Stern è dell’idea che non
esistono razze pure in quanto, per essere pura, una razza richiede che tutti i
suoi membri siano omozigoti, cioè con geni identici in uno o più loci
appaiati di cromosomi omologhi, e debbono essere isogenici, cioè
geneticamente simili o uniformi riguardo a specifiche paia di geni. Invece,
gli individui sono in gran parte degli ibridi, in quanto i genitori
appartengono a differenti varietà della stessa specie oppure a specie
differenti ma strettamente correlate.
Pertanto Stern definisce una razza come un gruppo di
popolazioni il cui pool genico,
cioè l’informazione genetica totale, è diverso da quello di altri gruppi.
Altra definizione può essere quella di Novitski, secondo
cui una razza è un gruppo più o meno isolato geograficamente e culturalmente
che condivide un pool genico comune.
Pertanto, come dice Stern, se qualcuno non è dell’idea che i Giapponesi
costituiscono in qualche modo un gruppo razziale distinto, è come se
affermasse trattarsi di una miscela di Mongolici, Malesi, Polinesiani e Ainu
caucasici.
Linneo classificò le razze umane nel suo
Systema Naturae basandosi sul colorito della cute:
Europaeus
albus |
Afer
niger |
Asiaticus
luridus |
Americanus
rufus |
includendo in una quinta
categoria quelle razze umane che a suo avviso erano aberranti.
Blumenback (1752-1840) divise
anch’egli le razze umane in cinque gruppi secondo il colore della pelle:
Caucasico
o bianco |
Mongolico
o giallo |
Malese
o bruno |
Etiopico
o nero |
Americano
o rosso |
mettendo tuttavia in evidenza
che esistevano gradazioni intermedie del colorito cutaneo e della morfologia
somatica, per cui tutte le razze sono tra loro correlate.
Fig. XIX. 2 – “Adesso sì che capisco cosa vuol dire evoluzione!”
Attualmente la suddivisione in base al colore della pelle
è accettata malvolentieri, se non addirittura accantonata, e si accetta con
una certa riluttanza la classificazione di Coon (1965)
basata sull’origine geografica delle popolazioni, per cui le razze umane
vengono suddivise in 5 gruppi.
Classificazione
geografica |
|
Australoidi |
Aborigeni australiani |
|
Melanesiani |
|
Papuani |
|
Indiani
tribali |
|
Negritos |
Caucasoidi |
Europei |
|
Ainu
|
|
Mediorientali |
|
Nordafricani |
|
parecchi Indiani |
Capoidi
|
Africani della boscaglia |
|
Ottentotti
|
Congoidi |
Negri africani |
|
Pigmei |
Mongoloidi |
Est Asiatici |
|
Indonesiani |
|
Polinesiani |
|
Micronesiani |
|
Amerindi |
|
Eschimesi |
Ainu:
popolo aborigeno del Pacifico settentrionale che vive prevalentemente sull’isola
di Hokkaido, la più settentrionale del Giappone, e nella parte meridionale
dell’isola sovietica di Sakalin. A differenza degli altri popoli asiatici,
gli Ainu hanno capelli bruni ondulati, pelle chiara, e presentano un
discreto irsutismo. Mancano anche della piega epicantica a livello della
palpebra superiore, caratteristica dei Mongolici, e la loro lingua non ha
nessuna relazione con qualsiasi famiglia linguistica asiatica nota.
Capoidi sono le popolazioni dell’area
che gravita intorno a Città del Capo.
Il nome originario degli Ottentotti
è Khoikhoi, popolazione seminomade dedita alla pastorizia che un tempo
abitava la parte meridionale della Namibia e le aree NO, S e SE del
Sudafrica.
L’uomo è uno dei casi più studiati di differenze
interrazziali. Sulla base dei dati morfologici e di frequenza genica, Boyd e
altri studiosi hanno proposto cinque gruppi razziali principali, ciascuno dei
quali può essere suddiviso in ulteriori popolazioni. I gruppi razziali
attualmente riconosciuti sono:
§
Europeo: include varie popolazioni note
come Bianchi Caucasici, nelle quali troviamo dai Lapponi della Scandinavia ai
popoli del Mediterraneo, inclusi quelli del Nord Africa
§
Africano: a questo gruppo appartengono i
negri d’Africa
§
Asiatico: include le popolazioni
mongoliche e quelle del subcontinente indo-pakistano
§
Americano: tutte le popolazioni autoctone
dei continenti americani
§
Pacifico: include popolazioni della
Melanesia e della Polinesia, nonché gli aborigeni dell’Australia.
I dati di sequenza provenienti sia dal DNA
mitocondriale che dai geni nucleari concordano con quest’ipotesi.
Nonostante la teoria out of Africa
non venga universalmente accettata, i dati di sequenza del DNA stanno giocando
un ruolo sempre più importante nello studio dell’evoluzione umana e nello
studio dell’evoluzione di molti gruppi.
Le razze umane mostrano una grande variabilità di forma, ma globalmente una variazione genetica spiccatamente bassa, anche tra popolazioni tra loro geograficamente distanti. Le differenze genetiche tra differenti gruppi di Aborigeni, e tra gli Aborigeni australiani e popolazioni d’oltremare, sono state oggetto di ricerca da parte di alcuni studiosi. Le caratteristiche genetiche paragonate riguardano i gruppi sanguigni, forma e colore dei capelli, impronte digitali e palmari che costituiscono i cosiddetti dermatoglifi.
I dati di Roy Simmons e dei suoi colleghi del Commonwealth
Serum Laboratories hanno messo in evidenza che gli Aborigeni australiani
sono unici per certe caratteristiche genetiche, come una generale mancanza di
gruppi sanguigni B e A2,
ma questo tipo di ricerca non è stato in grado di fornire un qualsivoglia
indizio circa l’origine biologica dei primi Australiani. Ulteriori ricerche
hanno messo in luce che non esistono connessioni genetiche tra gli Aborigeni d’Australia
e gruppi distanti, come le popolazioni vediche dell’India o dello Sri Lanka,
oppure gli Ainu del Giappone settentrionale.
Il problema consiste nel fatto che gran parte delle
differenze, quali forma dei capelli, gruppi sanguigni e colorito cutaneo, che
creano nette distinzioni tra gli esseri umani in vita, non sono riscontrabili
nello scheletro. Negli ultimi vent’anni è venuta in soccorso la biologia
molecolare. In base al principio che due specie che discendono da un antenato
comune possedevano all’origine lo stesso DNA, col moltiplicarsi delle
generazioni sono andate accumulando via via delle modificazioni casuali.
Quanto maggiore è il lasso di tempo intercorso da quando le due specie si
sono separate, tanto maggiori sono le differenze a carico dei rispettivi
genomi. Queste differenze vengono espresse come percentuale e la mioglobina,
per esempio, può mutare dell’1% dopo 6 milioni di anni.
La comprensione di questo modo di procedere delle molecole
organiche ha portato a stabilire un orologio
molecolare
che segna l’intervallo di tempo intercorso dal momento della separazione di
due specie. L’impalcatura cronologica viene pur sempre fornita dalle
tecniche convenzionali di datazione dei fossili, come il metodo al
radiocarbonio
. Per esempio, pare ormai
assodato che mammiferi e marsupiali si separarono circa 100-125 milioni d’anni
fa. La data cui risale un fossile è tutto quanto serve per mettere a punto l’orologio
che scandirà il tempo intercorso da quando specie diverse condividevano un
antenato comune, in quanto il DNA accumula mutazioni a frequenza relativamente
bassa e la stessa molecola cambia con la stessa frequenza in tutte le specie
in esame.
Studiando il materiale genetico dei differenti gruppi
razziali è stato possibile costruire un albero genealogico dall’analisi
delle proteine del sangue e del DNA cromosomico. Un ulteriore sviluppo è
derivato dallo studio del DNA mitocondriale che si evolve con maggior
rapidità del DNA nucleare, fornendo un ulteriore orologio molecolare,
indipendente da quello del genoma nucleare e più veloce, capace di rivelare a
carico di un passato relativamente recente l’influsso dell’eredità
matrilinea.
L’albero genealogico costruito sulla base del DNA mitocondriale sembra mostrare che forse i principali gruppi razziali umani sono emersi 200.000 anni fa quando avvenne una triplice suddivisione in Africani, Caucasici e linea Australo-Orientale.
Questa teoria è sostenuta da alcuni genetisti australiani, come Robert Kirk, che è giunto a questa conclusione attraverso l’analisi di studi genetici tra loro indipendenti, giungendo altresì ad affermare che la divergenza delle linee ancestrali degli Aborigeni Australiani, dei Negri d’Africa e degli Asiatici Orientali si verificò in un momento compreso tra 200.000 e 100.000 anni fa.
Datazione alquanto più
precisa rispetto a quella proposta da Mark Stoneking, che aveva proposto per l’out
of Africa un momento compreso tra
50.000 e 500.000 anni fa, ammettendo egli stesso nel 1992 che le sue
conclusioni erano viziate dal punto di vista statistico.