Lessico
Sorrento
Città della Campania con 16.459 abitanti (1996), in provincia di Napoli, situata su un terrazzo tufaceo a picco sul mare del versante settentrionale dei Monti Lattari, sulla costa della penisola sorrentina che s'affaccia sul golfo di Napoli. L'economia locale si basa prevalentemente sul turismo, culturale e balneare, sull'agricoltura (agrumi, viti, noci, ulivi, gelsi), sull'industria alimentare e sul caratteristico artigianato del legno intarsiato. Nei tempi antichi Sorrento fu assai famosa per i suoi vini. Oggi è più famosa per il suo limoncello.
Di origine probabilmente greca, è ricordata per due ribellioni a Roma, nel 216 e nel 90 aC. Schieratasi dalla parte di Annibale dopo Canne (216 aC), fu presa da Papio Mutilo durante la guerra sociale e venne occupata da una colonia di veterani. Una volta domata dopo la guerra sociale (combattuta dagli alleati italici tra il 90 e l'88 aC contro Roma per ottenere il diritto di cittadinanza romana), ospitò una colonia, quindi divenne municipio con il nome Surrentum e, all'inizio dell'impero, luogo privilegiato di villeggiatura dell'aristocrazia romana. Sede vescovile dal 420, passò nel 552 ai bizantini, e dal IX secolo fu un ducato autonomo, in lotta con le vicine città di Amalfi e Salerno. Nel 1137 il ducato di Sorrento fu incorporato nel regno normanno, e da allora seguì le sorti politiche di Napoli.
Il centro storico mostra ancora il tracciato ortogonale delle strade di origine romana, mentre verso monte è circondato dalle mura cinquecentesche. Vi si trovano il Duomo, riedificato nel XV secolo, con facciata neogotica, e la chiesa di San Francesco d'Assisi, con un notevole chiostrino trecentesco. Nel museo Correale sono esposte collezioni di reperti greci e romani e di porcellane di Capodimonte, con una sezione di pittura del XVII-XIX secolo; dal parco si gode inoltre una magnifica vista sul golfo. Presso la Punta del Capo, 3 km a ovest, si trovano resti romani ritenuti della villa di Pollio Felice (I secolo dC).
Vini
DOC di Sorrento
Lettere – Gragnano – Sorrento
Vendemmia a Sorrento di Jacob Philipp Hackert - 1784
Jacob Philipp Hackert, pittore tedesco (Prenzlau 1737 - San Piero di Careggi, Firenze, 1807). Dopo aver frequentato l'Accademia di Berlino, soggiornò in Svezia e a Parigi, stabilendosi poi definitivamente in Italia, fra Roma, Napoli e Firenze, insieme al fratello Johann-Gottlieb (1744-1773), anch'egli pittore. Dipinse vedute dal vero o di fantasia d'impostazione classicista. Negli ultimi anni un certo delicato sentimentalismo lo avvicinò al gusto preromantico.
La Penisola Sorrentina - un ambiente di grande bellezza, meta privilegiata del turismo internazionale, richiamato dalla mitezza del clima, dallo splendore delle coste tormentate, a picco sul mare - produce, in aree molto limitate, tre vini di eccellente qualità e grande tradizione: il Lettere, il Gragnano e il Sorrento; vini citati da Orazio, Plinio, Galeno, Strabone, Columella. Sante Lancerio, capo cantiniere di papa Paolo III (Alessandro Farnese, Canino 1468 - Roma 1549), riferendo delle abitudini di Papa Paolo III, ricorda come Sua Santità bevesse il vino di Sorrento "volentieri la state ai grandi caldi, massime alla sera per cacciare sete, sicchè è vino da signori"... "un delicato bere". Del Gragnano e del Lettere lo scrittore e regista cinematografico Mario Soldati (Torino 1906 – Tellaro, La Spezia 1999) scrive pagine appassionate: "Lettere, un piccolo comune, quattro case sparse sopra Gragnano...: vino letterario, e cioè irreale; ..... Paesaggio alpestre, rupestre, pastorizio, e insieme foltissimo di vegetazione. Valloncelli, dossi, poggi preromanici. E, tra le vigne, i lecci, i noci, i castagni, a picco sulla piana di Pompei, in vista di Castellammare e del Golfo, delle isole lontane e del Vesuvio. Finalmente il Gragnano... un piccolo vino, ma .... veramente insuperabile. Colore rosso rubino carico, che tirava allo scuro; profumo vinoso e campestre, frizzantino e quando giovane addirittura spumoso, di una spuma che calava subito e subito spariva per sempre...; e con un aroma, un retrogusto gradevolissimo di affumicato; un affumicato della stessa specie di quello del whisky al malto infinitamente più volatile. Nonostante il colore, non andava bevuto a temperatura ambiente ma freddo, e freddo di cantina." Grazie all'appassionato impegno di alcuni operatori, questo piccolo grande vino, "il tradizionale vino dei veri napoletani", rivive i fasti del passato e ci è consentito riprovare, intatte, queste emozioni.
Bianco
Colore:
paglierino più o meno intenso;
Odore: delicato, vinoso e gradevole;
Sapore: asciutto di giusto corpo armonico;
Vitigni: Falanghina (min. 40 %), Biancolella e/o Greco (max 20 %), altri (max
40 %);
Gradazione alcolica min.: 10%;
Produzione max: 120 qli/Ha;
Alleanze tra vino e pietanze: antipasti di mare, risotto allo scoglio,
spaghetti a vongole veraci in bianco, grigliate di pesce; perfetto è
l'abbinamento con pasta e fagioli con le cozze.
Rosso
Colore:
rubino più o meno intenso
Odore: vinoso
Sapore: asciutto di medio corpo, giustamente tannico;
Vitigni: Piedirosso (loc. detto Per' e Palummo) (min. 40 %), Sciascinoso (loc.
detto Olivella )
e/o Aglianico (max 20 %), altri (max 40 %);
Gradazione alcolica min.: 10,50 %;
Produzione max: 110 qli/Ha;
Alleanze tra vino e pietanze: involtini di melanzane, braciole di carne,
arrosti di maiale, spaghetti ai purpitielli con pomodorini del Vesuvio;
tradizionale è l'abbinamento con gnocchi alla sorrentina.
Rosso frizzante naturale
Spuma:
vivace evanescente;
Colore: rubino più o meno intenso;
Odore: vinoso, intenso, fruttato;
Sapore: frizzante, sapido di medio corpo nettamente vinoso, morbido, a volte
con vena amabile;
Vitigni: Piedirosso (loc. detto Per' e Palummo ) (min. 40 %), Sciascinoso
(loc. detto Olivella ) e/o Aglianico (max 20 %), altri (max 40 %);
Gradazione alcolica min.: 10%;
Produzione max: 110 qli/Ha;
Alleanze tra vino e pietanze: vino da tutto pasto; è perfetto in abbinamento
con la pizza margherita o napoletana (pomodoro, origano e aglio), mozzarella
in carrozza, salsicce e friarielli, zuppa di soffritto.
I vini Penisola Sorrentina, bianco e rosso, ottenuti in vigneti siti nei comuni di Sorrento, Piana di Sorrento, Meta, Sant'Agnello, Massalubrense e Vico Equense, con produzioni non superiori a 90 qli/Ha per il rosso e 100 qli/Ha per il bianco, possono essere denominati Sorrento, se la gradazione alcolica non è inferiore a 11% e 11,50 %, rispettivamente.
Il vino Penisola Sorrentina, rosso frizzante può essere denominato Gragnano o Lettere se deriva da uve provenienti da vigneti siti nei comuni di di Gragnano, Pimonte e Castellammare di Stabia (in parte) - per il Gragnano - Lettere, Casola, Sant'Antonio Abate (in parte) - per il Lettere. In tal caso le produzioni non devono superare i 90 qli/Ha e la gradazione alcolica non deve essere inferiore a 11%.
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Forse furono i Greci a portare la coltivazione della vite nella nostra penisola. La viticoltura in Italia appare verso il 730-720 aC nelle colonie della Magna Grecia: nel bacino dell'Egeo non c'era più alcuna terra libera e parecchi Greci migrarono verso le coste del Mar Nero fino alla Crimea, ma anche verso la Sicilia e l'Italia meridionale, che erano scarsamente popolate. È da lì che la coltivazione della vite si estenderà all'Italia centrale. Mentre pare proprio che fu un etrusco a esportare la viticoltura per primo in Gallia (e quindi in Francia). Nell'Italia settentrionale i tralci delle viti, a differenza della tradizione greca, erano però sorretti da alberi e non da "sostegni morti": tipici inoltre per la potature lunga. Fino all'VII secolo aC vino e olio deposti nelle principesche tombe del Lazio e dell'Etruria, provenivano da zone di oltremare: dall'Attica, dall'Eubea, da Corinto e dalla Fenicia. Nel 650 aC, con la produzione di anfore etrusche da trasporto, vino e olio divengono invece beni di largo consumo e di commercio. Romolo nel periodo dei re (con Roma che era di fatto colonia dell'etrusca Veio ed etruschi erano i suoi monarchi) dà esempio di moderazione rifiutandosi, durante una cerimonia, di bere più di una coppa di vino. Questo significa che quel bene era ancora scarso e prezioso. E così era anche ai tempi della civiltà micenea in Grecia: il vino veniva considerato un bene di lusso e in alcune tavolette compare per lo più tra gli elenchi di offerte alla divinità o tra i donativi di scambi diplomatici. Numa Pompilio, re di Roma, vieterà invece alle donne di bere durante le libagioni funebri. È il segno che il nettare di Bacco era già prodotto in maggiore quantità e berlo era oramai un uso diffuso anche tra le donne. Nel V secolo arriverà poi la prima legge sul vino, con il divieto di lasciare le viti "non tagliate" (non potate) e disposizioni ancora più aspre per le donne.
I Greci e il vino
Ci racconta Omero che i Greci bevevano vino, simbolo di indiscusso prestigio sociale, a colazione, a pranzo e a cena. Tre erano infatti i pasti nell'arco della giornata: l'ariston, il deiphon e il dorpon. Le viti non si coltivavano però a pergola, ma erano lasciate scorrere sul suolo evitando, con rami e stuoie, il contatto diretto delle ciocche con il terreno. Sempre secondo Omero era a metà settembre che gli uomini e le donne greche si dedicavano alla vendemmia; e dopo aver riempito di uva le conche di legno d'acacia o in muratura, procedevano alla pigiatura. La fermentazione avveniva in grandi vasi di terracotta cosparsi all'esterno di resina e pece e profondamente interrati, per limitare i danni provocati dalla traspirazione. La filtrazione e il travaso seguivano dopo sei mesi e il vino era versato in anfore di terracotta o in otri. Secondo Esiodo, invece, la vendemmia avveniva all'inizio di ottobre e l'uva, prima di essere pigiata, veniva esposta al sole per aumentarne la componente zuccherina e diminuirne l'umidità.
I Greci rievocarono le figure leggendarie delle menadi e dei Satiri, seguaci di Bacco, con gusto e piacere. Un'anfora del 540 aC decorata da Amasi di Atene mostra una scena di Satiri impegnati nella vendemmia. Un satiro raccoglie l’uva, un altro la pigia in un tino dal quale il mosto cola direttamente in un recipiente interrato nel quale avverrà la fermentazione, altri tre si occupano della cantina.
La poesia antica di tutto il Mediterraneo, cantando le gesta di eroi e condottieri, ha spesso citato il vino. L'Iliade di Omero lo ricorda, oltre che nei giuramenti, in occasione di banchetti, riti funebri e naturalmente durante le cerimonie religiose: famoso è il passo dedicato ai funerali di Patroclo. L'epiteto "ricco di grappoli" accompagnava la descrizione di parecchie regioni. E una vigna, con sostegno "morto", compare nella descrizione dello scudo di Achille forgiato da Efesto, secondo quello che ci racconta di nuovo Omero.
Il simposio
Bere vino per i Greci era anche un rito collettivo, sensibili com'erano alla dimensione comunitaria del vivere. L'occasione per farlo era il simposio, organizzato di solito per un matrimonio, per una festa familiare o per una ricorrenza religiosa. Gli invitati, almeno fino al IV secolo, dovevano essere rigorosamente fra tre e nove, che era poi il numero delle Grazie e delle Muse: assente la donna. Il padrone di casa assegnava i posti agli invitati a seconda dell'importanza - la disposizione doveva essere tale che tutti potessero vedersi e parlarsi - mentre del servizio si occupavano alcuni giovani che miscelavano il vino con l'acqua, lo attingevano e lo versavano. Consumato il pasto, come ci racconta anche Platone (che al simposio ha dedicato uno dei suoi dialoghi), una coppa di vino non annacquato veniva passata in cerchio perché ogni commensale potesse berne un sorso e brindare. Scrive il filosofo nel Convito: "… Socrate si sedette e quando ebbe finito di mangiare insieme ad altri fece libagioni. Poi cantarono tutti in onore del dio, compirono gli altri riti e si misero a bere". A questo "brindisi" ne seguivano altri, secondo un rituale che prevedeva il lavaggio delle mani e l'utilizzo di profumi e corone di fiori sul capo, di mirto o di edera (pianta sacra a Dioniso, con cui si adornavano anche le coppe). Del vino, versato fuori dalle coppe, era offerto anche a Zeus Olimpio, agli "spiriti degli eroi" e a Zeus Salvatore. Bere significava circondarsi di un'atmosfera magica: il vino era esso stesso divinità. E chi brindava assieme creava una comunità, anche se in epoca romana questo elemento rituale e sacrale tenderà progressivamente a diventare sempre più sfumato. E il banchetto si trasformerà in un evento borghese.
Il vino degli antichi - Il ruolo delle donne
Il vino degli antichi era comunque molto più simile a uno sciroppo di uva, sia pur a volte liquoroso, che a quello che noi oggi beviamo. Non a caso veniva sempre servito con acqua, che doveva essere prevalente. Bere il solo vino, oltre al rischio di potersi ubriacare, era visto come un'usanza barbara o sacrilega. E al vino talvolta si aggiungevano miele e resine, che lo rendevano più stabile e più adatto alla conservazione e al trasporto. Così faranno anche gli Etruschi (ricordiamoci del Cerveteri), che al vino nei simposi e nei banchetti accompagnavano frutta, noci, mandorle, pasticcini, formaggi, miele e altri stuzzichini. Tra i Greci e tra i Romani la donna non veniva ammessa alla mensa del marito e a Roma la suocera aveva il diritto di sentire se l'alito della nuora sapeva di vino. La donna che consumava vino veniva assimilata a un'adultera: solo nell'età imperiale le fu concesso di bere il vinum passum, cioè il vino passito, e in genere i vini dolci. La donna etrusca, invece, era sempre presente ai banchetti, sdraiata sul triclinio assieme al marito.
Il vino dei Romani
Nei primi anni dell'impero romano la vite era ormai ampiamente diffusa e coltivata in Italia, tanto che nel 90 dC Domiziano dovette imporre ai contadini della penisola, con un editto, di sradicare metà delle vigne e vietare nuovi impianti per far fronte a una preoccupante crisi da sovrapproduzione. I primi vini romani erano comunque piuttosto grossolani: quelli più nobili venivano ancora importati dalla Grecia. Il vino che bevevano i Romani era inoltre molto diverso da quello che oggi orna le nostre tavole. Andavano infatti matti per il vino lungamente invecchiato, come in genere in tutta l'antichità. Il Falerno non si poteva bere prima dei 10 anni e rimaneva ottimo fino a 30; i vini di Sorrento erano buoni soltanto dopo 25 anni. Per invecchiare i vini si usavano anfore, aiutandosi con fumo, calore e rudimentali sistemi di pastorizzazione. I vini che bevevano dovevano quindi essere densi, amari, eccessivamente alcolici e quasi sempre stravecchi: l'annacquamento, con acqua calda o fredda ma anche neve, era essenziale, mentre il vino puro (il merum) era riservato agli dei. A seconda delle qualità a una parte di vino si potevano aggiungere anche tre parti di acqua. I Romani usavano moltissimo, inoltre, i "tagli" tra vini diversi: un dolce vino greco di Chio, ad esempio, per mitigare l'asprezza del Falerno. La bevanda comunque preferita rimaneva il mulsum, una miscela di miele e vino con cui si aprivano i sontuosi banchetti delle grandi famiglie patrizie.
Già all'epoca dell'antica Roma, produttori e commercianti ricorrevano alle sofisticazioni e di ciò ne parlano gli antichi autori latini come Orazio, Catone, Plinio. Spesso si aggiungeva al vino cenere, sale, scaglie di ostriche tritate e persino acqua di mare. Questi "additivi" dovevano avere lo scopo di garantire la conservazione. Marziale parla di un mercante che al vino (grossolano) di Sorrento, mescolava gli avanzi di vini pregiati di Palermo, ottenendo così un prodotto di qualità discutibile ma di sicuro guadagno. Stando ancora a quanto gli storici ci riferiscono sulle consuetudini degli antichi, ci è dato sapere che essi preferivano bere il vino freddo. In genere i vini che si servivano nei pranzi, venivano sottoposti a una filtrazione, usando un panno di lino in cui si poneva della neve, rendendoli freschi ma anche indebolendoli e falsandone quindi il sapore originale. Ovidio diceva a questo proposito: "Vino lina vitiata" attribuendo così al lino, la capacità di modificare in peggio la qualità della bevanda. A proposito di filtrazione Plinio parla di saccus vinarius, un sacco appunto che veniva usato per colare il vino, ossia per purgarlo dalle fecce o per addolcirlo. Quest'ultima tecnica si può dire che ha anticipato i tempi in cui per preparare i così detti mosti muti, si è fatto ricorso all'uso di un filtro di stoffa molto fitta, per impedire il passaggio dei fermenti ottenendo così un vino piuttosto dolce, per una ridotta trasformazione in alcool degli zuccheri presenti nel mosto. Altra espressione usata da Plinio era "Saccis vina castrare", per indicare l'operazione capace di temperare la forza del vino, colandolo sempre attraverso un sacco.
Si usava poi mischiare il vino, profumato con i vari ingredienti come erbe e bacche, anche con acqua calda perché più salubre e si otteneva una bevanda che si conservava in vasi circondati da carboni accesi o da recipienti di acqua bollente. Plinio elenca più di duecento bevande a base di vino che i Romani conoscevano e accenna a una specie di birra ottenuta facendo fermentare il grano nell'acqua e si faceva meraviglia come dall'acqua stessa si potessero ottenere gli effetti del vino. Dai primi tempi di Roma sino al XVII secolo, sono stati in uso i così detti "vini misti" che contenevano essenze derivate da piante come il rosmarino, il finocchio, l'anice, l'assenzio, la salvia, l'issopo e altre.
Tra questi antichi vini profumati, si ricorda, ad esempio, il Claret preparato con miele, chiodi di garofano, cannella, zenzero e cardamomo chiamato questo anche Granum Paradisi. Già Plinio riferisce che nei primi tempi dell'Impero Romano, per la preparazione dei vini profumati, "Vina odore condita", venivano usate non solo piante ricche di aromi particolari, ma addirittura la velenosa mandragora. Nei banchetti romani veniva dato il compito a una persona fidata di preparare, poco prima di dare inizio ai banchetti stessi, la miscela di acqua e di vino: questo personaggio era chiamato il "pocillator" mescitore o coppiere, definito anche "arbiter bibendi" che stabiliva le proporzioni anche se, in genere, si era soliti mischiare tre parti di acqua e una di vino e talvolta erano addirittura nove le parti di acqua da aggiungere. Marziale nei suoi Epigrammi però dice: "Vin puro per metà mesci / come facea Pitagora a Nerone". (Misce dimidios, puer, trientes, | quales Pythagoras dabat Neroni, - XI,6)
Un vino che richiedeva una diluizione molto forte citato anche da Plinio, era il Maroneo perché evidentemente molto alcolico. Di solito, verso la fine del convivio se ne portava di più annacquato, poiché i commensali, evidentemente ormai saturi, non erano più in grado di distinguerne pregi o difetti. A questo proposito va ricordato l'episodio delle nozze di Cana in cui Gesù Cristo, sollecitato da sua Madre Maria, compì il miracolo di trasformare l'acqua in ottimo vino, suscitando non poco stupore tra gli invitati, abituati a vedersi servire, sul finir del pranzo, quello peggiore.
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