cui
Altea giaceva prostrata dal parto,
le Parche, che
premendo il pollice filavano al figlio il destino,
avevano posto sul
fuoco un ceppo con queste parole:
"Durata uguale
di vita assegniamo al ceppo e a te,
che ora vedi la
luce". Pronunciata questa profezia
le dee si
allontanarono, e la madre subito strappò
il tizzone alle
fiamme, spegnendolo con un getto d'acqua.
Da allora era
rimasto nascosto in un angolo segreto
e, così custodito,
o giovane, t'aveva mantenuto in vita.
Di lì lo trasse
Altea, ordinando di affastellare rami e trucioli,
e a mucchio pronto,
vi appiccò per vendicarsi il fuoco.
Quattro volte fu sul
punto di porre il ceppo sulle fiamme,
quattro volte si
trattenne: sorella e madre combattono in lei
e le due nature in
direzioni opposte trascinano il suo cuore.
Ora il volto si
sbianca per timore del delitto che ha nell'animo,
ora l'ira che le
ferve negli occhi glielo infiamma;
ora ha l'aspetto di
chi minaccia le cose più orrende,
ora, lo giureresti,
quello di chi ha compassione;
e quando la furia
selvaggia del suo animo secca le sue lacrime,
qualche lacrima
trova ancora. E come una nave in balia
del vento e di una
corrente che lo contrasta,
subisce entrambe le
forze e fra quelle si dimostra incerta,
così la figlia di
Testio si dibatte tra impulsi avversi
e di volta in volta
placa o riaccende la sua ira.
Ma a poco a poco
comincia ad essere miglior sorella che madre
e per placare col
sangue le ombre dei suoi fratelli,
si fa nell'empietà
pietosa. Così quando quel fuoco sinistro
prende vigore:
"Che questo rogo bruci la carne mia!" esclama
e stringendo
orribilmente in mano il legno incantato,
immobile davanti a
quel funebre altare, disperata invoca:
"O dee della
vendetta, Eumenidi, a questo rito infernale
volgete il vostro
sguardo! Vendico una colpa
commettendone
un'altra. Morte con la morte si deve scontare.
Si aggiunga delitto
a delitto, funerale a funerale,
e si estingua questa
stirpe malvagia sotto un cumulo di lutti.
Perché mai Eneo
dovrebbe godersi il figlio che torna in trionfo
e Testio esserne
privo? Che piangano entrambi, sì,
questo è giusto!
Anime dei fratelli miei, sorpresi dalla morte,
considerate il mio
compito e accettate questa funebre offerta
che tanto mi costa,
il frutto maligno del mio ventre.
Ahimè, cosa mi
prende? Abbiate pietà, fratelli miei, d'una madre!
La mano si ribella.
Certo, lui merita di morire,
lo riconosco, ma
l'esser causa della sua morte mi ripugna.
Resterà impunito
allora, vivo, vittorioso, e in più diverrà,
tronfio dei suoi
successi, re di Calidone, mentre solo un pugno
di cenere riposerà
di voi, gelide ombre, sottoterra?
Non lo permetterò!
no, muoia lo scellerato e nella rovina
con sé trascini le
speranze di suo padre, il regno e la sua patria!
E l'affetto materno?
gli obblighi pietosi che hanno i genitori?
i travagli che
sopportai per nove mesi? dove sono?
Oh, se appena nato
tu fossi arso al primo fuoco
ed io l'avessi
permesso! Per dono mio tu sei vissuto,
per colpa tua
morirai. Prenditi il premio per ciò che hai fatto:
restituisci la vita
che due volte ti ho dato, partorendoti e
salvando il ceppo, o
con i miei fratelli anche me metti a morte!
Vorrei, ma non
posso. Che fare? Nei miei occhi ora ho le piaghe
dei miei fratelli e
la visione di quella tremenda strage,
ora l'affetto e
l'istinto materno mi spezzano il cuore.
Ahimè! per
disgrazia mia vincerete voi; ma sì, vincete, sì,
purché voi e chi
sacrifico per placarvi io segua
nella morte!".
Così dice, e con mano tremante, girandosi
per non vedere,
getta in mezzo al fuoco quel ceppo funereo.
Il legno manda un
gemito, o almeno così sembra, e le fiamme,
benché riluttanti,
ghermendolo lo bruciano.
Lontano e ignaro, da
quel fuoco è arso Meleagro:
sente le viscere
seccarsi in preda a fiamme misteriose
e solo col suo
coraggio può sopportarne gli atroci dolori.
Ma di morte
ingloriosa e incruenta si strugge di morire,
considera un
privilegio le ferite di Anceo,
e in quegli ultimi
istanti con un gemito invoca il suo vecchio,
i fratelli, le
tenere sorelle, la sua compagna d'amore,
e forse anche la
madre. Crescono il fuoco e lo strazio,
poi si attenuano:
infine l'un l'altro insieme si estinguono
e a poco a poco
l'anima sua nel vuoto dell'aria si dissolve,
a poco a poco un
velo di cenere bianca ricopre la brace.
Prostrata è la
nobile Calidone: piangono giovani e anziani,
gemono popolo e
patrizi, e le donne nate in riva all'Eveno
si strappano i
capelli, si percuotono le membra.
Il padre, steso al
suolo, si cosparge di polvere la canizie,
il volto emaciato,
maledicendosi d'essere ancora in vita:
per espiare il
rimorso di quel suo gesto orrendo,
di sua mano la madre
con un pugnale si era trafitta il petto.
Neppure se un nume
mi desse cento bocche straripanti
di parole, ingegno
fervido e tutta l'arte delle Muse,
potrei descrivere i
lamenti e l'angoscia delle sorelle.
Incuranti del
proprio aspetto s'infliggono lividi sul petto,
col loro abbraccio
tentano di rianimare i resti del fratello,
li colmano di baci e
di baci colmano il feretro sul rogo;
reso cenere, quella
cenere raccolgono e stringono al petto,
si accasciano
davanti al tumulo e avvinghiate alla lapide
che reca il suo
nome, su quel nome spargono le lacrime loro.
Finalmente la figlia
di Latona, paga d'aver sterminato
la stirpe di
Partàone, le solleva (tranne Gorge e della nobile
Alcmena la nuora)
facendo spuntare penne sui loro corpi;
in lunghe ali
modella le loro braccia, a becco
546 - foggia la bocca e, così mutate, le affida all'aria.
La natura degli animali
IV,42
traduzione di
Francesco Maspero
L’uccello francolino (lo ricorda anche Aristofane nella commedia intitolata Gli uccelli) urla e modula il suo stesso nome più volte the può. Dicono che anche le cosiddette meleagridi lo fanno e che testimoniano nel modo più sonoro possibile il loro rapporto di parentela con Meleagro, figlio di Eneo. La leggenda narra che tutte le donne legate da vincoli familiari con Eneo si scioglievano in un irrefrenabile pianto e in lamenti per l’insopportabile lutto che le aveva colpite, senza poter trovare un rimedio al loro dolore; gli dèi allora, mossi da compassione, le trasformarono in questi uccelli. Così il ricordo del loro primitivo aspetto e il motivo di quell’antico dolore sono confitti nel loro animo ed esse continuano tuttora a echeggiare col canto il nome di Meleagro e a proclamare sonoramente la loro parentela con lui. Per questo motivo, tutti coloro che rispettano gli dèi non potrebbero mai porre le mani su questi uccelli per cibarsene. La ragione di ciò è nota a tutti gli abitanti dell’isola di Leros e possiamo conoscerla anche da atre fonti.
Purgatorio – canto XXV
Dante,
nel canto XXV del Purgatorio, ricorda la morte di Meleagro ricorrendo a
Ovidio, cioè a quando il tizzone fu gettato nel fuoco da Altea. Dante chiede
a Virgilio come sia possibile che nell’aldilà, dove non c’è bisogno di
alcun cibo, le anime dei golosi possano diventare così magre a causa del
digiuno. Virgilio gli risponde senza indugio: se ti ricordassi come Meleagro
si consumò insieme al tizzone che stava consumandosi nel fuoco, forse la
magrezza delle anime dei golosi non sarebbe per te di difficile
interpretazione. Tra la vita di Meleagro e il tizzone che relazione poteva
esserci? Eppure il consumarsi dell’uno portò al consumarsi dell’altro.
versi
19-24
Allor
sicuramente aprii la bocca
e
cominciai: “Come si può far magro
là dove l’uopo di nodrir non tocca?”
“Se
t’ammentassi come Meleagro
si
consumò al consumar d’un stizzo,
non
fora”, disse, “a te questo sì agro;
Naturalis Historia
X,74
Auctores sunt omnibus annis advolare Ilium ex Aethiopia aves et confligere ad Memnonis tumulum, quas ob id Memnonidas vocant. Hoc idem quinto quoque anno facere eas in Aethiopia circa regiam Memnonis, exploratum sibi Cremutius tradit. Simili modo pugnant Meleagrides in Boeotia. Africae hoc est gallinarum genus, gibberum, variis sparsum plumis. Quae novissimae sunt peregrinarum avium in mensas receptae propter ingratum virus; verum Meleagri tumulus nobiles eas fecit.
XXXVII,38-41
Mnaseas Africae locum Sicyonem appellat et Crathin amnem in oceanum effluentem e lacu, in quo aves, quas meleagridas et penelopas vocat, vivere; ibi nasci ratione eadem qua supra dictum est. Theomenes Syrtim iuxta magnam hortum Hesperidon esse et stagnum Electrum, ibi arbores populos, quarum e cacuminibus in stagnum cadat; colligi autem ab virginibus Hesperidum. [39] Ctesias in Indis flumen esse Hypobarum, quo vocabulo significetur omnia bona eum ferre; fluere a septentrione in exortivum oceanum iuxta montem silvestrem arboribus electrum ferentibus. Arbores eas psitthachoras vocari, qua appellatione significetur praedulcis suavitas. Mithridates in Carmaniae litoribus insulam esse, quam vocari Seritam, cedri genere silvosam, inde defluere in petras. [40] Xenocrates non sucinum tantum in Italia, sed et thium vocari, a Scythis vero sacrium, quoniam et ibi nascatur; alios putare in Numidia ex limo gigni. Super omnes est Sophocles poeta tragicus, quod equidem miror, cum tanta gravitas ei cothurni sit, praeterea vitae fama alias principi loco genito Athenis et rebus gestis et exercitu ducto. Hic ultra Indiam fieri dixit e lacrimis meleagridum avium Meleagrum deflentium. [41] Quod credidisse eum aut sperasse aliis persuaderi posse quis non miretur? quamve pueritiam tam inperitam posse reperiri, quae avium ploratus annuos credat lacrimasve tam grandes avesve, quae a Graecia, ubi Meleager periit, ploratum adierint Indos? quid ergo? non multa aeque fabulosa produnt poetae?
Deipnosophistaí XIV,71,655b-e
recensuit
Georgius Kaibel
Teubner - Stuttgard,1985
[1] Gli Etoli: abitanti dell’Etolia, regione compresa tra l’Epiro e la Tessaglia a nord, la Doride e la Locride ad est, il golfo di Corinto a sud e l’Acarnania a ovest.
[2] Cureti: questo popolo abitava nella parte meridionale dell’Etolia; il loro nome significava: dotati di forza giovanile; al nord abitavano i Lelegi. Gli Etoli per la loro rozzezza e per la lingua inintelligibile non erano considerati come Greci (Tuc., III,94; 104 seg.; Pol., XVII,5).
[3] Eneo o Oineo suscita l’ira di Artemide non facendole offerta come agli altri dèi. Egli era figIio di Pórteo, marito di Altea, fratello di Agrios e di Melas signori della città di Pleurona (II, 627) e padre di Tideo e Meleagro e di parecchi altri figli (Apollod., I,8,1; Om., Il., V,811; XIV,117 seg.). Era stato chiamato Oineo (= vignaiolo, da oînos = vino) perché aveva piantato per il primo dei vigneti nelle colline del suo paese.
[4] Un cinghiale: il cosiddetto cinghiale calidonio che diede luogo alta caccia in cui si rese celebre Meleagro.
[5] Meleagro: era un valente lanciere che aveva preso parte anche alla spedizione degli Argonauti. Fu marito di Cleopatra soprannominata anche Alcione (vedi i vv. 537-560) figlia di Marpessa e dell’eroe Ida. Meleagro assistito dai più valorosi eroi del suo tempo, diede la caccia aI terribile cinghiale mandato da Artemide a devastate le terre di Oineo. La dea suscitò una lotta sanguinosa fra Etoli e Cureti per avere la testa e la pelle del cinghiale. Gli Etoli ebbero il sopravvento finché Meleagro stette dalla loro parte; ma avendo egli in una mischia ucciso un fratello di sua madre fu da lei maledetto e si ritirò adirato dal combattimento. Gli Etoli si trovarono a mal partito e non valsero suppliche e promesse per indurlo a riprender la lotta; egli si piegò solo alle preghiere di Cleopatra.
[6] Ida: era uno degli eroi compagni di Meleagro che presero parte alla caccia; fra gli altri vi furono anche Admeto, Anfiarao, Asclepio, Giasone, Linceo, Ceneo, Nestore, Fenice stesso, Peleo, Teseo, Castore e Polluce, Piritoo ecc.
[7] percossa ella avea: cioè Altea, madre di Meleagro aveva invocato dagli dèi dell’Inferno la morte al figlio.
[8] cinquanta gie: la gia era una misura greca di superficie corrispondente forse allo iugero romano, perciò 50 gie sarebbero circa 50 iugeri (= circa 12 ettari e mezzo).
[9] e la madre onorata, la quale forse si pentiva di averlo maledetto.
[10] Né gli altri gli diedero i doni ecc. Il dire, come fa Fenice, che Meleagro non ebbe i doni che gli erano stati promessi, invece di convincere Achille poteva mantenerlo nel suo proposito. Fenice non narra come andò a finire Meleagro: questi salvò gli Etoli ma fu colto egli stesso dalla morte per effetto della maledizione materna. Ovidio narra un’altra versione di questo mito di Meleagro (Met., VIII, 267 seg.). Altea e Cleopatra s’impiccarono.