Lessico


Pindaro

da Veterum illustrium philosophorum etc. imagines (1685)
di Giovanni Pietro Bellori (Roma 1613-1696)

Poeta greco (Cinoscefale, Beozia, 522 o 518 - Argo 438 aC). Ci restano di Pindaro quattro antiche biografie, con poche notizie sicure e parecchie leggende, a cui la figura del poeta diede luogo. Certamente di famiglia aristocratica completò, com'era abitudine dei nobili, la sua educazione ad Atene. Per meglio comprendere la vita e l'attività poetica di questo grandissimo lirico, conviene precisare che esse vanno collocate nell'età e nella tipologia arcaica della poesia greca, quando feste religiose, ricorrenze politiche e gare atletiche venivano solennizzate con inni in lode di città, di divinità e di campioni sportivi. Pindaro infatti iniziò la sua attività artistica nel 498, con la X Pitica, scritta per un giovinetto vincitore della corsa a piedi e legato alla dinastia tessalica degli Alevadi.

La sua attività di poeta lo portò ben presto a viaggiare e a porsi in contatto con i più importanti centri del potere e della cultura in Grecia e fuori, anche se rimase sempre molto attaccato alla sua patria, la Beozia. La prima parte della sua produzione è piuttosto legata a culti sacri; ma ne siamo scarsamente informati. Del 490 è il peana cantato per una festa religiosa a Delfi; nello stesso anno Pindaro strinse rapporti con un altro potente del tempo, Terone, tiranno di Agrigento, scrivendo la VI Pitica per un suo fratello, vincitore nella corsa dei carri.

Quando, nel 480, i Persiani, sotto il re Serse, invasero la Grecia, Tebe scelse la neutralità e in Beozia fu addirittura forte il partito filopersiano. Così, dopo la definitiva vittoria greca del 479, Pindaro, che era in stretta relazione con gli aristocratici della parte filopersiana, ne subì le conseguenze. Nel 476 lo troviamo in Sicilia, dove scrive le prime 3 Olimpiche in onore di Gerone di Siracusa e di Terone. In quelle splendide corti si incontrò con Bacchilide e Simonide, e con essi forse polemizzò; quando tornò in Grecia, verso il 474, era ormai ricco e famoso. Da ogni città gli giungevano richieste di opere, e anche i suoi legami con le corti siciliane non furono molto allentati: ancora nel 470 scriveva la I Pitica per la vittoria col carro di Gerone a Delfi. Dello stesso anno è probabilmente il ditirambo in lode di Atene, che esalta, definitivamente, il ruolo avuto da questa città nella difesa dell'indipendenza greca.

Quando scomparve Gerone e le grandi tirannidi siciliane si eclissarono, Pindaro trovò altri committenti nel re di Cirene, Telesicrate, e a Rodi, a Corinto, in Macedonia. Ma il quadro politico della Grecia si andava oscurando con le lotte tra città vicine e un tempo alleate; anche la Beozia fu per un decennio sottoposta alla dominazione ateniese. Di tutto questo ci sono tracce nella produzione finale di Pindaro. La morte lo sorprese ad Argo: secondo la tradizione, si spense dolcemente, reclinando il capo sulle ginocchia del giovane Teosseno di Tenedo, da lui cantato nell'XI Nemea.

Tutta l'opera di Pindaro fu radunata e sistemata dagli studiosi alessandrini, in particolare da Aristofane di Bisanzio, il quale ne divise le poesie secondo gli schemi metrici e le pubblicò raggruppandole in 17 libri: 11 per le poesie che si riferivano a culti sacri (inni agli dei, peani, prosodi, parteni, iporchemi); seguivano un libro di encomi e quattro di epinici: 14 Olimpiche, 12 Pitiche, 11 Nemee, 8 Istmiche, così denominati in base al tipo di giochi panellenici in cui gli atleti glorificati avessero trionfato.

A noi sono giunti per intero solo questi ultimi quattro. Il loro contenuto è molto specifico, ma i frammenti delle altre opere che ci sono giunti, da ultimo e spesso per via papiracea, mostrano che sono abbastanza tipici dello stile del poeta in tutta la sua produzione. Ciò si deve alla particolare atmosfera sacrale in cui visse e operò Pindaro, che vi innestò il motivo agonistico: la vittoria atletica è un'occasione anch'essa religiosa, in cui si dimostra la virtù umana e la possibilità di un raggiungimento, sia pure temporaneo, della felicità divina attraverso il valore.

Le strutture di questi inni presentano alcuni elementi quasi costanti. All'inizio sono rievocate la patria, la famiglia, il passato sportivo del dedicatario; segue un episodio mitico, che occupa in generale una parte piuttosto cospicua dell'intera ode e che viene inserito prendendo spunti a volte molto occasionali (il luogo della vittoria, circostanze biografiche, esemplificazioni); infine si riprende il motivo iniziale, con lodi del dio. Il tutto è inframmezzato da frequenti massime (la gnømë), altrettanti momenti sentenziosi in cui il poeta esprime la sua religiosità, la sua funzione artistica, le leggi sacre della vita. Fra tutti questi elementi non è sempre facile trovare i nessi del canto, e la critica pindarica si è spesso divisa tra chi sente e afferma un'unità intrinseca, non certo logica ma d'ispirazione, e chi sostiene piuttosto il procedere irrazionale se non la casualità dell'inno.

In realtà, pur tra sbalzi impressionanti, una rigorosa e ferma convinzione ideale regge tutta l'opera pindarica, e discende dalla visione aristocratica dei valori della vita e del sistema religioso che caratterizza piuttosto l'età arcaica della Grecia e non quella che si andava annunciando o già si andava diffondendo negli anni della vita di Pindaro. Fondamento di questa ideologia è la concezione del valore come prodotto innato ed ereditario della natura di ciascun uomo; l'educazione può temprare, ma non inculcare la virtù in chi non la possiede per natura. Il mito non è che l'esemplificazione di questa virtù, sublimata negli eroi, così come la tenzone atletica, che mette al cimento le qualità dell'uomo, ne è la dimostrazione. Da parte sua, il poeta si affianca al vincitore eternandone le qualità e le gesta col suo canto. Il profondo spirito religioso che presiede a tale visione delle opere umane rientra o si dilata in una visione totale del mondo retto da un dio giusto e perfetto, e pieno delle sue misteriose epifanie. Il grande afflato della poesia di Pindaro sorge dalla sua immersione in questi alti e profondi concetti. Ne risentono la sua vorticosa ispirazione, lo stile a passaggi rapidi e intensi (i famosi “voli pindarici”), l'ampio e sinuoso periodare, la ricchezza del colorito e dell'ornamentazione, la luminosità o l'arditezza delle metafore e delle analogie.

La lingua è quella letteraria tipica della lirica corale: risente dell'epica, ha elementi dorici ed eolici. La metrica si fonda sulla successione di strofe isolate o di triadi composte di una strofa, un'antistrofa e un apodo, con l'uso di tutti i tipi di versi lirici.

Poco apprezzato nella Grecia classica sia per le sue posizioni conservatrici in politica, come in morale e in religione, sia per l'oscurità e la concettosità della sua poesia, Pindaro conobbe miglior fortuna in età alessandrina; tra i Romani, fu suo grande ammiratore Orazio. Ancora l'età barocca si ispirò più o meno direttamente allo stile pindarico e anche quella romantica ne apprezzò il tono misterioso e l'impeto lirico, profondo nelle emozioni e sublime nell'immaginazione.