Lessico


Avvoltoio


Volturno romano

Volturno - in latino Volturnus o Vulturnus - è il nome di due divinità, una romana e una campana, di carattere diverso, ma confusi tra loro sia nella poesia classica (ma non nelle opere scientifiche latine), sia nei vecchi studi di filologia classica.

Volturno è un dio romano, omonimo del fiume campano, ma a Roma era patrono del vento caldo di sud-est, il moderno scirocco. Al suo culto era preposto un flamine minore, il flamen Volturnalis; la sua festività era denominata Volturnalia e si celebrava il 27 agosto. Flamen era un sacerdote che recava un cappello con la cima di  lana, per cui gli antichi facevano derivare questo nome da filamen = filamentum (filo). I flamini, voluti da Anco Marcio (il quarto dei 7 re di Roma che regnò nella seconda metà del sec. VII aC), erano 15 sacerdoti compresi nel collegio dei pontefici.

Secondo lo scrittore cristiano Arnobio il Vecchio, Volturno era ritenuto il padre della ninfa Giuturna[1]. La vecchia scuola positivista riteneva che Volturno fosse un dio fluviale collegato al Tevere. Tale identificazione derivava dalla omonimia tra il dio romano e il fiume campano, e da ciò si era supposto che Volturnus fosse stato un antico nome del Tevere, forse il nome datogli dagli Etruschi[2]. In realtà non esiste alcun indizio che attribuisca al Tevere un nome diverso da quelli conosciuti, cioè l'arcaico Albula e i successivi Thybris e Tiberis.

Il carattere fluviale del dio romano Volturno fu respinto già nel 1960 da Kurt Latte che invece avanzò la proposta di identificarlo come "forza del vento"[3].

Gli studi di Georges Dumézil hanno chiarito, sulla base delle testimonianze letterarie classiche, che il dio Volturnus a Roma indicava il vento di sud-est, nocivo ai vigneti e agli alberi da frutto, e scongiurato con i Volturnalia[4].

Favorino, citato da Aulo Gellio[5], riferisce che il terzo vento, quello che viene dal punto in cui il sole si alza al solstizio d'inverno, i Romani lo chiamano Volturnus e la maggior parte dei Greci, con un nome composto, Eurónotos, perché si situa tra il Noto e l'Euro.

Da una testimonianza di Columella sappiamo che anche in Baetica (Spagna meridionale) i contadini chiamavano Volturnus il vento caldo che devastava le viti all'inizio della Canicola, se non venivano coperte da stuoie di palma[6].

L'etimologia del nome del dio non è molto chiara. Secondo Theodor Mommsen sarebbe derivata dalla radice volvere, in quanto accettava l'interpretazione "fluviale" del dio. Altri hanno proposto un collegamento con il nome dell'avvoltoio (in quanto, stando a Eliano - La natura degli animali II,46 - i venti che fecondavano le avvoltoie erano Noto oppure Euro in mancanza del primo), o con il nome del monte Voltur o Vultur nei pressi di Venosa, ricordato già da Orazio[7]

Anche in questo secondo caso non manca l'aggancio con l'avvoltoio: infatti l'interno del vulcano e gran parte delle vette del Voltur sono rivestiti da una ricca vegetazione arborea che in passato offriva senz'altro ampie possibilità di nidificare a due precise specie di avvoltoio, quelle note ad Aristotele: il capovaccaio (Neophron percnopterus) e l'avvoltoio monaco (Aegypius monachus), che ai dirupi preferiscono gli alberi. Invece il grifone (Gyps fulvus) e l'avvoltoio degli agnelli (Gypaëtus barbatus) per nidificare prediligono le pareti rocciose scoscese.

Per Kurt Latte il nome del dio potrebbe avere un'origine etrusca sulla base dell'esistenza del nome proprio etrusco Velthurna[8].

E adesso inizia una bella bagarre. Se ammettiamo che il vento volturnus prende il nome e scende costantemente dal monte Vulture, allora saremmo costretti a spostare la battaglia di Canne laddove studi recenti l'avrebbero localizzata. Sino a non molti decenni fa si ammetteva che la sconfitta dei Romani da parte dei Cartaginesi avvenne nel 216 aC nei pressi di Barletta sul fiume Ofanto grazie anche al vento volturnus. Oggi, anche in base alla datazione dei reperti ossei umani dell'odierna Canne, parrebbe più logico spostare Canne della battaglia nei pressi di Gambatesa in provincia di Campobasso.

Di questo vento così provvidenziale per Annibale chiamato volturnus ci parla anche Tito Livio in Ab urbe condita a proposito della battaglia di Canne quando Annibale sconfisse in modo clamoroso i Romani:

[XXII,43] Prope eum vicum [Cannas] Hannibal castra posuerat aversa a Volturno vento, qui campis torridis siccitate nubes pulveris vehit. Id cum ipsis castris percommodum fuit, tum salutare praecipue futurum erat cum aciem dirigerent, ipsi aversi terga tantum adflante vento in occaecatum pulvere offuso hostem pugnaturi.
Presso questo borgo aveva Annibale posto il campo, con le spalle al vento Volturno che in quelle campagne arse dalla siccità porta nubi di polvere. E tale disposizione, buona per gli alloggiamenti, doveva essere sommamente propizia quando si sarebbero schierati a battaglia, giacché così, soffiando il vento soltanto da tergo, avrebbero combattuto rivolti alla parte opposta contro il nemico accecato dalla polvere.

[XXII,46] Sol seu de industria ita locatis seu quod forte ita stetere peropportune utrique parti obliquus erat Romanis in meridiem, Poenis in septentrionem versis; ventus -Volturnum regionis incolae vocant - adversus Romanis coortus multo pulvere in ipsa ora volvendo prospectum ademit.
Il sole, o perché si fossero così disposti di deliberato proposito o fosse caso, batteva l’una e l'altra parte, molto opportunamente, di fianco, essendo i Romani vòlti a mezzogiorno, i Pùnici verso settentrione. Il vento (gli abitanti del luogo lo chiamano Volturno), soffiando in faccia ai Romani, toglieva a essi la vista spingendo loro gran polvere in pieno viso.

Della stessa battaglia e dello stesso vento ci parla anche Appiano di Alessandria in Storia romana VII,20. Però lui non chiama il vento volturnus, bensì euro, per cui è chiaro che sono equivalenti e che spiravano dalla stessa direzione:

Annibale considerando primieramente come sul mezzo giorno spirava per ordinario in quei luoghi un euro procelloso, prese un tal verso ove alle spalle gli fosse quel vento. Di poi su per un monte arborato e vallicoso mise in agguato soldati leggieri e a cavallo, con ordine che venuti gli eserciti alle mani, e sorto il vento, uscissero alle spalle dei nemici.

Allora decido di associarmi all'Ingegner Giuseppe De Marco che nel suo sito relativo all'esatta localizzazione della battaglia di Canne fornisce una documentazione direi inoppugnabile. Così in data 3 maggio 2007 gli spedisco la seguente e-mail rimasta senza riscontro.


Egregio Ingegner De Marco,

Grazie alla sua meravigliosa ricerca sull'esatta localizzazione della battaglia di Canne ho potuto concludere la mia indagine correlata a questa storico evento. Infatti desideravo sapere come mai i latini chiamassero volturnus il vento che gettò polvere negli occhi ai Romani facilitando così la vittoria di Annibale.

Questa ricerca etimologica è collegata a quella della partenogenesi delle avvoltoie (vultures) che si facevano ingravidare da due venti: da Noto oppure da Euro.

L'enciclopedia Treccani dice che il vento volturnus spirava da est-nordest (greco levante) e non ne fornisce l'etimologia. Aggiunge che in latino era detto anche caecias, kaikías in greco.

Il dizionario di latino di Calonghi afferma invece che volturnus era un vento di sudest (scirocco) così chiamato dal monte Voltur o Vultur presso Venosa (oggi Vulture).

Vista la disposizione degli eserciti - quello romano rivolto a est e quello cartaginese a ovest - e visto che il vento volturnus di Livio accecava i Romani con la polvere, allora mi sono detto che era impossibile che  siffatto vento prendesse origine dal monte Vulture se Canne si trovava presso Barletta, in quanto il volturnus sarebbe stato un vento di sudovest e non di sudest, dal momento che il monte Volturno si trova a sudovest di Barletta.

La sua deduzione di localizzare la battaglia di Canne nella zona di Gambatesa in provincia di Campobasso (41° 31' N - 14° 59' E) ci sta benissimo col fatto che il vento volturnus potesse prendere il nome dal monte Voltur situato appunto a sudest di Gambatesa, che ne dista però 86 km in linea d'aria, con interposizioni montuose.

La localizzazione di Canne a Gambatesa mi fa sorgere tuttavia un dubbio etimologico che mi tornerebbe assai utile: magari il vento volturnus prendeva tale nome in quanto spirava sì da sudest, ma in quanto proveniva da Volturino o da Volturara Appula e non dal lontano monte Vulture.

La conferma che il vento volturnus di Livio provenisse da sudest l'abbiamo da Appiano Alessandrino che parla della presenza in quei luoghi di un euro procelloso. Un euro la cui direzione, grado più grado meno, equivale a quella del volturnus.

Quindi chiaramente la Treccani sbaglia.

Le sarei molto grato se potesse esprimere il suo giudizio su questa mia deduzione basata su criteri etimologici supportati dai dati geografici relativi a Volturino o a Volturara Appula, anche se assai meno corroborati dal lontano monte Vulture.

Penso che questa mia deduzione sarebbe un ulteriore dato capace di convalidare – ammesso che ce ne fosse bisogno - la sua perspicace localizzazione della battaglia di Canne sul fiume Fortore.

Io non conosco la conformazione geografica della zona di Canne sull'Ofanto. Ma siccome Appiano Alessandrino dice che Annibale "di poi su per un monte arborato e vallicoso mise in agguato soldati leggieri e a cavallo", a me pare che Canne sull'Ofanto si trova praticamente in pianura e che i monti arborati e vallicosi siano alquanto distanti.

Cordiali saluti.


E torniamo a Eliano e alle sue avvoltoie. Se Canne non era a Gambatesa sul Fortore, bensì sull'Ofanto come si è ammesso per due millenni, allora il vento si chiamava volturnus proprio perché - essendo più o meno equivalente a euro - era quello di seconda scelta nella fecondazione delle avvoltoie.

Pensa che ti ripensa, la notte porta sempre consiglio. Infatti nottetempo – e precisamente tra il 17 e il 18 maggio 2007 - il Professor Roberto Ricciardi ha avuto una bella trovata. Non si può escludere che effettivamente il vento volturnus abbia preso il nome non dalle avvoltoie sessuofobe di Eliano che ne venivano ingravidate, bensì dal monte Vulture, e che il vento sia stato così chiamato da quelle popolazioni che si trovavano a nordovest del Vulture e che quindi lo sentivano arrivare da sudest.

Altre popolazioni dislocate altrove anziché chiamare euro il vento di sudest adottarono il termine volturnus anche se per loro non originava dal Vulture. Per cui in base ai soli dati anemononomastici potremmo benissimo concedere che la battaglia di Canne si sia svolta laddove si è sempre ritenuto essersi svolta, sull'Ofanto, vicino a Barletta.

Ecco la controprova: Livio dice che Annibale vinse anche grazie al vento volturnus, Appiano Alessandrino - che scrisse in greco pur essendo romano d'adozione - dice che in quei luoghi spirava un euro procelloso. Ma, come sottolinea Seneca (Naturales quaestiones V,17,5) lo scirocco aveva un terzo nome: atabulus, che infestava l'Apulia.

Ecco allora che l'atabulus viene a corroborare l'ipotesi di Ricciardi e possiamo pensare che i Romani avessero adottato volturnus per denominare il vento di sudest anche se risiedevano, che so, in Britannia. Atabulus è rimasto relegato in Apulia e ha vinto volturnus. Per rispetto nei confronti degli Apuli, Livio e Appiano avrebbero dovuto parlare di atabulus e non di volturnus e di euro!

Da buon Apulo qual era - Lucanus an Apulus anceps – Orazio non poteva esimersi dal citare il suo atabulus, ma non per ragioni belliche. Ne parla in una satira, quella che inizia con Egressum magna me accepit Aricia Roma, e precisamente in Sermones I,5,77-81:

Incipit ex illo montis Apulia notos
ostentare mihi, quos torret Atabulus et quos
nunquam erepsemus, nisi nos vicina Trivici
villa recepisset lacrimoso non sine fumo,
udos cum foliis ramos urente camino.

Fine della bagarre
che tuttavia rimane aperta in attesa di lumi ulteriori!

 

[1] Arnobio, Adversus nationes, III, 29, 3: Ianum ... Vulturni generum, Iuturnae maritum ("Giano ... genero di Volturno, marito di Giuturna").

[2] Ad esempio Jean Bayet, La religione romana, pag. 101. Torino, Bollati Boringhieri, 1959. ISBN 8833906728.

[3] Kraft des Windes: Kurt Latte, Römische Religionsgeschichte, pag. 37, nota 5. 1960.

[4] Georges Dumézil, Feste romane, pagg. 79-84. Genova, Il Melangolo, 1989. ISBN 8870180913.

[5] Aulo Gellio, Noctes Atticae, II, 22, 10: Tertius ventus, qui ab oriente hiberno spirat - "volturnum" Romani vocant, eum plerique Graeci mixto nomine, quod inter notum et eurum sit, εὐρόνοτον appellant. – Favorino: sofista e filosofo eclettico (Arles ca. 85 dC – morto tra il 143 e il 176). Educato nella cultura greca a Marsiglia, visse lungamente a Roma sotto Traiano e Adriano, dove fu in stretto contatto con la cultura greca e fu amico di Plutarco e di Aulo Gellio. Tra i suoi molti scritti: la Varia erudizione (specie di enciclopedia in 24 libri), i Discorsi pirroniani, Sulla teologia di Omero.

[6] Lucio Giunio Moderato Columella, De re rustica, V, 5, 15: M. quidem Columella patruus meus, vir illustribus disciplinis eruditus ac diligentissimus agricola Baeticae provinciae, sub ortu Caniculae palmeis tegetibus vineas adumbrabat, quoniam plerumque dicti sideris tempore quaedam partes eius regionis sic infestantur Euro, quae incolae Volturnum appellant, ut nisi teguminibus vites opacentur, velut halitu flammeo fructus uratur.

[7] Orazio, Carmina o Odes, III, 4, 9-13: Me fabulosae Volture in Apulo | nutricis extra limina Pulliae| ludo fatigatumque somno | fronde nova puerum palumbes |texere - Un giorno favolose colombe mi protessero | con le fronde più tenere del bosco | quando bambino sull'apulo Vulture | - uscito dalla casa della nutrice Pullia -| mi addormentai spossato | dai miei giochi e dal sonno. (traduzione di Germano Zanghieri)

[8] Corpus Inscriptionum Etruscarum, 426.


Volturno campano

Volturno – in latino Volturnus o Vulturnus - è il nome di due divinità, una romana e una campana, di carattere diverso ma confusi tra loro sia nella poesia classica (ma non nelle opere scientifiche latine), sia nei vecchi studi di filologia classica.

Volturno campano è il dio patrono dell'omonimo fiume campano. Di questa divinità resta la testimonianza di una protome d'arco proveniente dall'anfiteatro di Capua. Volturnum era anche l'antico nome della città di Capua e secondo il linguista Massimo Pittau (Dizionario della lingua etrusca, alla voce "Velthurna", Sassari, 2005) avrebbe un'origine etrusca. Secondo l'etruscologo Giulio Mauro Facchetti, il nome della città - e quindi del dio-fiume - si riferirebbe al falco avvistato il giorno della fondazione e interpretato come segno divino di buon auspicio.

Vediamo le varie interpretazioni etimologiche di Capua e Volturnum nonché di Volterra tratte dal Dizionario di toponomastica (UTET, Torino, 1990).

Capua - città attribuita agli Etruschi, l’antica Capua, in greco Καπύη, derivava il suo nome secondo le fonti latine da ben quattro diverse etimologie (qui citate da Montella 1986, 36-37):

1) Capua, a campo dicta, in relazione con campus e Campania.

2) Capua, a capite dicta, in quanto considerata dagli Etruschi la capitale delle loro colonie in Campania.

3) Capua, a Capye adpellata, dal nome del conquistatore sannita che nel 423 si era impadronito della città etrusca.

4) Capua «a Tuscis condita... viso falconis augurio, qui Tusca lingua capys dicitur nominata» (Servio ad Aen. X, 145) da un etrusco capys equivalente del latino falco, soprannome dato al fondatore di Capua per la formazione ricurva degh alluci, oppure dal falcone levatosi in volo al momento della fondazione della città e dall'interpretazione augurale del fatto da parte degli aruspici.

Tra queste ipotesi, si ritiene probabile una derivazione di Capua da capys, il nome etrusco del falco (il falco delle paludi che doveva essere caratteristico di quella zona acquitrinosa: Alessio 1958, 33). È importante in particolare, a sostegno di questo etimo, la attestazione di Livio IV,37: «Vulturnum Etruscorum urbem, quae nunc Capua est».

Elio Corti dissente dal Dizionario di toponomastica della UTET. Infatti Livio dice che è più verosimile che Capua abbia tratto il nome dai campi che la circondavano – [...] ab Samnitibus captam, Capuamque ab duce eorum Capye vel, quod propius vero est, a campestri agro appellatam. Evviva le citazioni incomplete!!!

Dunque Capua sarebbe stata chiamata prima Vulturnum, adattamento del nome anch’esso etrusco che è stato analizzato come designante la città sacra a Velthur, l’uccello augurale, connesso alla divinità etrusca Velthurna, passato in latino nella forma voltur (e vultur) che indica un uccello rapace, l’avvoltoio; all’origine si riconoscerebbe una base aggettivale vel-, attribuita all’etrusco, con il valore di ‘elevato’.

A Vulturnum (o Volturnum) è legato chiaramente l’idronimo Volturnus ora Volturno, secondo un fenomeno diffuso di identità onomastica tra fiume e città. Le fonti antiche informano che Capua aveva altri nomi: Casilinum ed Aliternum. Il primo in rapporto con Casilinus, il secondo con Liternus, entrambi idronimi e antichi nomi del Volturnus (Silvestri 1986, 75). - C. M.

Volterra - Il toponimo è etrusco ed è attestato nei testi etruschi nelle forme velithri (e velthrina è il gentilizio), velthrite, velathri (cit. da Pellegrini 1978, 116), adattato in latino come Volaterrae, con l’etnico Volaterrani (cfr. Livio XXVIII, 45, Plinio Nat. Hist. III, 52 ecc.), alla base della variante odierna. Nel toponimo s’individua l'elemento vel-, ricorrente nei nomi locali etruschi, cui è assegnato il significato di ‘altura’. - C. M.

Direttamente da vultur (avvoltoio) e non da vel- (elevato, altura) derivano i seguenti odierni toponimi: Volturara Appula (FG – Appula = in Apulia), Volturara Irpina (AV), Volturino (FG), Vulture (il monte in provincia di Potenza).

Servio In Vergilii carmina comentarii X,145: Et capys hinc nomen campanae ducitur urbi iste quidem dicit a Capy dictam Campaniam. Sed Livius vult a locis campestribus dictam, in quibus sita est. Sed constat eam a Tuscis conditam viso falconis augurio, qui Tusca lingua capys dicitur, unde est Campania nominata. Tuscos autem omnem paene Italiam subiugasse manifestum est. Hinc nomen campanae ducitur urbi iste quidem hoc dicit, sicut Ovidius, qui Capyn de Troianis esse commemorat ille dedit Capyi repetita vocabula Troiae, Coeliusque Troianum Capyn condidisse Capuam tradidit eumque Aeneae fuisse sobrinum. Alii Campum Samnitem condidisse Capuam confirmant. Sed Capuam vult Livius a locis campestribus dictam, in quibus sita est. Alii a Capy Atyis filio, Capeti patre, tradunt. Alii hunc Capyn filium Capeti volunt esse, Tiberini avum, ex quo fluvius Tiberis appellatus est, eumque Capuae conditorem produnt. Constat tamen eam a Tuscis conditam de viso falconis augurio, qui Tusca lingua capys dicitur: unde est Capua nominata. Tuscos autem aliquando omnem Italiam subiugasse manifestum est. Alii a Tuscis quidem retentam et prius Vulturnum vocatam: Tuscos a Samnitibus exactos Capuam vocasse ob hoc quod hanc quidam Falco condidisset, cui pollices pedum curvi fuerunt quem ad modum falcones aves habent, quos viros Tusci capyas vocarunt. Varro dicit propter caeli temperiem et caespitis fecunditatem campum eundem Capuanum cratera dictum quasi sinum salutis et fructuum.

Livio Ab urbe condita IV,37: Creati consules sunt C. Sempronius Atratinus Q. Fabius Vibulanus. Peregrina res, sed memoria digna traditur eo anno facta, Vulturnum, Etruscorum urbem, quae nunc Capua est, ab Samnitibus captam, Capuamque ab duce eorum Capye vel, quod propius vero est, a campestri agro appellatam.

Quando Annibale, vittorioso a Canne, minacciò Roma, Capua si diede al cartaginese (216 aC) che vi soggiornò con le sue truppe per ben due anni: gli ozi di Capua. Nel 211 aC Roma fece pagare duramente il tradimento alla città, distruggendola dopo un lungo assedio, mentre gli abitanti furono dispersi in villaggi.

Il poeta Stazio (Silvae, IV,3 Via Domitiana 67-71: At flavum caput umidumque late | crinem mollibus impeditus ulvis | Vulturnus levat ora maximoque | pontis Caesarei reclinus arcu | raucis talia faucibus redundat:[...]) descrive la statua del dio collocata sul ponte costruito da Domiziano sul fiume Volturno: lo rappresentava sdraiato come a un banchetto con in testa una corona di erbe palustri intrecciate. Il poeta immagina che il dio-fiume si lamenti con voce roca del peso delle arcate del ponte, rimpiangendo il lieve peso delle zattere che solcavano le sue acque.

Anche altri poeti latini cantarono il dio-fiume Volturno: Lucano (Pharsalia, II, 422-4: Delabitur inde | Vulturnusque celer nocturnaeque editor aurae | Sarnus) e Silio Italico (Punica, VIII, 527-8: Sinuessa tepens fluctuque sonorum | Vulturnum).

Fiume Volturno

Il Volturno, con una lunghezza di 175 km e un bacino esteso per 5.550 kmq, è il principale fiume dell'Italia meridionale. Nasce dai monti della Meta, la parte più meridionale dell'Appennino Abruzzese, e presso Castel San Vincenzo riceve le acque provenienti dalla sorgente Capo Volturno (circa 500 m. di quota, considerata comunemente l'origine del fiume).

Subito ricco di acque, bagna Cerro al Volturno ricevendo da sinistra il Rio dell'Omero. Da qui assume direzione verso Sud bagnando Colli a Volturno e ricevendo molti altri piccoli tributari che ne accrescono sensibilmente la portata: da sinistra il fiume Cavaliere, da destra il Rio Chiaro e il Rio la Rava. Presso la località Ponte 25 Archi il fiume scorre sul confine tra le regioni Molise e Campania entrando definitivamente in territorio campano presso Sesto Campano.

Allargando notevolmente il proprio letto prende poi a scorrere con andamento sinuoso. Qui riceve da sinistra il fiume Lete, il torrente l'Aduento e il torrente Titerno e da destra il Rivo Tella. Raggiunge poi il centro di Amorosi dove si arricchisce notevolmente nella portata grazie al fiume Calore Irpino, suo principale affluente di sinistra.

Da qui assume un carattere più regolare scorrendo lento e con andamento meandriforme. Presso Limatola riceve da sinistra un ultimo tributario, il fiume Isclero, dopodiché entra nella piana di Capua bagnando la città omonima scorrendo fino allo sbocco sulla costa tirrenica che avviene presso Castel Volturno.

Il fiume ha una portata media elevata e abbastanza regolare di 82 mc/sec, il valore più alto dei fiumi del Mezzogiorno (escludendo i 120 mc/sec del Liri-Garigliano che, pur scorrendo nel tratto finale nella zona di confine tra Campania e Lazio, non può essere considerato fiume del Mezzogiorno in quanto per gran parte compreso nel Lazio e quindi nel centro-Italia.

Il regime del Volturno può tuttavia subire in caso di abbondanti piogge invernali, brusche impennate di portata superiori anche ai 2.500 mc/s, soglia oltre la quale può dar luogo a estese inondazioni, tuttavia non molto frequenti. Le sue acque sono impiegate per la pesca, l'irrigazione, la nautica sportiva e la produzione di energia idroelettrica. La principale località attraversata è la città di Capua, anticamente attrezzata con un porto fluviale che la metteva in comunicazione con il Mar Tirreno e le altre città della costa.

Durante l'invasione piemontese per l'unificazione italiana, nel 1860  fu teatro della Battaglia del Volturno combattuta tra i garibaldini e l'esercito di Francesco II. Durante la Seconda Guerra Mondiale fu teatro di scontro tra reparti corazzati americani e le truppe tedesche, successivamente attestatesi sulla linea difensiva Gustav.

La battaglia del Volturno

Il fiume Volturno, il maggiore per lunghezza e per estensione del bacino dell’Italia meridionale, nel 1860 fu teatro della decisiva battaglia che portò Garibaldi alla conquista del Regno di Napoli. Il dettagliato resoconto dello scontro centrale della spedizione dei Mille è narrato nel brano che segue, tratto dalla Guida Rossa Campania del Touring Club Italiano.

Per la sua posizione il Volturno ha avuto importanza militare in ogni epoca: sulle sue rive il 6-7 gennaio del 1799 le truppe francesi del generale Championnet sconfissero quelle napoletane comandate dal generale Mack; il 1° e 2 ottobre del 1860 vi si svolse la celebre battaglia del Volturno, che fu la più importante di quelle combattute da Garibaldi. Anche dopo l’occupazione di Napoli da parte delle truppe garibaldine, al re Francesco II rimanevano grandi forze: tra Capua e Gaeta erano schierati circa 40.000 uomini appoggiati a Capua e alla valida linea del Volturno. Garibaldi dovette tornare momentaneamente in Sicilia e in sua assenza il Türr occupò il 19 settembre Caiazzo, al di là del fiume, ma assalito da forze superiori di quattro volte, dovette abbandonare la posizione con gravi perdite, nonostante gli aiuti che Garibaldi, di ritorno, gli aveva inviati. L’eroe dei due mondi decise di tenersi sulla difensiva: un’impresa però difficile data l’esiguità delle forze a sua disposizione, l’estensione del terreno e il fatto di aver la fronte verso un fiume molto tortuoso e insidioso.

Il generale, conscio di queste difficoltà, dispose i suoi 21.000 uomini nel modo seguente: la divisione Consez, di 4000 uomini, comandata dal Milbitz, a sinistra, tra San Tammaro e Santa Maria; la divisione Medici (4000 soldati), al centro, a Sant’Angelo in Formis; la brigata Sacchi di 2000 uomini, a San Leucio; il battaglione di Pilade Bronzetti (270 uomini) a Castel Morrone; la divisione Bixio (5600 soldati), a Ponte della Valle e a Maddaloni; la piccola brigata Corti a guardia della strada di Aversa; la riserva (4700 uomini), sotto il comando del Türr, a Caserta.

Il comandante in capo borbonico, generale Ritucci, che intendeva attaccare l’intera linea garibaldina puntando maggiormente su Santa Maria e Maddaloni per aprirsi la via di Napoli, dispose così le sue forze: il generale Tabacchi con 7000 uomini, contro Santa Maria, fiancheggiato a destra dalla brigata Sergardi (3000 soldati), che doveva puntare su Támmaro; il generale Afán de Rivera (10.000 uomini) contro Sant’Angelo, con l’appoggio del generale Colonna (5000 unità); il colonnello Perrone, con 1200 soldati e una riserva di 3000 a Caiazzo, contro Limátola e Castelmorrone; Von Mechel, con 8000 uomini, contro Ponti della Valle.

All’alba del 1° ottobre i Borbonici attaccarono da Santa Maria a Sant’Angelo; Garibaldi fece accorrere la brigata Assanti da Caserta a Santa Maria, per appoggiare il Milbitz, e partì per Sant’Angelo. Durante il percorso il generale fu assalito dai Borbonici, ebbe il cocchiere e un cavallo della carrozza uccisi e fu salvato da una carica dei genovesi di Mosto e dei lombardi di Simonetta; poi dovette sventare un altro accerchiamento del nemico prima della meta. Giunto a Sant’Angelo, abbracciò il quadro intero della battaglia, le cui sorti apparivano sfavorevoli ai garibaldini. L’eroe allora si portò a Santa Maria e ordinò al Sirtori d’inviare là le riserve, che giunsero alle 14; poco dopo il Türr, con parte della brigata Eber, portò aiuto al Milbitz e allo stesso Garibaldi e col resto della brigata Eber e con la brigata Milano attaccò il nemico sulla strada Santa Maria–Sant’Angelo per recar soccorso al Medici.

Alle 17 le posizioni garibaldine erano reintegrate: il Türr e il Rustow, essendo rimasto ferito il Milbitz, cacciavano i Borbonici del generale Tabacchi fin sotto le mura di Capua; il Medici riprendeva saldamente il quadrivio di Sant’Angelo; il sacrificio di Pilade Bronzetti e dei suoi uomini tratteneva a Castelmorrone l’avanzata del colonnello Perrone; il Bixio ricacciava Von Mechel fino a Dugenta.

All’alba del giorno 2 il Perrone, forse ignorando la ritirata del resto dell’esercito borbonico, si mise in marcia verso Caserta; Garibaldi, ch’era a Sant’Angelo, avvertito della minaccia, corse a Caserta e dispose così le forze da opporre al nemico: il Sirtori, con una parte della brigata Assanti e un battaglione di bersaglieri venuti da Napoli, a difesa della città; Garibaldi a sinistra con un manipolo di carabinieri genovesi, parte della brigata Spangaro e un battaglione della brigata Re dell’esercito regolare; a destra il Bixio. Il colonnello Perrone raggiunse con l’avanguardia le prime case di Caserta, ma il movimento predisposto per l’accerchiamento ne determinò la sconfitta. Le perdite dei garibaldini furono di circa 500 morti e 1300 feriti; i Borbonici ebbero 3000 prigionieri, mentre è ignoto il numero dei morti e dei feriti.

Guida d’Italia. Campania, Touring Club Italiano, Milano 1981.


Volturno apulo - Monte Vulture

Apulia

L'Apulia è una regione storica dell'Italia meridionale il cui nome deriva da quello dell'antica popolazione degli Apuli. Si estendeva su buona parte dell'attuale Puglia ed era limitata dal Mar Adriatico a NE, dal corso del fiume Biferno a NW, dai monti della Campania a SW, dal corso del fiume Bradano e dal golfo di Taranto a S e dalla base della Penisola Salentina (chiamata, in età classica, Calabria) a SE, con la quale costituì, nella divisione amministrativa augustea, la II regione, denominata appunto Apulia e Calabria.

Monte Vulture

Il Vulture è un gruppo montuoso d'origine vulcanica della Basilicata nord-occidentale in provincia di Potenza, presso il confine con la Campania e la Puglia. L'apparato vulcanico, che ha una superficie di 27 kmq, è molto simile per forma e costruzione al Vesuvio e all'edificio pure vulcanico di Roccamonfina in provincia di Caserta. Entro la cerchia più ampia, che culmina nel monte Pizzuto di Melfi (1326 m), si innalza un cono di età più recente (Pizzuto di San Michele, 1262 m) nel cui cratere si aprono i due laghetti di Monticchio. Numerose le sorgenti minerali nella zona e rilevante la sismicità.

Si tratta di un vulcano spento fin dall’epoca preistorica. Ha un aspetto maestoso, le sue vette sono coperte da fitti boschi, abitati da numerose specie di animali – tassi, scoiattoli, lontre, istrici, volpi, tartarughe – e nei suoi dintorni sorgono paesi ricchi di storia. Per questi motivi è una delle aree turistiche più importanti della Basilicata. Le caratteristiche storiche e ambientali della zona sono raccontate nel brano seguente, tratto dal volume Basilicata e Calabria delle Guide Rosse del Touring Club Italiano.

Etimologia di Vulture - Secondo alcuni il monte Vulture ha assunto questo nome dalla forma conica aperta che ricorda l’apertura alare di un volatile, per cui sarebbe stato paragonato a un avvoltoio. È lecito e spontaneo chiedersi: E perché non a un'aquila? Se proprio vogliamo suffragare un'etimologia unicamente ornitologica, a mio giudizio l'origine del toponimo sarebbe da ravvisare nel fatto che l'interno del vulcano e gran parte delle vette sono rivestiti da una ricca vegetazione arborea che in passato offriva senz'altro ampie possibilità di nidificare a due precise specie di avvoltoio, quelle note ad Aristotele: il capovaccaio (Neophron percnopterus) e l'avvoltoio monaco (Aegypius monachus), che ai dirupi preferiscono gli alberi. Invece il grifone (Gyps fulvus) e l'avvoltoio degli agnelli (Gypaëtus barbatus) per nidificare prediligono le pareti rocciose scoscese.

Il territorio del Vulture costituisce una delle unità subregionali meglio individuate della Basilicata, identificata all’incirca con la cosiddetta regione melfese: essa comprende il territorio dei comuni di Atella, Barile, Lavello, Maschito, Melfi, Montemilone, Rapolla, Rionero in Vulture, Ripacandida, Ruvo del Monte e Venosa dove nacque il poeta Orazio. L’intera plaga su cui domina l’antico vulcano rappresenta una delle principali attrattive turistiche della Basilicata per il pittoresco aspetto dei paesi, per l’austera bellezza del vulcano, per il suggestivo paesaggio, caratterizzato dalle foreste e dagli stupendi laghi di Monticchio, e infine per alcuni centri ricchi di storia e di arte.

Vulcano spento dall’epoca preistorica, il Vulture è a caldera, o a recinto, costituito da una grande cerchia esterna, in gran parte distrutta verso ovest, nel cui seno si leva un cono minore racchiudente un cratere distoma, ora occupato dai due laghi di Monticchio. La cerchia esterna si eleva con due vette, il Vulture propriamente detto o Pizzuto di Melfi, 1326 metri, e il Pizzuto di San Michele o semplicemente San Michele, 1262 metri. L’aspetto del monte varia in maniera molto notevole, a seconda dei punti da cui lo si osserva: dal Tavoliere e dalle Murge richiama l’occhio per la sua caratteristica forma conica e per l'altezza. Osservato da vicino, da Melfi, Rionero o Atella, si presenta molto maestoso.

Col materiale eruttivo il Vulture ha sbarrato il corso delle acque, dando origine agli antichi laghi della Valle di Vitalba e di Venosa, poi svuotatisi. A testimoniare l’esistenza di questi antichi specchi d’acqua rimangono sedimenti conglomerati vulcanici, ricchi di conchiglie lacustri e di ossa di ippopotami e di elefanti vissuti in questa zona in epoca preistorica. Numerosi sono i manufatti litici rinvenuti. I materiali eruttivi, sparsi fino oltre 25 chilometri dal cratere, sono costituiti prevalentemente da leucite e contengono un minerale caratteristico, l’haüyna (appartenente al gruppo dei feldspatoidi, silicato di calcio e sodio). Nelle falde esterne del vulcano si riconoscono focolai eruttivi secondari come il Toppo San Paolo e la collina di Melfi.

La zona del Vulture ha sempre rivestito un particolare interesse antropogeografico: fittamente abitata in età preromana, in seguito vi fiorirono le città di Venusia, Acheruntia, Bantia; più tardi divenne uno dei primi centri della conquista normanna ed ebbe una posizione importante anche al tempo degli Svevi, quando vi sorsero numerosi castelli (più importanti tra tutti quelli di Lagopésole e di Melfi). Sotto gli Angioini la regione del Vulture fu assegnata da Giovanna II nel 1420 a Gianni Caracciolo; gli Aragonesi diedero Venosa ai Del Balzo. Il paese fu devastato dalle truppe del Lautrec e nel 1528 Melfi venne saccheggiata e incendiata. Dopo il 1860 il Vulture fu al centro di un vasto movimento legittimista, degenerato nel brigantaggio, che ebbe tra i maggiori esponenti Carmine Crocco.

In virtù dei materiali vulcanici, la regione è molto fertile. L’interno del vulcano e gran parte delle vette sono rivestiti dal bosco di Monticchio, formato da faggi, querce di diverse specie, castagni, tigli, aceri, carpini, olmi, frassini, pioppi, ontani. Vi si contarono 977 specie di piante, tra cui notevoli il sommaco, la robbia, il rabarbaro, il rabarbaro bastardo (Rumex alpinus), la valeriana. La fauna è rappresentata da tassi, puzzole, donnole, faine, martore, scoiattoli, ghiri, istrici, lepri, lontre, volpi, tartarughe, numerose specie di uccelli.

I fenomeni vulcanici si riducono ai terremoti (gravissimi quelli del 1851 e del 1930) e all’esistenza di acque minerali (le più note sono quelle di Monticchio), acidule o acidulo-ferruginose; fa eccezione quella sulfurea presso la Taverna della Rendina. La montagna abbonda di sorgenti, in media tra i 400 e i 600 metri: ve ne sono però di molto più elevate: la fontana dei Giumentari sgorga a 1049 metri, mentre le sorgenti di Rionero sono quasi a livello del fondo dei laghi. Nel versante sud-orientale, in contrada la Francesca, sgorgano sorgenti di acqua minerale con emanazione di anidride carbonica, utilizzate in alcuni stabilimenti, soprattutto a Rapolla e nei suoi dintorni.

Guida d’Italia. Basilicata e Calabria, Touring Club Italiano, Milano 1980.


Etimologia di avvoltoio

Avvoltoio in latino suona vultur, da ricondurre con ogni probabilità alla radice indoeuropea *wel- (strappare, predare) del verbo latino vellere che significa appunto staccare, strappare, lacerare: l'avvoltoio ha l'abitudine di strappare la carne dei cadaveri. Ed è logico, perché, se fosse dotato anche di denti, mentre la strappa la masticherebbe pure.

Possibile è l'origine etrusca del vocabolo vultur: nella lingua augurale vultur è l'uccello del dio Vel, detto Volturnus deus dai Romani, Velthurna per gli Etruschi.

Vel lo troviamo anche a proposito dell'etimologia di Capua quando si chiamava Vulturnum, in quanto questo toponimo designava la città sacra a Velthur, l'uccello augurale, connesso alla divinità etrusca Velthurna, passato in latino nella forma voltur (e vultur) che indica un uccello rapace, l’avvoltoio. All'origine del vocabolo ci sarebbe una base aggettivale vel- attribuita all’etrusco, con il valore di ‘elevato’. Forse perché gli avvoltoi continuano a girare alti in cielo per individuare i cadaveri? Penso di sì. Sta di fatto che anche Volterra (Volaterrae in latino), importante centro etrusco in provincia di Pisa a 531 m di altitudine tra le alte valli dei fiumi Era e Cecina, riconosce la stessa etimologia del campano Vulturnum: nel toponimo Volaterrae s’individua l'elemento vel- ricorrente nei nomi locali etruschi, cui è assegnato il significato di ‘altura’. E Volterra si trova in alto. E vi assicuro che vale la pena farci una capatina di almeno 24 ore, come la mia del 1982 che mi ha insegnato parecchie cose.

La forma italiana avoltore, attestata nel 1294 in Brunetto Latini, continua invece il latino parlato voltor equivalente al classico vultur. Meno chiara l'origine della sillaba iniziale av-: il Dizionario etimologico italiano di Battisti & Alessio pensa a un influsso del latino acceptor (falco, sparviero), Giacomo Devoto in Avviamento alla etimologia italiana pensa ad avis (uccello), mentre Moritz Regula pensa a una sovrapposizione di *advolitor = colui che volando si avventa su qualcosa.

Non possiamo estromettere da questa baraonda etimologica Sant'Isidoro di Siviglia (ca. 560-636). In Etymologiae XII,7,12 afferma che il termine vultur deriva dal fatto che quest'uccello vola lentamente a causa della mole corporea – a volatu tardo – e nel contempo Isidoro non può tralasciare la partenogenesi delle avvoltoie, smentita 600 anni più tardi dal suo collega Sant'Alberto Magno:

Vultur a volatu tardo nominata putatur: magnitudine quippe corporis praepetes volatus non habet. Harum quasdam dicunt concubitu non misceri, et sine copula concipere et generare; natosque earum paene usque ad centum annos procedere. Vultures autem, sicut et aquilae, etiam ultra maria cadavera sentiunt; altius quippe volantes multa, quae montium obscuritate celantur, ex alto illae conspiciunt.

Direttamente da vultur (avvoltoio) e non da vel- (elevato, altura) derivano i seguenti odierni toponimi: Volturara Appula (FG – Appula = in Apulia), Volturara Irpina (AV), Volturino (FG), Vulture (il monte in provincia di Potenza).


Gli avvoltoi del Mediterraneo
Avvoltoi del Vecchio Mondo

Avvoltoio è il nome comune di alcuni uccelli dell’ordine dei Falconiformi che si nutrono di carogne, detti perciò saprofagi. Gli avvoltoi si suddividono in due gruppi:

- avvoltoi del Vecchio Mondo che compongono, con altri rapaci, la famiglia Accipitridi, i quali probabilmente discendono da uccelli simili all'aquila

- avvoltoi del Nuovo Mondo che costituiscono la famiglia Catartidi e che, nonostante la loro somiglianza con i grandi rapaci, dal punto di vista filogenetico sono più vicini ai Ciconiiformi, coi quali condividono numerose caratteristiche anatomiche e comportamentali.

Quasi tutti gli avvoltoi sono uccelli di grandi dimensioni, con becco a uncino e per lo più con testa implume. Si nutrono quasi esclusivamente di carogne e di rado attaccano gli animali giovani o feriti. La maggior parte di essi individua le prede grazie all’acutezza visiva. Alcuni avvoltoi americani possono contare anche su un olfatto molto sviluppato. Le specie americane differiscono da quelle euroasiatiche anche per la struttura delle narici e l'assenza del siringe, l’organo vocale.

Le specie africane sono quelle che compaiono più spesso nei documentari naturalistici e dunque le più note. Esistono tuttavia altre specie di avvoltoi altrettanto interessanti diffuse in Asia e in Europa meridionale. In base a osservazioni compiute in Africa accanto alle carcasse di animali uccisi dai leoni, sembra che negli stormi misti, formati da diverse specie di avvoltoi, esista una gerarchia definita, per cui le specie più piccole, come il capovaccaio (Neophron percnopterus), non possono iniziare a nutrirsi prima che le specie più grandi e forti, come l'avvoltoio sparviero o avvoltoio di Rüppell (Gyps Rueppelli), non abbiano terminato il loro pasto. Il gipeto (Gypaëtus barbatus) ha piume sul capo e sul collo e si nutre di ossa. Il grifone (Gyps fulvus) è un avvoltoio europeo molto diffuso; nidifica in anfratti e caverne praticamente inaccessibili e solamente le popolazioni più settentrionali in autunno migrano verso sud.

Gli avvoltoi di Aristotele
da notare che Aristotele non parla dell'avvoltoio in de Generatione animalium

Historia animalium

VI,5 563a: L’avvoltoio nidifica su rocce inaccessibili, perciò è raro vedere il nido e i piccoli di questo uccello. E per questo Erodoro, il padre del sofista Brisone, sostiene che gli avvoltoi vengono da un’altra terra, a noi ignota, e ne indica come segno il fatto che nessuno ha mai visto un nido di avvoltoio, e che questi uccelli compaiono d’improvviso in gran numero al seguito degli eserciti. In realtà, benché sia difficile vederne, tuttavia ne sono stati osservati. Gli avvoltoi depongono due uova. (traduzione di Mario Vegetti)

VIII,3 592a-b: Fra gli uccelli, tutti quelli che hanno artigli ricurvi sono carnivori, e anche se li si imbeccasse con del grano non [592b] potrebbero ingerirlo: così ad esempio tutti i generi delle aquile, i nibbi, entrambi i tipi di falco, il palombario e il fringuellario (essi differiscono molto tra loro per dimensioni), e la poiana, che è grande come un nibbio ed è visibile per tutto l’anno. Ancora, l’ossifraga e l’avvoltoio: l’ossifraga è più grande di un’aquila e ha colore cinereo; degli avvoltoi vi sono due specie, l’una piccola e di colore prossimo al bianco, l’altra più grande e più cinerea. (traduzione di Mario Vegetti)

IX,11: Of the vulture, it is said that no one has ever seen either its young or its nest; on this account and on the ground that all of a sudden great numbers of them will appear without any one being able to tell from whence they come, Herodorus, the father of Bryson the sophist, says that it belongs to some distant and elevated land. The reason is that the bird has its nest on inaccessible crags, and is found only in a few localities. The female lays one egg as a rule, and two at the most. (traduzione di D’Arcy Wentworth Thompson, 1910)

Numero delle uova deposte: il capovaccaio depone di solito 2 uova. L'avvoltoio monaco depone di solito un uovo, 2 al massimo. Il grifone depone un solo uovo e sarebbe quello i cui individui giovani intraprendono lunghi viaggi in cerca di cibo e che comparirebbero in luoghi a loro inabituali se guerre o epidemie hanno disseminato il suolo di cadaveri. (Filippo Capponi, 1979)

Ossifraga: dal latino ossifraga, da os ossis, osso+tema di frangere, spezzare. Macromectes giganteus: uccello della famiglia Procellaridi con tronco poderoso e apertura alare di 2,5 m. L'ossifraga ha manto brunastro con penne orlate di bianco, becco grosso e uncinato di colore giallo, zampe brevi e palmate. Abile volatrice, vive nelle regioni antartiche e subantartiche ed è considerata un uccello predatore. È anche denominata procellaria gigante.

Erodoro di Eraclea sul Ponto fu uno scrittore greco che fiorì intorno al 400 aC. Ci restano frammenti di una sua Storia di Eracle (in 17 libri), primo esempio di romanzo pragmatico in cui sono riferite notizie geografiche, scientifiche, astronomiche e mitologiche. Fu autore anche di varie altre opere mitografiche.

Brisone di Eraclea del Ponto: filosofo e matematico greco del V sec. aC, figlio di Erodoro. Ebbe come insegnante Socrate o Euclide di Megara (ca. 450-ca. 380 aC). Secondo Diogene Laerzio lo scettico Pirrone (ca. 360-ca. 270 aC)  fu suo discepolo. Con Euclide fondò la dialettica eristica (arte del disputare, cioè, arte del vincere nelle controversie riuscendo a sostenere qualsiasi tesi a prescindere da ogni criterio di verità). In matematica avrebbe definito l'area del cerchio come la media aritmetica fra l'area di un poligono iscritto e quella di un poligono circoscritto.

Scorrendo la letteratura antica attraverso A glossary of Greek birds (1895) di D’Arcy Wentworth Thompson e Ornithologia Latina (1979) di Filippo Capponi, noi Italiani dobbiamo focalizzare la nostra attenzione su 4 diversi avvoltoi, che in ordine di importanza sono i seguenti:

1 – Neophron percnopterus – Capovaccaio
2 – Aegypius monachus – Avvoltoio monaco – Avvoltoio nero
3 – Gyps fulvus – Grifone
4 – Gypaëtus barbatus – Avvoltoio degli agnelli

Neophron percnopterus
Capovaccaio

In greco neóphrøn – vocabolo assai raro - significa dal carattere giovanile e percnópteros indica le ali chiazzate di nero. È il più piccolo avvoltoio africano. Vive anche in tutta l'Europa mediterranea. In Italia è presente in Sicilia e qualche esemplare viene segnalato in Puglia. Gli uccelli giovani hanno il piumaggio inizialmente ocra, un po' maculato, che diventa sempre più bianco a ogni muta. Il piumaggio adulto è bianco e diventa tale a 6 anni d'età, con punte delle remiganti nere, cosa che si nota in modo particolare durante il volo. La gola e l'area anteriore del collo presentano penne giallastre. Il capo è anteriormente privo di piume, grinzoso e giallo chiaro, come pure la base del becco che è stretta e ha la punta nera. Le zampe sono giallo chiaro come il becco. L'iride è di colore brunastro. La coda è di forma conica. Il capovaccaio ha un'altezza è di 60-70 cm e un peso 1,5-2,2 kg. L'ampiezza alare giunge fino a 165 cm. Generalmente è silenzioso.

In alcuni Paesi dell'Africa il capovaccaio frequenta gli insediamenti umani e consumando una buona quantità di rifiuti urbani svolge un ruolo di spazzino generico. In passato era chiamato gallina del Faraone e nell’alfabeto geroglifico equivaleva alla lettera A. Si assembra soprattutto presso le sedi dei mattatoi, dove il becco relativamente sottile gli permette di utilizzare i minuti brandelli di carne che restano attaccati alle ossa avanzo di macellazione e, talvolta, si associa ai contadini nei campi, nutrendosi degli insetti disturbati dal loro lavoro. È dunque una sorta di commensale dell'uomo, al quale dona servigi e non procura noie.

Di taglia relativamente piccola, ha un carico alare assai modesto che gli consente di sfruttare le correnti ascensionali molto leggere del mattino. Di conseguenza è uno dei primi avvoltoi a mettersi in volo durante il giorno e quasi sempre anche uno dei primi a scoprire gli avanzi del pasto di qualche predatore. Il volo a grandi spire si trasforma allora in un volo diretto alla carcassa e questo improvviso cambiamento ha ormai acquisito un significato di segnale per gli altri avvoltoi che immediatamente si dirigono al luogo su cui il capovaccaio converge.

Gli altri avvoltoi sono in genere più grandi e capaci di allontanare il capovaccaio dalla carcassa, ma il loro intervento non è in genere dannoso a questo uccello; infatti, se la carcassa è ancora relativamente sana, il capovaccaio non è di solito in grado di nutrirsene e deve aspettare necessariamente che gli avvoltoi più grandi e più forti la smembrino. Al termine anch'esso avrà la sua parte: in genere i brandelli più sottili trascurati dagli altri. In altre parole il capovaccaio costituisce con gli altri avvoltoi un'associazione interspecifica reciprocamente vantaggiosa.

Sebbene ci si possa imbattere in raggruppamenti numerosi di capovaccaio, non può essere considerato comunque un animale sociale: infatti sia in città che nei luoghi selvaggi tali raggruppamenti sono semplici aggregazioni dovute all'assembramento presso i luoghi di alimentazione. Al di là di questi casi, la convivenza sociale riguarda solo le coppie, che sono stabili e vivono alquanto separate le une dalle altre. Nella fascia tropicale il capovaccaio può nidificare in tutte le stagioni, ma le popolazioni africane più settentrionali alla fine dell'inverno compiono una migrazione verso nord e nidificano nell'Europa mediterranea. Il nido, costruito in genere su un grande albero, ma anche su pareti rocciose, è un ammasso grossolano di svariati materiali che le giovani coppie spesso accumulano su un vecchio nido di altri uccelli. Le coppie anziane, invece, ravviano i nidi degli anni precedenti.

Il periodo riproduttivo va da febbraio a maggio; la covata si compone di due uova dal guscio bianco-giallo coperto di macchie color ruggine incubate per circa 45 giorni dalla femmina, alla quale il maschio, che in questo periodo nutre la compagna sul nido, può dare occasionalmente il cambio. A circa quattro mesi d'età i pulcini completano il piumaggio e compiono il primo volo.

Aegypius monachus
Avvoltoio monaco – Avvoltoio nero

Johann Friedrich Naumann (1780-1857)
Naturgeschichte der Vögel Mitteleuropas - 1905

Aegypius potrebbe derivare dalla fusione di termini greci: aíx = capra oppure oîs = pecora e gýps = avvoltoio. Monachós è colui che vive da solo, quindi un solitario. Diffuso nelle regioni mediterranee e in quelle asiatiche centrali e occidentali, un tempo l'avvoltoio monaco era piuttosto frequente in Sardegna e Sicilia, ma oggi è quasi scomparso dal territorio italiano.

Generalmente frequenta montagne e pianure desolate ed è assai resistente al freddo. Sebbene si sia perfettamente adattato alla vita in ambienti semidesertici, preferisce costruire il nido sugli alberi, cosa che gli diventa impossibile se vive sino a 4500 di altitudine nella steppa tibetana. La femmina depone di solito un uovo, due al massimo. Il guscio è bianco, talvolta coperto di piccole macchie rossicce. Il periodo della riproduzione va da febbraio ad aprile

Si distingue dalle aquile per le grandi dimensioni e per le ali molto lunghe e si differenzia dal somigliante grifone per la coda più lunga e più arrotondata nonché per il capo e il becco più grossi e il piumaggio molto più scuro. Il collare è bruno scuro negli immaturi, ma diventa più chiaro con il tempo. Benché spesso si unisca al grifone per divorare carogne, generalmente è più solitario. È lungo fino a 110-120 cm con un'apertura alare di 2,5-3 metri. Il peso si aggira sugli 8-14 kg. Abitualmente è silenzioso.

Un tempo l'areale di questa specie si estendeva dalla Spagna al Tibet. Per quanto numericamente in diminuzione, l'Aegypius monachus continua a nidificare in Spagna, Bulgaria, Grecia, Turchia, Armenia, Azerbaijan, Georgia, Ucraina, Russia, Uzbekistan, Kazakhstan, Tajikistan, Turkmenistan, Kirghizistan, Iran, Afghanistan, India settentrionale, Pakistan settentrionale, Mongolia e Cina. Una piccola popolazione è stata recentemente reintrodotta in Francia. Segnalazioni di occasionali nidificazioni sono state fatte in Portogallo, Macedonia e Albania, mentre da tempo non si hanno notizie della sua presenza in Slovenia, Italia, Cipro, Moldova e Romania. Aree di svernamento si trovano in Sudan, Pakistan, India nord-occidentale, Nepal, Bhutan, Myanmar, Laos, Corea.

La popolazione complessiva si aggira attorno a circa 7.200-10.000 coppie con 1.700-1.900 coppie in Europa e 5.500-8.000 in Asia.

Gyps fulvus
Grifone

Johann Friedrich Naumann (1780-1857)
Naturgeschichte der Vögel Mitteleuropas - 1905

Il grifone – o grifo - è una creatura mitologica rappresentata nell'arte e descritta in letteratura con la testa e le ali di un'aquila e il corpo di un leone, talvolta con la coda di serpente. Il sostantivo greco grýps significa appunto grifo e l'aggettivo grypós che ne deriva indica incurvato, adunco, come lo è il naso aquilino o l'unghia di un rapace. Sembra che la leggenda del grifone abbia avuto origine in Medio Oriente dove compare in dipinti e sculture degli antichi Babilonesi, Assiri e Persiani. L'immagine del grifone, usata dai Romani a scopo decorativo nei fregi, sulle gambe dei tavoli, su altari e candelabri, compare all'inizio dell'era cristiana nei bestiari. Nell'architettura gotica del tardo Medioevo fu spesso un elemento dei doccioni in pietra. Il grifone è tuttora un emblema familiare nell'araldica e simboleggia la forza e la vigilanza.

Grifone nello stemma araldico di Perugia

Grifone è il nome comune di alcune specie di uccelli rapaci classificati nel genere Gyps – che in greco significa avvoltoio - della famiglia Accipitridi. Come tutti gli avvoltoi, il grifone si nutre di resti di animali morti. Adattato a diversi tipi di ambienti, è tuttavia legato alla presenza di pareti rocciose scoscese, dove ama nidificare. È originario del Vecchio Mondo ed è diffuso nelle regioni comprese tra il mar Mediterraneo a ovest e l’India a est.

Specie in pericolo di estinzione e assente ormai da tempo nei cieli italiani, il grifone (Gyps fulvus) è stato protagonista di alcuni progetti di reintroduzione. Nel 1998 in Sicilia, dove la popolazione stanziale era stata decimata negli anni Sessanta dai bocconi di carne avvelenata usati contro la volpe rossa, un progetto promosso dalla LIPU e dai Parchi regionali dei Monti Nebrodi e delle Madonie stabilì la reintroduzione di 60 esemplari spagnoli nell'arco di quattro anni. Nello stesso periodo, in Sardegna furono attuate alcune reintroduzioni dalla LIPU (monti di Ballao e del Sarrabus). L'esigua popolazione locale (nel Gennargentu e nel Supramonte) fu stabilizzata mediante l'approvvigionamento di cibo, sostenuto dal WWF. Anche in Basilicata e Calabria nel Parco nazionale del Pollino, e in Abruzzo nel Parco regionale Sirente-Velino, il Corpo forestale ha effettuato nel 2000 alcuni ripopolamenti.

La specie Gyps fulvus, diffusa nel bacino del Mediterraneo e presente un tempo anche in Sicilia e in Sardegna, è un grande uccello fulvo  o color sabbia. Le penne delle ali e della coda sono nere, il dorso e il ventre marrone chiaro, mentre il collo e la testa sono rivestiti da uno scarso piumino bianco con una corona giugulare biancastra: Il becco, piuttosto sottile, è di colore rosso ruggine.

Di abitudini gregarie, il grifone vive in piccoli gruppi. È un potente volatore dotato di una vista acutissima di cui si serve per individuare gli animali morti di cui si nutre. I grifoni perlustrano il territorio in piccoli stormi, volando piuttosto in alto senza mai perdersi reciprocamente di vista. Quando un membro del gruppo avvista una carogna, si lascia cadere su di essa a zampe in avanti, segnalandone la presenza ai compagni. L'aspettativa di vita è sui 30-40 anni e diventa sessualmente maturo verso 5-7 anni; la deposizione delle uova avviene tra la metà di gennaio e l'inizio di febbraio. La cova dura 52-58 giorni e il tempo di permanenza del pulcino nel nido è di circa 110-120 giorni, essendo la covata di un solo uovo. Dopo il primo volo il pulcino resta nelle vicinanze del nido per almeno un altro mese. I giovani grifoni sono più scuri degli animali adulti, che esibiscono un'apertura alare di ben 2,4-2,8 m con una lunghezza corporea di 95-105 cm e un peso di 4-6 kg. Un biotopo tipico del grifone è la montagna, ma lo si può trovare anche in pianura. Emette talvolta diverse note aspre e fischi.

Il grifone si trova in Marocco, Algeria, Spagna (8.100 coppie), Sardegna, lungo la costa adriatica orientale (soprattutto sulle isole croate di Cres e Rab) fin anche nelle regioni dell'entroterra nell'Europa meridionale. È diffuso in Grecia (circa 450 coppie), Turchia, sulle coste orientali del Mediterraneo fino all'Irak e all'Iran. Alcuni esemplari migrano sporadicamente dalla Slovenia fino all'Austria, dove allo Zoo di Salisburgo è presente una colonia di esemplari semiselvatici che girovaga anche negli Alti Tauri, dove ha già nidificato liberamente. Un popolamento artificiale nel Massiccio Centrale francese (circa 220 coppie) ha avuto fortuna. In Svizzera, in particolare nel Giura, si contano fino a 54 esemplari. La popolazione al momento sembra crescere in maniera esponenziale. In totale vi è una stima di 17-18 mila individui.

Gypaëtus barbatus
Avvoltoio degli agnelli

Altri nomi comuni sono Lämmergeier (avvoltoio degli agnelli in tedesco), avvoltoio aquila (gýps+aetós in greco), avvoltoio d'oro, falco barbuto, avvoltoio di montagna.

Unico rappresentante del genere Gypaëtus (Storr, 1784) è, tra gli avvoltoi del Vecchio Mondo nidificanti in Europa, quello di maggiori dimensioni.

Tipicamente stanziale, nidifica sui dirupi in alta montagna nell'Europa meridionale, in Africa, in India e in Tibet, deponendo una o due uova. Il gipeto è stato reintrodotto con successo sulle Alpi, ma continua a essere uno dei più rari avvoltoi d'Europa.

Come altri avvoltoi è un saprofago e si nutre principalmente di carcasse di animali morti. Un suo comportamento tipico è quello di lasciar cadere le ossa di animali da grandi altezze per romperle e mangiarne il midollo.

Il Gypaëtus barbatus ha 3 sottospecie che si caratterizzano per lievi differenze di taglia e di colorazione:

Gypaëtus barbatus aureus (Hablizl, 1783)
Gypaëtus barbatus barbatus, diffuso in Europa, Asia e Nord Africa
Gypaëtus barbatus meridionalis, diffuso in Africa orientale e meridionale

Le sottospecie Gypaëtus barbatus haemachalanus e Gypaëtus barbatus altaicus non sono più riconosciute valide.

Morfologia

La struttura morfo-funzionale del gipeto lo rende una specie molto caratteristica: pur essendo inserito nel gruppo degli avvoltoi, mostra caratteri tipici dei rapaci predatori che lo discostano dagli altri rappresentanti del gruppo cui appartiene, avvicinandolo soltanto al capovaccaio (Neophron pernopterus). Il gipeto differisce, ad esempio, dagli altri avvoltoi per i suoi artigli, ancora adatti al trasporto della preda (come i rapaci) e non specializzati per la saprofagia (il nutrirsi di sostanze organiche in decomposizione), come ad esempio quelli del grifone (Gyps fulvus).

Lo studio delle specie estinte e di quella attuale rivela comunque una progressiva evoluzione verso la necrofagia con perdita delle capacità predatorie e modificazione della struttura del becco (non più adatto a strappare la carne) e delle zampe (non più utilizzabili a scopo offensivo).

Come il nome stesso suggerisce (dal greco gyps = avvoltoio e aetós = aquila), da un punto di vista morfologico il gipeto è collocabile in una posizione intermedia fra l'aquila e l'avvoltoio. La specie ha infatti il corpo più snello e le ali più strette rispetto agli avvoltoi, con penne timoniere e remiganti più lunghe. Osservandolo in volo, infatti, presenta una silhouette più simile a quella di un grosso falcone che a quella di un avvoltoio.

Dimensioni e dimorfismo sessuale

L'adulto può raggiungere una lunghezza di 110-115 cm (la sola coda, a forma di cuneo, misura 42–44 cm), con un'apertura alare di 266–282 cm e con un peso di 5–7 kg. Tali dimensioni possono essere tranquillamente estese a entrambi i sessi, in quanto la femmina è in genere appena più grande del maschio, ma la differenza non risulta apprezzabile in natura, così come del resto non vi è diversità negli abiti stagionali e sessuali. Per tale motivo il sesso viene determinato tramite l'analisi del DNA.

Piumaggio

Nell'adulto il colore del piumaggio presenta un netto contrasto tra le parti ventrali e la testa, chiare, e le parti dorsali e le ali, scure.

Le penne timoniere e le copritrici delle ali e del dorso, pur essendo di colore grigio scuro, sono dotate di un rachide biancastro che produce delle sfumature chiare.

Sul capo, costantemente bianco, spiccano i ciuffi di vibrisse nere che circondano l'occhio e scendono fin sotto il becco a formare una specie di barba (da cui deriva il nome barbatus della specie).

L'iride è gialla ed è circondata da un anello perioculare membranoso rosso che diventa particolarmente evidente nei momenti di eccitazione.

Una caratteristica particolare del piumaggio dell'adulto è il colore ruggine del petto e del ventre, che non è di origine biologica, ma assunto dall'ambiente esterno. Sulle cause di tale colorazione sono state formulate diverse ipotesi, la più accreditata delle quali sarebbe il contatto degli uccelli con minerali contenenti sali di ferro. È stato osservato che il gipeto adulto è attratto dagli accumuli di terra o sabbia umida rossastra nei quali compie tipici bagni cospargendo le parti ventrali del proprio piumaggio con tali sostanze: la pigmentazione verrebbe ottenuta grazie a questo comportamento, il cui significato è ancora ignoto.

I giovani hanno un piumaggio completamente scuro, tranne le penne del dorso che possono presentare apici biancastri di varia estensione. Essi assumono l'abito dell'adulto verso i 6–7 anni d'età (quando raggiungono anche la maturità sessuale) dopo aver attraversato una serie di più fasi con colorazioni intermedie.

Biologia riproduttiva

Il gipeto è piuttosto longevo (20–25 anni in natura, fino a 40 in cattività) ed è caratterizzato da un ciclo riproduttivo lungo. La riproduzione occupa, infatti, la maggior parte dell'anno, dall'autunno, con la preparazione del nido, fino all'abbandono del territorio da parte dei giovani quando gli adulti iniziano le parate nuziali per un nuovo ciclo.

Ogni coppia è monogama e occupa un territorio che può raggiungere anche i 300 kmq. Al suo interno possono essere presenti uno o più nidi, utilizzati alternativamente; la rotazione avviene probabilmente per evitare che un eventuale danno al nido (occupazione, crollo) comporti una mancata riproduzione della coppia.

In autunno, dopo le parate nuziali, la coppia inizia a frequentare il nido, solitamente costruito con rami secchi e lana in ampie cavità o su cenge lungo pareti rocciose. La deposizione avviene fra gennaio e febbraio, e ogni coppia depone solitamente due uova (tondeggianti, di color crema, con macchie e punteggiature) a 4–7 giorni di distanza l'uno dall'altro.

La cova, che dura 55–60 giorni, inizia subito dopo la deposizione del primo uovo ed è effettuata per la maggior parte del tempo dalla femmina, anche se spesso il maschio le dà il cambio restando sul nido per 2–3 ore al giorno.

La schiusa avviene in marzo, periodo in cui si ha solitamente un'abbondante disponibilità di cibo. Con lo scioglimento delle nevi, infatti, vengono alla luce le carcasse degli ungulati selvatici morti durante il periodo invernale.
Nei piccoli, subito dopo la schiusa, si manifesta un comportamento particolare: il cosiddetto
cainismo, da Caino, fratello di Abele. Si tratta, in pratica, di un fenomeno di dominanza del primo nato sul fratello più giovane. Sovente il secondo nato non riesce a ottenere cibo e muore per stenti entro 24–26 ore dalla schiusa. In osservazioni effettuate in Sudafrica è stato notato che il primo nato, anche se apparentemente sazio, continua a prendere il cibo portato dai genitori, impedendo così al fratello di alimentarsi. Solo in pochi casi è stato però osservato un vero e proprio comportamento aggressivo come quello che si riscontra nelle aquile.

Non sembra che questo comportamento sia determinato dalla scarsità di cibo (anzi, più i piccoli sono sazi più sono aggressivi), ma è innato e si manifesta in tutte le nidiate. Si pensa che il secondo nato abbia semplicemente la funzione di riserva trofica nel caso in cui il fratello non abbia un normale sviluppo. Il fenomeno del cainismo è comune tra i rapaci ma si riscontra con questa modalità solamente in poche altre specie, come ad esempio nell'Aquila anatraia minore (Aquila pomarina).

Dopo la schiusa i genitori rimangono al nido, alternandosi nella ricerca del cibo che viene portato ai piccoli con gli artigli. All'inizio i pulcini si cibano esclusivamente di carne e solo dopo 7-8 giorni ingeriscono le prime piccole ossa. La permanenza degli adulti al nido diminuisce col passare del tempo.

Dopo l'involo i giovani rimangono per circa due settimane in una zona circostante il nido. Dopo un mese sono già in grado di compiere lunghi spostamenti e accompagnano in volo i genitori. Sul periodo di tempo necessario ai giovani per raggiungere la completa indipendenza vi sono opinioni diverse: Cramp e Simmons (1980) parlano di alcuni mesi, mentre Brown (1990) definisce questo periodo in 5 mesi (in Sud Africa). È stato comunque dimostrato che tale periodo non è determinante ai fini della sopravvivenza dei giovani: infatti, anche in assenza dei genitori, essi si dimostrano in grado di procurarsi il cibo autonomamente.

Regime alimentare

Il gipeto si ciba quasi esclusivamente di carcasse di animali, di cui utilizza in particolare le ossa (circa il 90% della dieta). L'ampia apertura della bocca, la parete dell'esofago indurita da cheratina e l'assenza di gozzo permettono all'animale di inghiottire ossa anche di 20-30 cm di lunghezza. Il gipeto è inoltre dotato di succhi gastrici altamente acidi in grado di sciogliere i sali minerali contenuti nelle ossa. Molte altre specie di rapaci, che non presentano questa caratteristica, sono costretti a rigettare le ossa delle loro prede producendo le cosiddette borre.

Le ossa più grosse vengono spezzate dagli adulti lasciandole cadere in volo su particolari placche rocciose e poi recuperate con estrema agilità e facilità. La scelta delle rocce usate può essere occasionale, ma Heredia (1991) riferisce che sui Pirenei ogni coppia dispone di alcuni rompitoi fissi con superficie liscia, a forte pendenza, esposti a correnti ascensionali che ne facilitano il sorvolo. Questo è un comportamento innato che i giovani attuano fin dai primi voli, inizialmente senza conoscerne il significato, poi in modo sempre più preciso, anche senza la presenza dei genitori.

Questo tipo di alimentazione richiede, naturalmente, un'elevata disponibilità di carcasse. Nelle zone in cui si attua l'allevamento allo stato brado tutto l'anno (Corsica, bassi Pirenei) il gipeto basa la propria alimentazione sulle carcasse di bestiame domestico; invece nelle zone montane, dove le condizioni climatiche non consentono l'allevamento di bestiame all'aperto durante tutto l'anno, la fonte principale di cibo è costituita dalle carcasse di ungulati selvatici.

Il consumo giornaliero di cibo di una coppia si aggira intorno agli 800-1.000 g, quantità che aumenta fino a 1,5 kg durante il periodo di allevamento del giovane. Quindi il fabbisogno annuo si aggira intorno ai 420 kg, pari a circa 52 carcasse all'anno per coppia. Queste abitudini alimentari spiegano la necessità di occupare territori con estensioni che raggiungono, come detto in precedenza, anche i 300 kmq.

Conseguenza importante dell'essersi specializzato a nutrirsi in prevalenza di ossa è che il gipeto ha ridotto la competizione con gli altri necrofagi. Poiché un comportamento aggressivo verso gli altri animali non porterebbe alcun vantaggio, il gipeto presenta un atteggiamento rinunciatario anche nei confronti di commensali di dimensioni minori rispetto alle sue (gracchi e corvi): quando arriva su una carcassa tende a essere molto cauto e all'arrivo di un altro animale (anche conspecifico) si allontana.

Il volo

L'attività del gipeto, a differenza di altri avvoltoi o di altri rapaci, è evidente fin dalle prime ore del giorno. Come altri veleggiatori (pellicani e cicogne) non utilizza solo le grandi masse di aria calda in ascesa (le termiche), ma anche le correnti dette di pendio, provocate dalla deflessione del vento da parte di ostacoli, e le correnti d'onda che gli ostacoli provocano sottovento. È un ottimo volatore sia in spazi aperti a elevate quote che a pochi metri dal suolo quando compie voli di perlustrazione alla ricerca di carcasse. Un gipeto adulto spende tre quarti o più del tempo diurno in volo alla ricerca di cibo. L'agilità e la capacità di compiere acrobazie in spazi ristretti è dovuta alla forma delle ali strette e lunghe e alla coda a forma di cuneo che consente una notevole manovrabilità.

La diversità del gipeto rispetto agli avvoltoi si manifesta anche in alcuni dettagli del volo: esso, ad esempio, non necessita della lunga rincorsa per il decollo tipica degli avvoltoi, e in picchiata è abile come l'Aquila reale (Aquila chrysaëtos).

Non si conosce poi lo scopo di un volo battuto senza spostamenti (detto Spirito Santo) che il gipeto a volte attua e che è tipicamente usato da rapaci più piccoli come il gheppio (Falco tinnunculus) o il Biancone (Circaëtus gallicus) nelle attività di caccia.

Infine un'azione non rara e facilmente osservabile nel volo del gipeto consiste in certi colpi d'ala battuti verso il basso con le sole punte: sono usati in modo singolo o intermittenti durante il volo planato.

Distribuzione e habitat

La distribuzione geografica del gipeto è strettamente legata alle aree montane e in particolare alle montagne meridionali della Regione Paleartica (Europa, Nord Africa e Asia fino al Tibet e all'Himalaya) e alle montagne orientali e meridionali della Regione Afrotropicale (tutta l'Africa a sud del Sahara).

Nella zona eurasiatica l'areale segue l'andamento delle catene montuose alpino-himalayane e si estende dai Pirenei, attraverso Alpi, Carpazi e Caucaso, fino al Karakorum; il limite settentrionale è rappresentato dalle Alpi svizzere e austriache e dai monti Altai in Mongolia. Negli ultimi anni delle copie di gipeti sono state introdotte nell'area protetta del parco dello Stelvio, ove si sono adattate perfettamente.

Il gipeto in Africa è presente sulla catena dell'Atlante, dal Marocco alla Tunisia, sui Monti egiziani lungo il Mar Rosso, sull'Acrocoro etiopico e sugli altopiani dell'Africa orientale fino ai monti del Sudafrica.

Nonostante l'abbondanza di ungulati selvatici delle savane africane, il gipeto non si è mai insediato in queste regioni pianeggianti in quanto predilige zone montane con poca copertura boschiva in cui siano presenti pareti di roccia adatte alla nidificazione.

Secondo una stima approssimativa si pensa che nel mondo siano presenti 50.000 individui. In Europa si è estinto, come specie nidificante, in tutto l'arco alpino e in vaste aree dei Carpazi, dei Balcani e dei Pirenei. Le poche aree di nidificazione ancora presenti nel vecchio continente sono comprese tra i 1000 e i 2000 m di quota; in Asia, invece, la specie può nidificare a oltre 4000 m.


Falco tinnunculus
Gheppio

Johann Friedrich Naumann (1780-1857)
Naturgeschichte der Vögel Mitteleuropas - 1905

A sinistra la femmina - a destra in basso il maschio

Il gheppio – dal greco aigypiós, avvoltoio - Falco tinnunculus (Linnaeus, 1758) è uno dei rapaci più diffusi nell'Europa centrale e appartiene alla famiglia dei Falconidi, la cui etimologia deriverebbe dal latino tardo falco da avvicinare a falx. falcis  = falce, per la forma del becco. Il nome latino tinnunculus rimanda probabilmente al suo verso, che assomiglia a un ti ti ti ti e che, tradotto letteralmente, significa che risuona, che tintinna. La femmina depone da 4 a 6 uova che si schiudono dopo 27-28 giorni di cova. Molti conoscono il gheppio poiché ha conquistato le città come proprio ambiente e si caratterizza per il suo volo oscillante. Può vivere sia in pianura che in montagna, ma appunto anche in città, a contatto piuttosto stretto con l'uomo. A differenza degli altri Falconidi che generalmente si nutrono di altri uccelli, il gheppio preda piccoli roditori, rettili, anfibi e grossi insetti.

  

Piumaggio

I gheppi mostrano più di altre specie un acceso dicromatismo sessuale. La caratteristica più notevole è che i maschi hanno la testa di colore grigio chiaro, le femmine invece sono uniformemente di colore rosso mattone. I maschi hanno le ali rossastre e sono caratterizzati da alcune macchie scure a volte dalla forma di asterisco. Il fondoschiena e la coda - il cosiddetto fascio - è di colore completamente grigio chiaro con un trattino nero finale e una bordatura bianca. La parte inferiore è di color crema chiaro con strisce o macchie marroncine. La parte inferiore del ventre è invece totalmente bianca.

La femmina adulta è bordata di scuro nella schiena. A differenza del maschio, anche il fascio è marrone e mostra inoltre diverse strisce laterali e un determinato legame finale. Anche la parte inferiore è più scura che nel maschio e mostra una pezzatura più forte.

I piccoli assomigliano nel piumaggio alle femmine. Tuttavia le loro ali sembrano più rotonde e più corte che nei gheppi adulti. Inoltre le punte delle loro aperture alari mostrano margini più chiari. Pelle cerata e anello attorno all'occhio, che sono gialli negli uccelli adulti, nei giovani vanno dall'azzurro al verde giallastro.

In entrambi i sessi la coda è arrotondata poiché queste penne sono più corte di quelle mediane. Negli uccelli adulti le punte delle ali raggiungono la fine della coda. Le gambe sono giallo chiaro, gli artigli sono neri.

Corporatura

Come tutti i falconiformi, il gheppio è dotato di 15 vertebre cervicali come l'anatra (13 nel pollo e nel tacchino, 18 nell'oca, 12 nel pappagallo) che gli permettono di girare il capo di 180° e di osservare appollaiati su un albero una preda fino a 220 gradi senza doversi muovere.

La corporatura dei gheppi (lunghezza e apertura alare) varia a seconda della sottospecie e del sesso. Nella sottospecie presente in Europa (Falco tinnunculus tinnunculus) i maschi hanno un'apertura alare di 74 cm, le femmine di 78.

Il peso degli individui varia parecchio a seconda del sesso. Normalmente un gheppio maschio pesa sui 200 grammi, una femmina 20 grammi in più. Il peso delle femmine varia a seconda del periodo: in quello depositivo arrivano a pesare anche 300 grammi. Le femmine più pesanti sono normalmente più fortunate nella cura dei piccoli nel nido.

Aspetto in volo

Il gheppio è caratterizzato da un volo particolare. Anche i neofiti dediti al bird watching sono in grado di riconoscere il tipico volo del gheppio. A differenza di altri rapaci sbatte le ali frequentemente, ma la caratteristica più evidente è il cosiddetto volo a Spirito Santo, durante il quale si mantiene totalmente fermo in aria con piccoli battiti delle ali e tenendo la coda aperta a ventaglio, sfruttando il vento per mantenersi stabile e osservare il suolo in cerca di prede.


L'avvoltoia
Un bel tranello per l'Immacolata Concezione

La Vergine Maria - la madre di Gesù
nacque 9 mesi dopo la sua Immacolata Concezione dell'8 dicembre
e il Duomo di Milano - come attesta la facciata
è dedicato a Mariae nascenti
a Maria che nasce - alla natività di Maria
avvenuta l'8 settembre

A pagina 422 di Historia animalium III (1555) Conrad Gessner cita San Basilio il Grande a proposito delle uova ventose o sterili. Infatti Basilio afferma che gli avvoltoi, a differenza di altri uccelli, depongono uova ventose estremamente fertili senza dover ricorrere assolutamente al coito: Auctor est in Hexaemero Magnus Basilius, subventanea ova in caeteris irrita esse ac nova, (vana,) nec illis fovendo quicquam excuti: at vultures subventanea fere citra coitum progignere fertilitate insignia.

San Basilio si basava sulla credenza ancora assai diffusa ai suoi tempi (ca. 330-379) secondo cui le femmine di avvoltoio concepivano grazie al vento senza bisogno di accoppiarsi col maschio, e forse di maschi addirittura non ce n'erano. Anche Sant'Ambrogio (ca. 334-397) accetta e si fa portavoce della loro partenogenesi. Ma ambedue verranno più tardi sconfessati da un loro collega, Sant'Alberto Magno (ca. 1200-1280). Infatti, come riferisce Gessner, Alberto smentisce sia Basilio che Ambrogio, affermando che è assai frequente osservare gli avvoltoi tedeschi – conterranei sia di Alberto che di Ambrogio, ma coevi solo di Alberto e non di Ambrogio – i quali sono dediti a delle belle ammucchiate: In montibus qui sunt inter civitatem Vangionum, quae nunc Vuormacia vocatur, et Treverim, singulis annis nidificant vultures, ita ut magnus undiquaque foetor ex congestis cadaveribus sentiatur. Quod autem fertur quosdam vultures non coire, falsum est. nam illic quoque saepissime permisceri videntur, Albertus. (Historia animalium III, pagina 752)

Quasi tutto ciò che di leggendario circolava sull'avvoltoio è stato sintetizzato da Claudio Eliano (ca. 170 - ca. 235) nel suo capolavoro La natura degli animali (II,46) che è una fonte inesauribile di spunti fantastici. Chi volesse immergersi nella marea di miti e leggende relative alla biologia sessuale di questo importante operatore ecologico non ha che da spulciare con attenzione i relativi testi di Gessner e Aldrovandi trascritti dal nostro amanuense elettronico, Fernando Civardi. Noi invece ci dedichiamo per un attimo alla sintesi di Eliano.

Γύψ νεκρῷ πολέμιος, ἐσθίει γοῦν ἐμπεσὼν ὡς ἐχθρὸν καὶ φυλάττει τεθνηξόμενον. καὶ μέντοι καὶ ταῖς ἐκδήμοις στρατιαῖς ἕπονται γῦπες, καὶ μάλα γε μαντικῶς ὅτι ἐς πόλεμον χωροῦσιν εἰδότες, καὶ ὅτι μάχη πᾶσα ἐργάζεται νεκρούς, καὶ τοῦτο ἐγνωκότες. γῦπα δὲ ἄρρενα οὔ φασι γινεσθαί ποτε, ἀλλὰ θηλείας ἁπάσας· ὅπερ ἐπιστάμενα τὰ ζῷα καὶ ἐρημίαν τέκνων δεδιότα ἐς ἐπιγονὴν τοιαῦτα δρᾷ. ἀντίπρῳροι τῷ νότῳ πέτονται· εἰ δὲ μὴ εἴη νότος, τῷ εὔρῳ κεχήνασι, καὶ τὸ πνεῦμα ἐσρέον πληροῖ αὐτὰς, καὶ κύουσι τριῶν ἐτῶν. λέγουσι δὲ νεοττίαν μὴ ὑποπλέκειν γῦπα. τοὺς δὲ αἰγυπιούς, ἐν μεθορίῳ γυπῶν ὄντας καὶ ἀετῶν, εἶναι καὶ ἄρρενας καὶ τὴν χρόαν πεφυκέναι μέλανας. καὶ τούτων μὲν ἀκούω καὶ νεοττιὰς δείκνυσθαι. γῦπας δὲ μὴ ᾠὰ τίκτειν πέπυσμαι, νεοττοὺς δὲ ὠδίνειν. καὶ ὡς ἀπὸ γενεᾶς κατάπτεροί εἰσι, καὶ τοῦτο ἤκουσα.

L'avvoltoio è nemico di colui che sta morendo, infatti lo mangia piombandogli sopra come se fosse un nemico e aspetta fino a quando sarà morto. Orbene, gli avvoltoi seguono anche gli eserciti che vanno in paesi stranieri, sia percependo in modo assai profetico che si recano in guerra, sia essendo consci anche di questo, che cioè ogni battaglia produce dei cadaveri. Dicono che non nasce mai un avvoltoio maschio, ma tutte quante femmine; e siccome gli animali lo sanno e temono la mancanza di figli, per avere della progenie fanno quanto segue. Volano con la prua rivolta verso Noto; e se Noto non ci fosse aprono la bocca verso Euro, e il soffio di vento penetrando le feconda, e rimangono gravide per tre anni. E dicono che l'avvoltoio non tesse un nido. E che i gheppi [Falco tinnunculus - Filippo Capponi], che si trovano al confine tra gli avvoltoi e le aquile, sono anche maschi e che di natura sono di colore scuro. E invero sento dire di costoro che vengono segnalati anche dei nidi. Vengo a sapere che gli avvoltoi non depongono uova, ma che partoriscono dei pulcini. E che appena dopo la nascita sono forniti di ali, ho sentito dire anche questo.

Si affermava appunto che dopo tre anni di gestazione i piccoli di avvoltoio venivano partoriti già con le penne e senza neppure essere avvolti dal guscio, per cui erano pronti a volare. Insomma, è un po' quel che accade per esempio nell'anaconda (Eunectes murinus) e nel marasso (Vipera berus, da un supposto *vivipera = che partorisce prole viva), anche se la loro gravidanza non è così protratta come nell'avvoltoio di Eliano. Infatti è di circa un anno quella del marasso stanziato in zone fredde. I loro piccoli nascono già vivi oppure all’interno di un involucro che si apre quasi subito. Questi due rettili ebbero come prestigioso antenato l'ittiosauro del Giurassico, anch'esso ovoviviparo.

Negli ovovivipari accade ciò che all'incirca accade nei mammiferi, essendo l'ovoviviparità una forma di transizione fra l'oviparità e la viviparità: l'uovo, che non ha guscio, si ferma nell'ovidotto fino al termine dello sviluppo dell'embrione, sicché appena deposto si schiude lasciando uscire un giovane individuo perfettamente formato.

Torniamo alla partenogenesi delle antiche avvoltoie. Partenogenesi è la nascita virginale. Il termine deriva dal greco parthénos che significa vergine. Nell’antica Grecia la Vergine per antonomasia era la dea Atena (il tempio a lei dedicato sull'Acropoli di Atene è appunto il Partenone), detta Minerva dai Romani, la stessa dea della Sapienza che da un elevato piedistallo accoglie coloro che da sud entrano in Pavia, "unica Vergine della città" ribadiscono gli Anziani universitari alle Matricole, quia marmorea, perché di marmo. Avremo modo di tornare al mondo universitario pavese, un cosmo fatto a modo suo, che tuttavia ha qualcosa da insegnarci.

La nascita senza l’intervento del maschio si verifica sia negli invertebrati che nei vertebrati. La partenogenesi è un fenomeno naturale nelle api, i cui maschi - fuchi o pecchioni, privi di pungiglione ma non di spermatozoi - nascono da uova non fecondate. Lo sviluppo di un embrione può anche venir innescato da stimoli artificiali, sia fisici che chimici. Ciò sta a dimostrare che lo spermatozoo non è strettamente indispensabile per dare il via alla formazione di un embrione e che l’uovo può in determinati casi essere autosufficiente. Lo testimonia la nascita di Cristo.

Per il fatto di essere stato circonciso, Gesù era indubbiamente un maschietto. Salvo avesse un clitoride enorme e l'avessero scambiato per un pene, il che è alquanto inverosimile. Prima della riforma liturgica voluta dal Concilio Vaticano II (indetto nel 1959 da Giovanni XXIII e svoltosi dal 1962 al 1965) il 1° gennaio di ogni anno si celebrava la circoncisione di Gesù, 8 giorni dopo la sua nascita, attenendosi a quanto scrisse Luca (2,21): "Quando furon passati gli otto giorni prescritti per la circoncisione, gli fu messo nome Gesù, come era stato chiamato dall'angelo prima di essere concepito nel grembo della madre. - Καὶ ὅτε ἐπλήσθησαν ἡμέραι ὀκτὼ τοῦ περιτεμεῖν αὐτόν, καὶ ἐκλήθη τὸ ὄνομα αὐτοῦ Ἰησοῦς, τὸ κληθὲν ὑπὸ τοῦ ἀγγέλου πρὸ τοῦ συλλημφθῆναι αὐτὸν ἐν τῇ κοιλίᾳ."

Grazie a Paolo VI, a capodanno, invece della circoncisione - magari difficile da spiegare ai fanciulli sia da parte dei genitori che di un ministro di Dio senza arrossire o farli arrossire - a capodanno, dicevamo, adesso si celebra la Divina Maternità di Maria che un tempo cadeva l'11 ottobre. Verrebbe subito da pensare che la Chiesa Cattolica, sopprimendo la festa della circoncisione, abbia voluto tacitamente negare la mascolinità di Cristo, ma questa è ovviamente un'ipotesi troppo azzardata.

Fatto sta che Cristo, quando fu concepito per opera dello Spirito Santo, se possedeva un corredo cromosomico diploide, era cromosomicamente femmina (XX anziché XY, per duplicazione del cromosoma X della madre) e dobbiamo invocare un secondo intervento del Vento Sacro - o Spirito Santo che dir si voglia - al fine di eseguire, che so, una delezione parziale di uno dei due cromosomi X di Maria, trasformandolo in qualche modo in cromosoma Y.

Tutti i maschietti che si pregiano di essere tali sono provvisti di un corredo XY, sia che vengano o non vengano circoncisi. Tutto ciò è rimasto occultato e camuffato nei meandri dei dogmi delle Sacre Scritture e solo due millenni più tardi la genetica ha consentito di ipotizzare l'intervento dello Spirito Santo sul primitivo corredo XX di Cristo, visto che sicuramente era un maschietto. Ma tutta questa elucubrazione genetica dal sapore fantascientifico potremmo relegarla nel fondo di un cassetto. Basterebbe ammettere che Gesù nacque non per partenogenesi, ma secondo le leggi naturali stabilite da Dio alle quali si sono attenuti tutti i nostri genitori. E San Giuseppe ne sarebbe felice.

A differenza di quanto accadde per Maria, abitualmente per l'avvoltoia ci vuole l'intervento di un maschio, e così dicasi per la tacchina e la gallina. Nella tacchina e nella gallina è tuttavia ammessa la partenogenesi dovuta a poxvirus o ad altri virus. Qualcuno si chiederà se per partenogenesi nascono solo galletti e tacchinotti oppure galline e tacchinelle. Nascono solo dei maschi, ma non per intervento divino come nel caso di Cristo. Negli uccelli i maschi sono omozigoti per il cromosoma sessuale Z - corredo ZZ - mentre le femmine hanno un corredo ZW, quindi l'opposto di quanto è documentabile nell'essere umano, dove le femmine sono XX e i maschi XY. E gli embrioni partenogenetici ZZ sono vitali, mentre gli embrioni WW - anch'essi partenogenetici - non sono vitali, nonostante possano quasi essere etichettati come superfemmine.

Attenti però! Quella dei fuchi è una partenogenesi puramente biologica, non comportamentale come quella da virus in tacchine e galline, che possono così diventare madri senza accoppiarsi. Infatti a suo tempo l'ape regina si è sollazzata con 6 o più fuchi per incamerare spermatozoi nella spermateca coi quali poi fecondare a piacimento le sue uova, facendo nascere dei maschi copulatori da quelle non fecondate o femmine lavoratrici e guardiane da quelle fecondate, delle povere tapine che vengono castrate attraverso l'alimentazione: non ricevono più la pappa reale. Invece le femmine nutrite con pappa reale diventeranno regine, il cui unico compito non è quello di sfacchinare, ma di scopare coi fuchi e poi deporre uova.

Qualora avessimo l'afflato per le interviste potremmo piazzare un gazebo e invitare i passanti a rispondere al seguente quiz: "Sa dirmi cosa significa Immacolata Concezione?". State pur certi che perlomeno il 90% degli inquisiti risponderà più o meno così: "Significa che la Madonna ha concepito Cristo senza avere rapporti carnali con San Giuseppe." Quindi, la Madonna sarebbe Immacolata in quanto ha concepito – a differenza delle nostre licenziose madri – senza che le venisse titillato clitoride e compagnia bella da un peccaminoso membro virile.

Errore gravissimo! Il dogma dell'Immacolata Concezione, celebrato l'8 dicembre, è tutt'altra cosa. Meno male che non c'è più l'Inquisizione, bandita il 29 giugno 1908 con la bolla Sapienti Consilio di San Pio X. Ma da inquisire sarebbe il clero, non coloro che rispondono erroneamente al quiz. Il clero è infatti una congrega maschilista e omosessuale che ha inculcato nella gente il concetto secondo cui una donna è immacolata se non ha mai avuto rapporti sessuali, foss'anche per obbedire al perentorio mandato di Dio cui si sottrasse la Madonna. Infatti Dio così decretò: [27] Dio creò l'uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò. [28] Dio li benedisse e disse loro: "Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra; soggiogatela e dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente, che striscia sulla terra".(Genesi 1,27-28)

Ai Padri della Chiesa piaceva l'avvoltoia. Quest'idea di femmine fecondate dal vento fu cara non solo agli antichi Europei e ai Cristiani, ma anche a popolazioni dell'Estremo Oriente, come testimoniano il botanico portoghese Tomé Pires (1460 - ca. 1524 o ca. 1543) e il vicentino Antonio Pigafetta (ca. 1485 - ca. 1534), i quali debbono aver tratto la notizia da fonti diverse e senza magari pensare all'equivalenza fra Spirito Santo e Vento Sacro, rendendo così la loro relazione storica assai più credibile, sia sotto il profilo geografico che concettuale, scevro cioè da addentellati con la nascita virginale di Cristo.

Tomé Pires si imbarcò nel 1511 alla volta dell'India con l'incarico di compiervi studi sulle piante medicinali locali che avrebbero potuto incentivare i traffici di spezie e di sostanze medicamentose tra Portogallo e Oriente. Pare assodato che la sua Suma Oriental – un resoconto che spazia dal Mar Rosso al Giappone – fu conclusa entro il 1515. La Suma, tradotta in inglese e pubblicata nel 1944 da Armando Cortesão, così riferisce: "They say that opposite to Priaman there is an island [blank] where there are only women and they have no men, and that they are got with child by others who go there to trade and who go away again at once and that others are made pregnant by the wind. This opinion is held by the people of these parts, in the same way as the enchanted queen in the hill of Malacca called Gunong Ledang (Gulom Leydam)."

La nota a piè pagina riferita al blank tra parentesi quadre dice trattarsi probabilmente dell'isola di Siberut, una delle più grandi del gruppo delle Mentawai, un arcipelago dell'Oceano Indiano al largo della costa occidentale dell'isola di Sumatra. Solitaria e un po' più a sud delle Mentawai si trova l'isola di Enggano che dovrebbe corrispondere a Ocoloro, l'isola della partenogenesi anemofila di Pigafetta, che egli colloca a sud di Giava Maggiore, che dovrebbe corrispondere alla nostra Sumatra.

Ecco ciò che scrisse Pigafetta nella sua Relazione del primo viaggio intorno al mondo iniziata nel 1524 e ultimata nel 1525: "Il nostro piloto più vecchio ne disse come in una isola detta Ocoloro, sotto de Giava Maggiore, in quella trovasi se non femmine: e quelle impregnarse de vento, e poi quando partoriscono, se il parto è maschio, lo ammazzano; se è femmina lo allevano, e se uomini vanno a quella sua isola, loro ammazzarli purchè possano." È ovvio che Gesù, se fosse nato a Ocoloro/Enggano, non avrebbe avuto la possibilità di essere crocifisso a 33 anni e che avrebbe assolto al suo compito di Salvatore da neonato. Ma a questo compito in tenera età si era sottratto fuggendo in Egitto quando Dio decretò la Strage degli Innocenti, quei bambini di Betlemme (da 15 a 80) fatti uccidere da Erode il Grande quando seppe della nascita del Re dei Giudei (Matteo 2, 12-18).

Alla frottola della fecondazione anemofila non si sottrasse neppure la gallina. Però Ulisse Aldrovandi, pur avendo avuto dei corposi battibecchi con l'Inquisizione, non si lasciò ingannare dall'affermazione che i pulcini potessero nascere senza l'intervento del gallo. Quando le galline deponevano uova non prolifiche erano dette ventose (in greco hypënémia, hypó = per opera di e ánemos = vento), ma le uova feconde erano da imputare al coito del gallo.

La trita e ritrita favola del vento fecondatore non risparmiò neppure le cavalle, che si diceva rimanessero gravide grazie a Zefiro, o Favonio. Ciò accadeva sul Monte Tagro nei pressi di Olisipo (Olisippo, Olisippona, Ulisippo), l'odierna Lisbona. Questa panzana sulle cavalle non venne tramandata solo da Varrone (che ci credeva fermamente), ma anche da Plinio in Naturalis historia VIII,166: “Constat in Lusitania circa Olisiponem oppidum et Tagum amnem equas favonio flante obversas animalem concipere spiritum, idque partum fieri et gigni pernicissimum ita, sed triennium vitae non excedere.” - Risulta che in Lusitania nei pressi della città di Lisbona e del fiume Tago le cavalle, volgendosi verso il Favonio che spira, ricevono un soffio vitale, e che ciò diventa un figlio, e che così viene partorito assai rapidamente, ma non supera i tre anni di vita.

Avendo Aldrovandi decurtato il testo di Varrone, eccone la citazione completa contenuta in De re rustica II,1: “In fetura res incredibilis est in Hispania, sed est vera, quod in Lusitania ad oceanum in ea regione, ubi est oppidum Olisipo, monte Tagro quaedam e vento concipiunt certo tempore equae, ut hic gallinae quoque solent, quarum ova hypenemia appellant.” - Per quanto riguarda la riproduzione, in Spagna accade una cosa incredibile, ma è vera, in quanto in Lusitania, che si affaccia sull'oceano, in quella regione in cui si trova la città di Lisbona, sul monte Tagro in un determinato periodo certe cavalle concepiscono per effetto del vento, come qui da noi sono solite fare anche le galline, le cui uova le chiamano piene di vento.

Anche Aristotele riferisce di cavalle fecondate dal vento, ma a Creta: Fra le femmine le più propense al coito sono la cavalla, e, in secondo luogo, la vacca. Le cavalle sono comunque folli per il maschio, onde il loro nome — ed è un caso unico fra gli animali — viene riferito per ingiuria alle donne sfrenatamente dedite al piacere. Dicono che in questo periodo esse possano anche venir fecondate dal vento, perciò a Creta non separano gli stalloni dalle femmine. Quando esse si trovano in questo stato, rifuggono dagli altri cavalli (stato che nei maiali è detto «follia del verro»), e non corrono né a levante né a ponente, ma verso settentrione o mezzogiorno. Una volta cadute in tale condizione, non lasciano avvicinarsi nessuno, finché sono sopraffatte dalla fatica o hanno raggiunto il mare. Allora emettono una sostanza, che viene chiamata hippomanës [cavalla pazza] come l’escrescenza presentata dal puledro alla nascita; essa è simile alla kápria della scrofa, ed è ricercatissima dalle donne che preparano le pozioni. (Historia animalium VI,18 572a)

Ma nelle opere attribuite al vero Aristotele, non allo Pseudoaristotele, non si accenna minimamente alla partenogenesi delle avvoltoie. Per cui possiamo avere la certezza che Aristotele mai ne parlò, nonostante il compilatore dei Geoponica attribuisca ad Aristotele questa falsa notizia: Aristoteles tradit [...] Vultures insuper non coire, sed facie obversa et adversus austrum exporrecta volare, atque sic praegnantes fieri, et per tres annos parere. - Inoltre Aristotele riferisce che le avvoltoie non si accoppiano, ma che volano con la faccia rivolta ed estesa verso Austro, e che così diventano gravide, e che partoriscono per tre anni. (Geoponica XIV,26 De vulturibus)

Ecco infine il brano di Aldrovandi tratto da pagina 207 di Ornithologiae tomus alter (1600) che ci conforta qualora volessimo negare un volta per tutte la fecondazione anemofila, fatta eccezione per le piante, è ovvio.

Videamus modo, quid commodi nobis Gallorum coitus praestet, quod sane exiguum cuiquam videri posset, quando Gallinae absque eorum opere pariant ova, sed cum istaec generationi inepta sint, totam pullificationem Gallis acceptam referre debemus. Concipiunt itaque Gallinae duobus modis, vel ex congressu cum Gallo, vel per sese. Quae posteriori modo generantur ova, irrita, subventanea, et hypenemia dicuntur, quoniam e vento concepta credantur. Hoc enim ex veteribus non Varro tantum, sed ipsemet Aristoteles, et inter recentiores Albertus memoriae prodiderunt. In Lusitania, inquit Varro, ad Oceanum monte Tagro quaedam e vento certo tempore concipiunt equae, ut hic Gallinae quoque solent, quarum ova hypenemia appellant.

Diamo adesso uno sguardo a quale utilità sia per noi il coito dei galli, anche se a qualcuno senza dubbio potrebbe sembrare di poco conto, dal momento che le galline depongono uova senza il loro intervento, ma siccome tali uova sono incapaci di generare, dobbiamo attribuire tutta quanta la creazione della prole come dovuta ai galli. Ordunque, le galline concepiscono in due modi, o accoppiandosi col gallo, o da sole. Le uova generate nella seconda maniera vengono dette sterili, ventose e piene di vento in quanto si crede vengano concepite a causa del vento. Infatti tra gli antichi ce lo hanno tramandato non solo Varrone ma anche lo stesso Aristotele e, tra i più recenti, Alberto. In Lusitania, dice Varrone, sul monte Tagro nei pressi dell’oceano in un determinato periodo certe cavalle concepiscono per effetto del vento, come qui da noi sono solite fare anche le galline, le cui uova le chiamano piene di vento.

Anche la mitologia greca annovera una nascita per partenogenesi, però di sesso femminile. Si tratta di Proserpina, nata da Demetra che era sorella di Zeus. La favola assume anche un'altra veste biologica, quella di Demetra che invece di partorire una femmina si sdoppia e si moltiplica come un'ameba, quel protozoo che si riproduce in modo asessuato per divisione binaria. In seguito la mitologia si ravvide per adeguarsi alla biologia umana, facendo nascere Proserpina per incesto, cioè intrecciando il corredo cromosomico della madre con quello di Zeus che era lo zio materno di Proserpina.

La Scienza ne inventa una più del Diavolo, il quale ovviamente è contrario alla partenogenesi! La notizia è di venerdì 1 febbraio 2008. Il quotidiano La Stampa intitola l'articolo I padri non servono più - Scoperta choc dall'Inghilterra: lo sperma si può estrarre dal midollo delle donne. In sintesi: la rivoluzionaria tecnica, allo studio presso l'università di Newcastle upon Tyne (UK), prevede di trasformare le cellule staminali del midollo osseo femminile in spermatozoi, che possono essere usati per fecondare ovuli. Unico inghippo: nascerebbero solo femmine, salvo l'intervento di un soffio soprannaturale capace di trasformare uno dei due cromosomi X in Y. Ciò è già accaduto, come abbiamo ipotizzato nel caso di Cristo.

Vediamo cos'è l'Immacolata Concezione. Quando lo spermatozoo di San Gioacchino si unì all'uovo di Sant'Anna diede vita a un essere che non era contaminato dal peccato originale – quello perpetrato dai misconosciuti Adamo ed Eva, tanto per intenderci - un peccato ereditario quanto un gene e dal quale veniamo mondati attraverso il battesimo, salvo finire al limbo come mio figlio Matteo, che c'è rimasto per ben 35 anni. Ne chiederò i danni morali a Sua Santità Benedetto XVI che finalmente nel 2007 – ispirato da Dio - si è accorto dell'iniquo anacronismo del limbo.

Il dogma dell'Immacolata Concezione, secondo cui la Vergine Maria è stata immune dal peccato originale, fu proclamato l'8 dicembre 1854 da Pio IX con la bolla Ineffabilis Deus a conclusione di una plurisecolare controversia iniziata nel Medioevo. La teoria dell'Immacolata Concezione, sostenuta dai francescani seguaci di Duns Scoto (ca. 1266-1308), era stata negata da eminenti teologi medievali - fra cui Anselmo d'Aosta (1033-1109)  e San Bernardo (1090/1091-1153) - e fu avversata dai domenicani seguaci di San Tommaso d'Aquino (1225-1274), nonché, nel sec. XVII, dai giansenisti, sino a che Alessandro VII, nel 1661, le riconobbe il carattere di antica credenza, preludendo in tal modo alla sua definizione dogmatica. Nel 1858 la Madonna compariva a Lourdes nelle vesti di Immacolata Concezione a Bernadette Soubirous, avvallando così il dogma proclamato da Pio IX quattro anni prima e che nessuno si sarebbe mai più preso la briga di smentire. Era l'11 febbraio quando Bernadette, mentre raccoglieva legna, incontrò nella grotta l'Immacolata Concezione in carne e ossa.

E torniamo a Pavia. Sul lasciapassare concesso a colpi di lauti banchetti alle non abbienti matricole universitarie – il cosiddetto papiro – veniva riportata un'invocazione che le matricole femmine erano tenute a recitare su consiglio degli Anziani. Si tratta di un'enunciazione chiara e assai stringata del contenuto del dogma dell'Immacolata Concezione che non lascia adito a dubbi e che è in grado di soppiantare un ministro di Dio nel suo ruolo di pastore delle anime se prendiamo atto del probabile risultato deludente della suddetta intervista al riparo di un gazebo. Ecco l'invocazione:

O Maria, che fosti concepita senza peccato,
fammi peccare senza concepire!

Un'invocazione blasfema – è il caso di dirlo – ma che proprio per questo mette in evidenza l'imperdonabile ignoranza religiosa di un Paese cattolicissimo come il nostro.

Filippo Capponi (1921-1999), quando in Ornithologia Latina (1979) afferma che la leggenda della riproduzione senza coito dell'avvoltoio femmina fu accolta soprattutto dall'antica letteratura cristiana greca e latina come simbolo dell'Immacolata Concezione, si lascia chiaramente traviare da D'Arcy Wentworth Thompson (1860-1948). Infatti due anni prima – e precisamente  in Avifauna nelle divinazioni e nel mito (Latomus 36, 1977) – Capponi non parla di Immacolata Concezione, bensì di verginità feconda di Maria, che è appunto una fecondità partenogenetica come quella degli avvoltoi, una partenogenesi che riconosce come meccanismo biologico l'intervento del vento, e nel caso di Maria di un vento divino come è appunto lo Spirito Santo. E lo Spirito Santo in greco è detto Hágion Pneûma, e le avvoltoie di Eliano si fanno ingravidare dallo pneûma del sud o dell'est, o magari di sudest.

Ecco il brano di Filippo Capponi tratto da Avifauna nelle divinazioni e nel mito grazie al quale il suo trascorso di seminarista non fa una grinza:

La leggenda sulla fecondità partenogenetica degli Avvoltoi doveva essere diffusa, specie tra il popolo, se i Padri della Chiesa propongono a dimostrazione della "verginità feconda" di Maria l’esempio degli Avvoltoi (cf. D’Arcy W. Thompson, op. cit., p. 83 [errore!!! Vi si parla di Immacolata Concezione]). Ambrogio, imitando l'omelia VIII in Exam., 180 AB di Basilio, parla dell'integrità verginale, che secondo alcuni, esisterebbe in molte specie di uccelli, ma egli riferisce la credenza più diffusa che avrebbe permesso al popolo di accettare la credibilità del dogma o del mistero dell'Incarnazione (Hexam., dies V, XX, 64-65: Negantur enim vultures indulgere concubitu et coniugali quodam usu nuptialisque copulae sorte misceri atque ita sine ullo masculorum concipere semine et sine coniunctione generare natosque ex his in multam aetatem longaevitate procedere... Impossibile putatur in Dei Matre quod in vulturibus possibile non negatur? Avis sine masculo parit et nullus refellit: et quia desponsata Mania peperit, pudori eius faciunt quaestionem... Non ci parrebbe inverosimile che la "femmina di vultur" fosse stata la parra Vestae, cui era consacrata perpetua virginitate Rea Silvia, madre di Romolo e Remo (Liv., 1, 3, 11), i cui presagi, ante condendam Urbem, erano forniti dal numero del vultures apparsi (cf. D’Arcy W. Thompson, op. cit. p. 85), se non rendessero meno probabile l'ipotesi le seguenti obbiezioni: [...]

Ed ecco la pietra dello scandalo: D’Arcy Wentworth Thompson. Nel dicembre 2004, dopo uno scambio epistolare con Robert Hoyland dell'Università scozzese di Aberdeen ho potuto assodare che l'insigne studioso scozzese era protestante, per cui il suo errore circa il dogma dell'Immacolata Concezione è in parte scusabile, ma solo in parte. Ecco le due missive con le quali Robert Hoyland ha messo a fuoco la fede religiosa di D’Arcy Thompson: Dear Elio, I haven't had any luck with the denomination of D'Arcy Thompson; you are right, all the biographies focus on his academic achievements. I have asked two scholars from the Scottish History dept here, but they didn't know either. I would think it more likely that he was a Protestant of some sort, just because of his socio-economic status, but I will keep asking around. - Dear Elio, I recently got a reply back from the Strathmartine centre in Scotland who told me that D'Arcy Wentworth Thompson was born and raised Protestant, became agnostic in his thirties, but returned to Protestantism in later life (the source is apparently his daughter Ruth). Hope this helps, best wishes, Robert.

E vediamo il corpo del reato tratto da A glossary of Greek birds (1895), dove oltretutto Noto viene etichettato come vento del nord:

Ma ecco che nel 1979 in Ornithologia Latina Capponi rinnega il suo passato di seminarista e si lascia bellamente traviare da D’Arcy Thompson:

Ecco spiegato perché l'avvoltoia rappresenta un bel tranello per il dogma dell'Immacolata Concezione. Se non vogliamo cadere nell'errore di D’Arcy Thompson, di Filippo Capponi e di una miriade di Cattolici italiani, impariamo l'invocazione dell'arrapata matricola. Richiede un minimo sforzo mnemonico e ci rende immuni dall'eresia.

O Maria, che fosti concepita senza peccato,
fammi peccare senza concepire!

Stavolta l'avvoltoia
è solo in parte colpevole

Ken Follett, nato a Cardiff nel Galles il 5 giugno 1949, è un ottimo romanziere in grado di avvincere il lettore fino al punto di fargli desiderare che il racconto non abbia termine. È una sensazione che raramente ho provato e Ken Follett è stato in grado di suscitarla proprio per il romanzo di cui ci occuperemo: A place called freedomUn luogo chiamato libertà.

L'enciclopedia Grolier che Follett non è tenuto a conoscere, ma che penso sia nota oltre che a me anche a buona parte degli anglofoni, riferisce chiaramente in cosa consiste l'Immacolata Concezione: The Immaculate Conception is a Roman Catholic doctrine asserting that Mary, the mother of Jesus, was preserved from the effects of original sin from the first moment of her conception.

Se nel dizionario di inglese di Ragazzini in Cd-Rom (Zanichelli, 2005) utilizzando la ricerca avanzata immettiamo 'immacolata', ecco che per lo più i dati forniti corrispondono al vero. Solamente alla voce inglese virgin troviamo "the Virgin Birth, l'Immacolata Concezione". Il che non corrisponde al vero, in quanto Maria fu immacolata quando fu concepita e non quando nacque, cioè quando dopo 9 mesi abbandonò l'utero di Sant'Anna.

Nel passo che vedremo Ken Follett ha scritto "whether it had been an immaculate conception and a virgin birth – se si era trattato di una immacolata concezione e di una nascita virginale", per cui immacolata concezione e partenogenesi diventano equivalenti. Bastava che scrivesse "a virgin birth" e io non gli avrei scritto una email che vedremo in chiusura. Molto correttamente mi ha risposto che gli dispiace di questi errori: alcuni passano sempre inosservati per quanto ci ponga attenzione - a few always slip through, no matter how careful we are.

Non sono al corrente delle conoscenze religiose di Ken Follet, né di colei che ha tradotto il suo capolavoro, ma costei, Roberta Rambelli, è tutta italiana e penso che anche lei fa festa l'8 dicembre. La Rambelli, invece di salvare Ken Follett, lo fa tacciare di ignorantismo, in quanto traduce lo stralcio inglese solo con "immacolata concezione" anziché con "partenogenesi," ma trattandosi di un romanzo, suona molto meglio "nascita virginale".

Ecco la documentazione, a dimostrazione del fatto che l'invocazione della matricola non rientra nel bagaglio culturale osceno di Roberta Rambelli, così come non rientra in quello della maggior parte degli italiani.

martedì 20 ottobre 2009

Dear Dr Follett,
In your novel A Place Called Freedom, the first your novel I have read (in Italian, and it is a very splendid novel) perhaps there is a mistake about the Immaculate Conception.
It is difficult to affirm that your English text is fully a mistake (Jay is asking "whether it had been an immaculate conception and a virgin birth").
Fully a mistake is the translation into Italian by Roberta Rambelli, where your virgin birth is omitted.
Let me know if you want to clarify this problem. And excuse my English.
I discussed the problem some years ago in my site (www.summagallicana.it), but in Italian. But they told me that perhaps you read or speak Italian. All the best.
Elio Corti 
PS - I want to read all your novels. You have the power of involving the reader, but this doesn't happens to me, for example, with Oriana Fallaci.

lunedì 26 ottobre

Thanks for your e-mail. I'm delighted that you enjoy my books so much.
Sorry about the errors you noticed! It seems a few always slip through, no matter how careful we are.
Thanks again for getting in touch.
Ken Follett


Il testo di San Basilio
e di Sant'Ambrogio

Oggi, resi edotti dagli ornitologi, siamo pronti a inorridire o a sghignazzare di fronte a ciò che riferiva Eliano a proposito della partenogenesi delle avvoltoie. Se non vogliamo incorrere in una scomunica, guardiamoci anche solo dal sorridere leggendo le false affermazioni ornitologiche dei due Santi. Se, come essi affermano, abbiamo l'obbligo e il privilegio di credere nella partenogenesi anemofila di Maria avvenuta grazie allo Spirito Santo, diventa automatico dover credere che tutt'oggi le avvoltoie rimangono gravide grazie a Noto oppure a Euro.

San Basilio

Ὁμιλία εἰς τὴν Ἑξαημέρον ηʹ
Περὶ πτηνῶν καὶ ἐνύδρων

www.documentacatholicaomnia.eu

Πολλὰ τῶν ὀρνίθων γένη οὐδὲν πρὸς τὴν κύησιν δεῖται τῆς τῶν ἀρρένων ἐπιπλοκῆς· ἀλλ᾿ ἐν μὲν τοῖς ἄλλοις ἄγονά ἐστι τὰ ὑπηνέμια, τοὺς δὲ γύπας φασὶν ἀσυνδυάστως τίκτειν ὡς τὰ πολλά, καὶ ταῦτα μακροβιωτάτους ὄντας· οἷς γε μέχρις ἑκατὸν ἐτῶν, ὡς τὰ πολλά, παρατείνεται ἡ ζωή. Τοῦτό μοι ἔχε παρασεσημειωμένον ἐκ τῆς περὶ τοὺς ὄρνιθας ἱστορίας, ἵν᾿ ἐπειδάν ποτε ἴδῃς γελῶντάς τινας τὸ μυστήριον ἡμῶν, ὡς ἀδυνάτου ὄντος καὶ ἔξω τῆς φύσεως, παρθένον τεκεῖν, τῆς παρθενίας αὐτῆς φυλαττομένης ἀχράντου, ἐνθυμηθῇς ὅτι ὁ εὐδοκήσας ἐν τῇ μωρίᾳ τοῦ κηρύγματος σῶσαι τοὺς πιστεύοντας, μυρίας ἐκ τῆς φύσεως ἀφορμὰς πρὸς τὴν πίστιν τῶν παραδόξων προλαβὼν κατεβάλετο.

Homilia  in Hexaemeron VIII
De volatilibus et aquaticis
Patrologiae Graecae tomus XVII
 Jacques-Paul Migne – Paris 1857

6 - Multis avium generibus ad conceptum nihil opus est copula marium: sed in aliis generibus edita citra coitum ova, infecunda sunt. Ferunt autem sine coitu ut plurimum parere vultures, licet maxime longaevos: quippe quibus vita ad centum usque annos plerumque protendatur. Id velim notatum et observatum ex alitum historia: ut si quando nonnullos videris mysterium nostrum irridere, quasi fieri nequeat, et quasi sit a natura alienum, ut virgo, virginitate eius intemerata permanente, pepererit, veniat in mentem tibi, Deum, cui per praedicationis  stultitiam credentes salvos facere libuit, innumera incitamenta, ab ipsa natura desumpta, ad fidem rebus stupendis conciliandam in antecessum proposuisse.

6 – Per molte categorie di uccelli non è necessaria la copula dei maschi per concepire: ma in altre categorie - come nel pollo - le uova deposte senza il coito sono infeconde. Riferiscono infatti che senza il coito le avvoltoie partoriscono moltissimo, anche se assai attempate: infatti per lo più la loro vita si prolunga fino a cent'anni. Ecco cosa vorrei che fosse segnalato ed evidenziato basandomi sui resoconti relativi agli uccelli: affinché, se talora ti sembra che qualcuno si fa beffe del nostro mistero, come se non possa accadere e sia estraneo alla natura che una vergine abbia partorito continuando a rimanere casta nella sua verginità, ti venga in mente che Dio, al quale piacque, tramite la stupidità della predicazione*, salvare coloro che vi credono, anticipò innumerevoli incitamenti desunti dalla natura stessa al fine di abbinare la fede a cose meravigliose.

* Corinzi I - I,21 Poiché, infatti, nel disegno sapiente di Dio il mondo, con tutta la sua sapienza, non ha conosciuto Dio, è piaciuto a Dio di salvare i credenti con la stoltezza della predicazione.

Sant'Ambrogio
Hexaemeron - Liber quintus

De opere quinti diei caput XX - Vultures qui sine maris copula gignere dicuntur, virginei partus possibilitatem astruere.

Capitolo 20° relativo al lavoro del quinto giorno della creazione – Le avvoltoie, che si dice partoriscano senza accoppiarsi col maschio e che dimostrano che una vergine può partorire.

Diximus de viduitate avium, eamque ab illis primum exortam esse virtutem: nunc de integritate dicamus, quae in pluribus quidem avibus ita esse asseveratur, ut possit etiam in vulturibus deprehendi. Negantur enim vultures indulgere concubitu et coniugali quodam usu nuptialisque copulae sorte misceri, atque ita sine ullo masculorum concipere semine et sine coniunctione generare, natosque ex his in multam aetatem longaevitae procedere, ut usque ad centum annos vitae eorum series producatur, nec facile eos angusti aevi finis excipiat.

Abbiamo parlato della vedovanza degli uccelli - delle tortore - e abbiamo detto che innanzitutto da essi è nata quella caratteristica positiva: adesso parliamo della castità, che in effetti si afferma con certezza essere tale in parecchi uccelli da poter essere rinvenuta anche nelle avvoltoie. Infatti si afferma che le avvoltoie non si abbandonano all'accoppiamento e che si aggregano per una consuetudine in un certo senso coniugale e per un dovere di vincolo nuziale, e che in questo modo concepiscono senza alcun seme maschile e che generano senza essersi accoppiate, e che i soggetti che ne nascono trascorrono una vita longeva, tanto che la loro discendenza va avanti fino a cent'anni di vita, e che difficilmente li coglie una morte in tenera età.

Quid aiunt, qui solent nostra ridere mysteria, cum audiunt quod virgo generavit, et impossibilem innuptae, cuius pudorem nulla viri consuetudo temerasset, existimant partum? Impossibile putatur in Dei Matre quod in vulturibus possibile non negatur? Avis sine masculo parit et nullus refellit: et quia desponsata viro Maria virgo peperit, pudori eius faciunt quaestionem. Nonne advertimus quod Dominus ex ipsa natura plurima exempla ante praemisit, quibus susceptae incarnationis decorem probaret, et astrueret veritatem?

Cosa dicono coloro che sono soliti deridere i nostri misteri quando sentono dire che una vergine partorì, e ritengono impossibile un parto di una vergine il cui pudore non venne profanato da alcuna intimità con un uomo? Viene ritenuto impossibile per la Madre di Dio ciò che non viene affermato come impossibile nelle avvoltoie? Un uccello partorisce senza il maschio e nessuno ha nulla da ribattere: mentre si mettono a discutere sulla Sua castità per il fatto che la vergine Maria partorì mentre era sposa di un uomo. Non ci rendiamo conto che il Signore si è fatto precedere da tantissimi esempi traendoli dalla stessa natura, con cui dimostrare la bellezza dell'essersi incarnato e attestare il vero?


Conrad Gessner
Historiae Animalium liber III – 1555
De Vulture

trascrizione di Fernando Civardi

[751] ¶ Vultures dicuntur sine concubitu concipere et generare, Ambrosius. Inter vultures mas non est. gignuntur autem hunc in modum: Cum amore concipiendi foemina exarserit, vulvam ad Boream ventum (ἄνελκον, lego ἄνεμον) aperiens, ab eo velut comprimitur per dies quinque quibus nec cibum nec potum omnino capit, foetus procreationi intenta. Sunt porro et alia vulturum (γυπῶν, lego ὠῶν, ut et Basilius videtur legisse, cuius mox verba recitabo) genera quae ex vento concipiunt quidem, sed quorum ova ad esum duntaxat ipsorum, non item ad foetum suspiciendum ac formandum sunt accomodata. At eorum vulturum quorum non est subventaneus duntaxat et inefficax coitus, ova ad gignendam tollendamque sobolem sunt imprimis idonea, Orus. Auctor est in Hexaemero Magnus Basilius, subventanea ova in caeteris irrita esse ac vana, nec ex illis fovendo quicquam excuti. at vultures subventanea fere citra coitum progignere fertilitate insignia, Caelius. Πέντε δ’ἡμέραις πρὸς πυγλὴν πετόμενοι ἀνέμοις, (lego πρὸς πνοὴν πετόμενοι ἀνέμου,) Κυρίως συλλαμβάνουσι γονὴν ὑπην·έμιαν, Io. Tzetzes 12. 439. Vulturem non nasci marem aiunt, sed foeminas omnes generari. quam rem non ignorantes hae bestiae, pullorumque solitudinem ac inopiam timentes, ad gignendos pullos talia machinantur. Adversae Austro volant: vel si Auster non spirat, ad Eurum ventum oris hiatu se pandunt. spiritus venti influens, ipsas implet, Aelianus interprete Gillio. Graece legitur, Ἀντίπρῳροι τῷ νότῳ πετόμενοι, κεχήνασιν. hoc est, adversus Austrum volantes, hiant. ego utero potius quam ore hiante et aperto, ventum eas concipere dixerim, ut Orus etiam sentit. In Geoponicis haec tanquam Aristotelis verba legimus, Τοὺς γῦπας μὴ συγγίνεσθαι, ἀλλ'ἀντιπρρους τῷ νότῳ πετομένους ἐγκυμονεῖν, καὶ διὰ τριῶν ἐτῶν τίκτειν. Tertio a conceptu anno pariunt: nec nidum struunt, ut fertur. sed aegypii mediae inter vultures et aquilas naturae, etiam mares sunt (utriusque sexus) ut audio, et nigri colore: eorumque nidi ostenduntur. vultures vero non parere ova, aiunt, sed statim pullos, eosque mox a nativitate volucres, Idem ut nos vertimus, aliter quam Gillius. Vultures triennio gerunt uterum. nullus enim est mas inter eos: sed foeminae ore aperto (vide ne in Graeco χαίνοντες tantum sit) extensisque alis, zephyrum, aut eius loco Eurum hauriunt, ac inde concipiunt materiam quandam, quae ob sui tenuitatem plurimo tempore eget ad animalis perfectionem. animal enim non ovum pariunt, Simocatus. Aiunt eos saepe sine coitu parere ex vento et calore ac radiis Solis, Varinus in Οἰωνός. Vultures quidam temere dicunt animalia parere, et lac et mamillas habere, et caetera talia. ego vero ut tigrides omnes mares esse invenio, (apud authores:) sic et vulturum genus omne foemineum, Io. Tzetzes. Annum significantes Aegyptii vulturem pingunt. quoniam animal hoc trecentos illos ac sexaginta quinque dies quibus completur annus ita distribuit, ut centum quidem ac viginti diebus praegnans (ἔγκυος, non ἔγγειος ut Gillius legit: qui alia etiam huius loci non recte transtulit) maneat, totidem pullos enutriat: reliquis vero centum ac viginti sui curam gerat, neque uterum ferens, neque alendis addictum liberis, sed seipsum duntaxat ad aliam parans conceptionem. Quinque autem illos qui supersunt anni dies in venti, ut iam dictum est, compressionem et coitum insumit, Orus. Sed varians nonnihil [752] Tzetzes Chiliade 12. cap. 439. Ova (inquit) subventanea procreant centum et viginti diebus: et totidem aliis excudunt ac pullos producunt: denique aliis totidem usque ad volandi facultatem eos educant. per quinque vero dies ex vento concipiunt. Haliaeeti suum genus non habent, sed ex diverso aquilarum coitu nascuntur. Id quidem quod ex iis natum est, in ossifragis genus habet, e quibus vultures progenerantur minores: et ex iis magni, qui omnino non generant, Plinius ex Aristot. in Mirabilibus. vide in Aquila C. ¶ Pariunt vultures ova bina, Aristot. Et alibi, Aedunt non plus quam unum ovum, aut duo complurimum. Foetus saepe cernuntur fere bini, Plinius. Et rursus, Umbricius haruspicum in nostro aevo peritissimus, vulturem parere tradit ova tria: uno ex iis reliqua ova nidumque lustrare, mox abiicere. Immus{s}ulum aliqui vulturis pullum arbitrantur esse, Plinius. Plura de immus{s}ulo leges in Capite de Aquilis diversis.

¶ Vultur nidificat in excelsissimis rupibus: unde fit, ut raro nidus et pulli vulturis cernantur. Quocirca Herodotus Brysonis rhetoris pater, vultures ex diverso orbe nobis incognito advolare putavit, argumento, quod nemo nidum vidisset vulturis, et quod multi exercitum sequentes repente appareant. sed quanquam difficile nidum eius alitis videris, tamen visus aliquando est, Aristot. Et rursus, Vulturis vel pullum vel nidum a nemine visum adhuc nonnulli aiunt. et nimirum ob eam rem Herodotus Brysonis rhetoris pater, aliunde situ eminentiore quodam venire dixit: argumentumque afferebat, quod brevi tempore multi apparerent, et tamen unde, constaret nemini. Sed causa huius rei est, quod rupibus inaccessis pariat: neque locorum plurium incola avis haec est. Vulturum nidos nemo attigit, ideo etiam fuere qui putarent illos ex adverso orbe advolare falso. Nidificant enim in excelsissimis rupibus, foetus quidem saepe cernuntur, fere bini, Plin. In montibus qui sunt inter civitatem Vangionum, quae nunc Vuormacia vocatur, et Treverim, singulis annis nidificant vultures, ita ut magnus undiquaque foetor ex congestis cadaveribus sentiatur. Quod autem fertur quosdam vultures non coire, falsum est. nam illic quoque saepissime permisceri videntur, Albertus. Niphus etiam in Italia se vulturis nidum vidisse scribit. Vultures, aquilae et falcones nidificant in Creta, non in arboribus ut caeterae aves, sed in difficilibus rupium praecipitiis super mare propendentibus, ita ut videri vix possint, nec pulli eorum nidis eximi, nisi quis fune a rupibus demittatur, Bellonius. Aiunt vultures non nidificare, Aelianus si bene memini. ¶ Ex Hieronymo compertum nobis est, vulturem quum coeperit ova aedere, quippiam ex Indico tractu afferre, quod est tanquam nux, intus habens quod moveatur, sonumque subinde reddat. Id vero sibi ut apposuerit, multos foetus producere, sed unum tantum remanere, qui immusulus a plerisque dicitur. Masurius vero pullum aquilae eo nomine intelligit, priusquam albicet cauda, Caelius. Hoc quidem quod ex Indico tractu affert instar nucis, etc. aëtiten lapidem esse dixerim, quo aquila etiam ad partum promovendum utitur, ut quidam credunt: de quo copiose suo loco scripsimus. Aquilae quidem et vulturis historiam recentiores fere confundunt. ¶ De vulturibus apud Ambrosium comperi, nasci eos absque coitu: et ita natos in multum superesse aevi, adeo ut ad annum centesimum vitae series producatur, Caelius. Vultur fertur pene usque ad centum annos procedere, Isidorus. In extrema senecta quidam adeo rostrum eius incurvari scribunt, ut prae fame moriatur: sed hoc veteres de aquila.


Ulisse Aldrovandi
Ornithologiae
Hoc est de Avibus historiae libri XII - 1599
De Vulture
Sexus. Coitus. Partus. Incubatus. Educatio.

trascrizione di Fernando Civardi

[244]

PORTENTOSA sane et valde controversa multi non solum poetae, sed gravissimi etiam Philosophiae Theologi de Vulturina generatione memoriae prodiderunt. In quorum tanta lite et contradictione concilianda nos extrema, quae plerumque in vitio sunt, evitabimus, et media quadam via incedemus, et nostram sententiam, quantulacunque ea sit, quam longo usu comparavimus, rerum naturalium cognitione adiuti, discussis tenebris, claram facere tentabimus: pria tamen aliorum opiniones exponemus.

Nidos extruere Vultures Aelianus et alii aliquot omnino negant. Praeterea in Vulturum specie faemineum sexum tantummodo reperiri, plurimi asserunt: prodigiosum quendam procreandi ritum, et qui a faeminis solis, nulla maris opera peragatur, commenti. Hoc tamen Aelianus, velut ex aliena sententia, adstruit, cum inquit: Vulturem non nasci marem aiunt, sed faeminas omnes generari, quam rem non ignorantes hae bestiae pullorumque solitudinem ac inopiam timentes, ad gignendos pullos talia machinantur. Adversae Austro volant, vel si Auster non spiret, ad Eurum ventum oris hiatu se pandunt. Spiritus venti influens ipsas implet. Idem, at paulo aliter Orus: Inter Vultures, inquit, mas non est, gignuntur autem hunc in modum: Cum amore concipiendi faemina exarserit, vulvam ad Boream ventum aperiens, ab eo velut comprimitur per dies quinque, quibus nec cibum, nec potum omnino capit foetus procreationi intenta. Hinc Pictorius:

Vulturis et miram naturam dicere possum,
Dum genus hoc marem non peperisse patet.
Et Tzetzes:

Vultures quidam inconsiderate dicunt animantia parere.
Habereque lac, et mammas, et caetera talia:
Ego autem, ut inveni mares esse omnes Tygrides
Sic et faemineum Vulturum inveni omne genus,
Quinque autem diebus natibus volantes contra ventos
His concipiunt prolem subventaneam.

Tantum nonnunquam valet in animis hominum praeoccupata opinio, ut etiam Magnus ille Basilius, sive ita ex animo sentit, sive aliorum placita in usum suum traducit, subventanea ova in caeteris irrita esse author sit, nec ex illis fovendo quidquam excuti, at in Vulturibus citra coitum foecunditate esse insignia. Paulo cautius D. Ambrosius, non simpliciter asseverat, sed Vultures dicuntur, inquit, sine concubitu concipere et generare. Verum ut in hoc plerisque inter se convenit, quod absque coitu e vento concipiant faeminae: ita quam diu uterum gerant, ac quid tandem pariant, mire authores variant: Sic Orus; Animal hoc trecentos illos ac sexaginta quinque dies, quibus completur annus, ita distribuit, ut centum quidem et viginti diebus praegnans maneat, totidem pullos enutriat, reliquis vero centum ac viginti sui curam gerat, neque uterum ferens, neque alendis addictum liberis, sed seipsum duntaxat ad aliam parans conceptionem. Quinque autem illos, qui supersunt anni dies in venti, ut iam dictum est, compressionem, et coitum insumit. Quapropter Aegyptii annum, ut idem testatur, significaturi, Vulturem depingunt. Ab hoc in temporis distributione, ac educationis diuturnitate dissentit Tzetzes, ita inquiens:

Quinque autem diebus natibus volantes contra ventos,
His concipiunt prolem subventaneam,
In centum autem et viginti diebus procreant
Subventanea ova, in totidem vero aliis
Ex ovis extrudunt, et pullos generant,
In centum autem et viginti diebus aliis,
Usque ad alarum perfectionem ipsorum educant illos.

Ita de eorum partu; alioquin Oro conformis est, qui suam sententiam his verbis explicat: Sunt porro et alia Vulturum genera, quae ex vento non concipiunt, quorum ova ad esum duntaxat, non item ad foetum suscipiendum ac formandum sunt accomodata. At eorum Vulturum, quorum non est subventaneus duntaxat, et inefficax coitus, ova ad tollendam, gignendumque sobolem sunt in primis idonea.

Huic opinioni suffragatur non solum Plinius, sed et Aristoteles, veritas ipsa, quantum quidem ad ovorum procreationem attinet. Plinius quidem diversis locis Umbricium etiam Aruspicem clarissimum testem allegans, ova excludere Vultures asserit. Idem ipsemet Aristoteles bis disertis verbis, quae post citabimus, testatur. Ab horum sententia longe discedunt Simocatus,

[245]

Philes, et Aristoteles ipse (si diis placet) sui scilicet oblitus, nisi potius huius simius quispiam nobis fucum facit, in Geoponicis, quae eius nomine circumferuntur, ita scribens: Vultures tertio a conceptu anno pariunt, nec nidum struunt, ut fertur, neque ova pariunt, sed statim pullos, eosque mox a nativitate volucres. Huic quisquis est, magis quam veritati consentanea dicit Simocatus, ubi, Vultures, inquit, trien<n>io uterum gerunt, nullus enim est mas inter illos, sed faeminae ore aperto, extensisque alis Zephyrum aut eius loco Eurum hauriunt, ac inde concipiunt materiam quandam, quae ob sui tenuitatem plurimo tempore eget ad animalis perfectionem, animal enim, non ovum pariunt. Ab horum parte stat Philes ita scribens:

Θῆλυς δὲ πᾶς γὺψ καὶ Φθορᾶς ἄνευ κύη,
χαίνων γὰρ ἀντίπωρος ὑψοῦ πρὸς νότον,
Συλλαμβάνει τὸ πνεῦμα, καὶ τρίτου χρόνου,
Στρουθοὺς πτερωτοὺς ἀπὸ μήτρας ἐξάγη.
Οἱ ζῶσιν εὐθὺς ἐξ ὀνύχων ἁρπάγων, id est,
Faemina vero omnis Vultur, et absque, coitu gignit,
Hians enim conversus in sublime ad Notum
Concipit spiritum, et tertio anno
Pullos volucres e matrice excludit;
Qui vivunt e vestigio ope unguium rapacium.

Hi quidem omnes Vultures Faeminas tantum esse, et sine copula, ut Isidori verbis utar, concipere et generare unanimiter asserunt. Quibus plus aliquid addit Orus, qui Vulturem non solum in faemineo sexu principem, ac primarium constituit, sed et hermaphroditum facit, cum per Vultures solos ex Diis mares simul ac faeminas, nempe Vulcanum, et Minervam apud Aegyptios ideo designari praeter caetera tradit, quod generationis ipse sibi author crederetur et mater, et principium. At in reliqua procreationis fabula texenda, mire variant, cum hic oviparum, alius viviparum facit; hic intra centum et viginti dies; ille non citius triennio parere affirmet. Nimirum ut simplex et una est veritas, ita mendacium multiplex, et ex uno, ut inquit Philosophus, absurdo multa sequuntur. Verum de hac opinione satis superque dictum sit. Nunc alteram partem audiamus, quae cum superiore plane pugnat. Primum nidificare Vulturem, idque in excelsissimis rupibus ante ex Aristotele et Plinio patuit. Sed et Niphus in Italia se Vulturis nidum vidisse scribit. Albertus Magnus Philosophus haud vulgaris, et D. Thomae praeceptor, non solum nidos eos extruere, sed, et Venerem exercere aperte docet, ubi ait: In montibus, qui sunt inter civitatem Vangionum, quae nunc Vuormatia vocatur, et Treviros, simgulis annis nidificant Vultures, ita ut magnus undiquaque foetor ex congestis cadaveribus sentiatur. Quod autem fertur quosdam Vultures non coire, falsum est: nam illic quoque saepe permisceri videntur. Sed ut eo loco permisceri visos esse tanto viro lubens credo, tamen quam bene ex hoc colligat nullos non coire, non video: Fieri enim potest, ut sterile quoddam sit Vulturum genus, ut paulo post Aristoteli et Plinio placere demonstrabimus, et quod absque Veneris illecebris vitam agat. Ut vero quid sentiam hac in re dicam, plerosque coire certus sum, et fabulosa reputo, quae de conceptu ex vento feruntur: non tamen omnes foecundos necessario statuendos existimo. Etenim et marem et faeminam in Vulturum etiam genere reperiri, et faeminam a mari iniri naturae lex dicat. Sunt enim Vultures Aves verae et perfecta animalia, quae omnia communi naturae praescripto, utroque sexu gaudent. Quae itaque quaeso ratio est, cur Vultures altero sexu mancos statuamus? Verum cum mecum reputo, unde hoc commentum nasci potuerit, id pluribus modis fieri potuisse video. Primum enim ova tredecim (ita quidam legunt) Vulturem parere Plinius scribit ex Umbricio Aruspice. At fortasse cum ovorum plurima pars irrita sit (binos enim plerumque Vulturis excludi pullos idem author est) itaque occasionem illi arripuere in animum inducendi, quasi e vero vento hae Aves pariant. Huiusmodi enim tum harum, tum aliarum Avium ova et subventanea, et Zephiria dixere, quaeque ad cibum solummodo, non etiam ad prolem producendam essent utilia. Alteram id credendi ansam Avis istius libido subministrare potuit, quae tanta esse dicitur, ut ea accensae faeminae, si mas fortasse absit, inter sese saliant, et mutua libidinis imaginatione concipiant, vel, ut nonnulli arbitrati sunt, ipso pulvere in naturam vento aut vi pruritus attracto, ovaque edant, ut Gallinae, Perdices, et Anseres solent, hypenemia seu subventanea. Alterius causae id opinandi, quaeque ab hac utraque diversa est, Plinius author esse potuit, marem asserens, qui proli gignendae incumbat, in Vulturibus nullum reperiri, cum inquit: Haliaeti suum genus non habent, sed ex diverso Aquilarum coitu nascuntur: id quidem quod ex iis natum est, in Ossifragis genus habet, e quibus Vultures progenerantur minores: et ex iis magni, qui omnino non generant. Haec Plinius, eaque ex Aristotele procul dubio excerpta. Verum licet ex his verbis postremis masculorum in quibusdam Vulturibus defectum, non male aliqui fortasse colligant, an vero ex eo omnes faeminas esse recte inferunt? Sed utriuslibet

[246]

sexus sint, cum eos omnino non generare Philosophus asseveret, non est ut tantam foecunditatem, cui ad prolis conceptus ventus sit satis in uterum admissus, hisce affingant. Ova posse parere admittam (neque enim id negare animus est Aristoteli,) sed foetum ullum producere eos recte ex eo elici diffiteor. Cum enim Aquilae, Ossifragae, et Vultures, ut partim ex Aristotele et Plinio palam est, partim res ipsa docet, promiscuo inter se coitu utantur, nihil mirum est, si ex diversarum specierum duabus avibus, tertia quaedam alia, et ab harum specie diversa nempe sterilis generetur (quemadmodum ex Equa et Asino sterilem Mulam procreari videmus) quae ob similitudinem, quam maiorem profecto cum Vulturibus, quam cum Aquilis ipsis habet, illorum classi ascribatur. Hunc enim Vulturem Aristoteles vocat, sed magni cognomento adiecto ab aliis distinguit, et disertis verbis sterilem esse docet, argumentum inde capiens, quod a nemine unquam nidus eius conspectus fuerit. Verba eius haec sunt: Ex Aquilarum paribus alternis Haliaetus et Aquila nascuntur, quoad par eiusdem generis coniugabile nascantur. Ex Haliaetis Fulica, ex his Accipitres, Vulturesque generantur. Verum Vultures non diversum genus, sed grandes rursum Vultures gignunt, eosque steriles, indicio est, quod Vulturis magni nidus nemini mortalium visus sit. Tantum Aristoteles de Vulturum generatione scribit, quam dum exponit, a Plinio non una in re dissentire videtur. Quod fortasse quispiam mirabitur, cum paulo ante dixerimus Plinium, quae de Vulturina genesi, quam ibidem citavimus, scripsit, omnia ex mirabilibus Aristotelis transtulisse. Sed cum haec loca conferrem, facile animadverti non ex authoribus ipsis, at ex interpretibus hanc diversitatem ortam esse. Quod enim de Fulica hic legitur, minime apud Aristotelem reperitur. Textus enim Graecus eo loco habet vocem φήνη, pro qua interpres, quisquis ille fuit, ineptissime. Fulicam vertit. Quo multo oculatior, et utinam ubique tam circumspectus fuisset, Plinius optime Ossifragam exposuit, Avem nempe Aquilis cognatam, ut non uno Aristotelis loco facile liquere potest. Quid enim quaeso, Fulicae cum Aquilis aut Vulturibus, Avi nempe aquaticae et palmipedi cum uncunguibus rapacibus? Quid hoc aliud est, quam nomina cum rebus ipsis confundere? Simile mendum est in dictione Accipitres; huius enim loco textus Graecus habet οἱ περκνοὶ, quae quidem vox non Accipitres, sed Aquilam Anatariam seu Clangam, alibi etiam Morphnon appellatam Aristoteli ubique denotat; ut et Gaza docte interpretatus est. Est etiam inter ipsos authores nonnulla, sed modica dissensio. In hoc enim variant, quod Aristoteles ex Ossifragis, praeter Vultures etiam Percnos seu Anatarias Aquilas gigni tradat, Plinius vero tantummodo Vultures. Atqui Percnos Accipitres interpretati sunt, fortassis alio Aristotelis loco eo deducti sunt, ubi inquit: Quinetiam aduncorum Accipitres specie diversi coire putantur. Sed hic non περκνοὶ, sed ἱέρακες, quae quidem vox proprie Accipitres designat, legitur. Eodem hoc capite ea, quae de promiscuo Vulturum et Aquilarum coitu diximus, generali quadam propositione confirmat, in haec verba: Coeunt animalia generis eiusdem secundum naturam, sed ea etiam quorum genus diversum est quidem, sed natura non multum differt, si par modo magnitudo sit, et tempora aequent graviditatis. Raro id sit, sed tamen fieri et in Canibus et in Vulpibus et in Lupis certum est; nec non in Avibus salacioribus idem fieri visum est. etc. Sane Aquilas cum magnitudine, tum natura nimium discrepare, ante ostendimus. Reperiri vero alios, qui perpetua generatione posteritatem conservent, vel inde evidentissimum est, quod alioquin iam olim a multis s<a>eculis periisse necesse esset eorum genus, nec Vulturem amplius ullum verum in natura haberi. Huiusmodi sunt minores Vultures Aristotele et Plinio testibus, Ossifragae Aquilinae sobolis proles, maiorumque Vulturum sterilium parentes, cognatum Aquilis genus. Nam ex Haliaetis Ossifragas nasci iidem authores asserunt. Quod quidem hi subolevisse videntur, qui medium quoddam inter Aquilas et Vultures genus, quod Aegypion vocant generationi indulgere statuunt. Inter quos est ille, quisquis tandem est, Geoponicorum Aristoteli vulgo attributorum author, ita scribens: Vultures tertio a conceptu anno pariunt, nec nidum struunt, ut fertur, sed Aegypii mediae inter Vultures et Aquilas naturae. Mares sunt etiam (id est, utrumque sexum habent) ut audio, eorumque nidi ostenduntur. Idem Philes, qui in suo de Vulture carmine istaec tradit:

Τοὐναντίον δὲ φασι τοὺς αἰγυπτίους
Τίκτοντας ὠὰ τῇ σπορᾷ τῶν ἀρρένων
,
Εἰς τὰς καλιὰς τοὺς νεοττοὺς,
Ρῶμης ἀγαθῆς, καὶ πτερῶν ἀλλοτρίους. id est,
E contrario autem inquiunt Aegypios
Parientes ova satu marium
In nidis pullos efformare
Roboris laudati, pennisque carentes.

Idem Orus innuere velle videtur hisce verbis: At eorum Vulturum quorum non est subventaneus duntaxat, et inefficax coitus, ova ad gignendam,

[247]

tollendamque sobolem sunt in primis idonea. Maior profecto Vulturum pars, qui a Neotericis describuntur (qualis verbi gratia est Vultur aureus Helvetiorum apud Ornithologum, et quem Equinum seu etiam Leporinum cognominant Germani Alpini, de quibus sigillatim post agemus) tanta coniunguntur affinitate, ut difficillimum sit certo statuere, ad utram potius speciem referendi sunt. Quae ambiguitas procul dubio non aliunde quam ex promiscuo eorum inter se congressu oritur, quibus ipsis fortasse etiam mutua similitudo ac speciei cognatio imponit; quemadmodum et diversarum specierum quadrupedes, Lupos nimirum, Vulpes, Canes eadem ad coeundum inter se allicit et invitat. Unde ex Vulturibus et Aquilis diversimode sibi permistis varios et deformes foetus oriri, atque de variis varia et diversa scribere, ac sentire authores iam minus mirum visum iri unicuique arbitror. Sed de hac controversia satis. Antequam tamen ad reliqua, quae ad generationem spectant pergamus illud neutiquam {praeteriundum} <praetereundum> existimamus, quod ex D. Hieronymo scribit Stephanus Aquaeus, Vulturem nempe cum coeperit ova edere, quippiam ex Indico tractu adferre, quod est tanquam nux, intus habens, quod moveatur, sonumque subinde reddat; id vero sibi, ut apposuerit, multos foetus producere, sed unum tantum remanere, qui Immus{s}ulus dicitur: Verum nux ea meo indicio aetites lapis est, quem nunquid Vultur in nidum inferat, nondum habeo exploratum. A fabulis prorsus alienum est, quod Aristoteles de ovis eorum tradit, inquiens. Pariunt Vultures ova bina: Et alibi: Edunt non plusquam ovum unum, aut duo complurimum. Et quae Plinius de foetibus. Foetus, inquit, cernuntur saepe bini. Et rursus: {Umbritius} <Umbricius> Haruspicum nostro aevo peritissimus, Vulturem parere tradit ova tria (alii tredecim legunt, sed tria legendum esse Barbarus ex Aristotele contendit, et, ut ego reor, recte) uno ex iis reliqua ova, nidumque lustrare, mox abiicere. Et hos forte secutus Albertus bina ova parere ait, quod plures pullos nutrire non possit. Fabulam vero resipit, quae de pullorum educatione Orus prodidit in hanc fere sententiam. Centum illis et viginti diebus, quibus in filiorum enutritione detinetur, nunquam ad praedam longius provolat, uni illi curae intentus, ne pullos deserat, deque propinquo tantum, quae fuerint in promptu convenatur. Quod nisi aliud quicquam suggeratur, occur<r>atve, quod filiis in alimentum paret, ipse dicitur suis foemoribus rostro vellicatis sanguinem ciere, quem filiis exungendum praebeat, tanta curat charitate, ne illi victus egestate deficiant. Hinc ab ea symbolum miserationis ceperunt Aegyptii. Albertus, tantum abest, ut illis hanc in liberos pietatem tribuat, quin alis illos tradit verberare, unguibusque vulnerare, et ex superfluo sibi cibo nutrire, donec volare possint, nec deinde ferre, ut in eadem regione secum vivant ob victus paucitatem. Attamen et cadaveribus etiam eos pascit, usitato sibi pabulo, ut Lucianus innuit, ubi Asinus sortem suam deplorans, ita secum loquitur: τι ἔτι μένεις ἐνταῦθα γύπες σέ, καὶ γυπῶν τέκνα δειπνήσουσιν; id est: Quid amplius expectat, o miser, esca Vulturibus et eorum pullis futurus?


Arnobio di Sicca o il Vecchio

Detto il Vecchio per distinguerlo da Arnobio il Giovane, anch'egli scrittore cristiano (V sec.) originario forse della Gallia. Arnobio il Vecchio, vissuto a Sicca Veneria, Numidia, odierna el-Kef in Tunisia (III secolo - ? 327 ca.) fu uno scrittore latino cristiano, esponente di rilievo della letteratura apologetica. Convertitosi al cristianesimo intorno al 296, quand’era maestro di retorica, scrisse poi i sette libri dell’Adversus nationes (Contro le genti, cioè i pagani) intransigente difesa della propria religione e al contempo severo attacco contro il paganesimo e le dottrine misteriche d’ascendenza neoplatonica, che allora proliferavano nell’impero romano.

Ma Arnobio, scrittore dallo stile piano e scorrevole, sembra assai più padrone della letteratura latina (specialmente di Varrone e Lucrezio) e della filosofia greco-romana (specialmente di Platone, ma anche delle scuole stoica, scettica ed epicurea) che non dei testi biblici, non sempre citati e interpretati in modo corretto.


Giuturna

Nella mitologia romana Giuturna (Juturna) è una ninfa delle fonti. Virgilio (Eneide XII 146) racconta che Giuturna era figlia di Dauno e sorella di Turno, eroe della mitologia italica e re dei Rutuli (antica popolazione latina, scomparsa attorno al sec. V aC, che ebbe tra i suoi esponenti più illustri re Turno legato alle vicende di Enea dopo lo sbarco nel Lazio).

Secondo la leggenda fu amata da Giove che le offrì l'immortalità e il dominio sui corsi d'acqua. Secondo un'altra versione fu moglie di Giano, dal quale ebbe Fonte (Fons) antica divinità romana, detta anche Fonto (Fontus), collegata con le sorgenti. In un passo di Arnobio compare appunto come figlio del dio Giano, al quale si attribuiva il potere di far scaturire acqua dalle sorgenti. Inoltre l'altare di Fonte (ara Fonti), sorgeva proprio sul colle di Giano, il Gianicolo.

Il culto di Giuturna è probabilmente originario di Lavinio (Lavinium), antichissima città latina sul luogo dell'odierna Pratica di Mare, a ca. 20 km da Roma. Sorgeva vicino alla costa laziale e lì Enea sarebbe sbarcato trovandovi come segno del destino la scrofa con i trenta porcellini. Infatti a Lavinio è ricordata una fonte Iuturna. Nel Foro romano esiste un Lacus Iuturnae, vicino al Tempio di Vesta.

A Roma Giuturna aveva un tempio a lei consacrato, che probabilmente è da identificare con il tempio A dell'area sacra di Largo di Torre Argentina. L'edificio fu costruito nel 241 aC come voto di Gaio Lutazio Catulo per la vittoria conseguita su Cartagine nella Battaglia delle Isole Egadi.


Silio Italico

Tiberius Catius Silius Italicus, poeta latino (ca. 25-101). Nacque forse a Padova e si distinse a Roma nell'avvocatura. Intraprese la carriera politica, divenne console sotto Nerone, nel 68, ma non senza sospetto di essere un delatore. Verso il 77 fu proconsole in Asia, quindi si ritirò in Campania, dove possedeva numerose e splendide ville, ricche di libri e di opere d'arte, frequentate da amici. Alla fine si lasciò morire di fame per evitare la sofferenza di un tumore incurabile.

Silio fu un personaggio di fine cultura, sostenitore delle lettere, raffinato cultore della poesia (amava moltissimo Virgilio). Nell'ultima parte della sua vita si dedicò agli studi filosofici, con particolare simpatia per lo stoicismo (suo amico fu il filosofo stoico e letterato latino Lucio Anneo Cornuto), e diede mano alla stesura di un lunghissimo poema epico, il più lungo della letteratura latina (12.200 versi, in 17 libri), sulla II guerra punica.

L'opera, nota comunemente come Punica, non nacque da vera ispirazione ma piuttosto come esercitazione letteraria e, come disse bene Plinio il Giovane in una sua lettera, fu scritta più «con accuratezza che con ingegno». La trattazione è monotona e pesante; continue sono le imitazioni dei modelli classici e faticoso il tentativo di rendere in versi la storia (fonte principale, seguita fin troppo da vicino, è la III deca di Livio); appena un po' vivaci per la loro drammaticità alcune scene di battaglia, qualche ritratto e alcuni momenti della rappresentazione di Annibale.


Protome

Protome del dio Volturno
che, insieme ad altre, un tempo abbellivano le chiavi di volta degli archi
dell’anfiteatro campano (II sec. dC) dell’antica Capua.
L’originale è esposto nel cortile del Museo Campano di Capua.

Protome in greco suona protomë, testa, busto. Elemento decorativo di strutture architettoniche o di oggetti di varia specie (vasi, oreficerie, armi, ecc.) formato dalla testa, e talvolta da parte del busto, di figure animali, più raramente umane. L'uso della protome, già presente nelle antiche civiltà mesopotamiche e largamente diffuso nell'arte classica, fu ripreso nel Rinascimento e continuò con fortuna dal barocco al neoclassico.


Appiano di Alessandria

Storico greco (nato ad Alessandria d'Egitto ca. 95 dC). Ottenuta la cittadinanza romana, si trasferì nella capitale, dove scrisse, in età avanzata, un po' prima del 165, una Storia romana dalle origini mitiche della città fino a Traiano, in 24 libri che hanno per argomento: età regia, storia italica, sannitica, celtica, siciliana e isolana, iberica, annibalica, libica, macedonica e illirica, ellenica e ionica, siriaca, mitridatica, guerre civili (XIII-XVII), storia egizia (XVIII-XXI), conquiste degli imperatori fino a Traiano, storia dacica, storia arabica. A noi sono giunti: interi il proemio, i libri 6-7, 11-17, e in parte l'1-5, l'8 e il 9. La materia, divisa con criterio etnografico, è trattata in modo ineguale, slegato, non senza ripetizioni. Tuttavia l'opera di Appiano è per noi la fonte principale, se non l'unica, per un periodo importantissimo della storia di Roma.


Marasso
Vipera berus

Marasso: dal latino mataris, vocabolo gallico, che significa giavellotto, lancia gallica, tramite la forma antica matarasso. Serpente della famiglia Viperidi ampiamente diffuso in Europa e in Asia settentrionale e centrale. Per il suo notevole adattamento alle basse temperature, è presente anche sui rilievi montuosi sino a oltre i 2000 m. Lungo ca. 60 cm, si differenzia dalla vipera comune per il capo senza protuberanza anteriore e per la colorazione, variabile, ma con una linea dorsale scura a zig-zag. Pericoloso per la sua facile irritabilità, il suo morso non è mortale ma provoca gravi disturbi.


Anaconda

Dall'inglese anaconda, che risale probabilmente a un termine tamilico (la più nota lingua dravidica, parlata nell'India sud-orientale e nella parte settentrionale dell'isola di Ceylon). Nome comune del genenere Eunectes di Rettili Squamati della famiglia Boidi e più propriamente dell'Eunectes murinus, proprio delle foreste sudamericane, con tutta probabilità il più grande tra i serpenti viventi (può superare i 7 m di lunghezza, con un diametro corporeo veramente eccezionale). Vive in prossimità dei corsi d'acqua, nel folto della vegetazione; di indole non aggressiva, al sopraggiungere dell'uomo cerca scampo nella fuga, quasi sempre a nuoto. A dispetto delle sue dimensioni l'anaconda si nutre di prede relativamente piccole, in particolare di uccelli. Ovoviviparo, partorisce da 4 a 39 piccoli per volta, la cui lunghezza può raggiungere gli 80 cm. Oltre a Eunectes murinus, di colore brunastro con grandi macchie trasversali più scure, è presente, sempre nell'America Meridionale, la specie Eunectes notaeus, detto anaconda giallo.


Ulisse Aldrovandi
conferma la sua inaffidabilità

Ho chiesto consiglio a Roberto Ricciardi per sapere se talora vengo colto da allucinazioni oppure se sono un predestinato. Ricciardi ha categoricamente sentenziato che sono un predestinato, predestinato a scoprire a ogni piè sospinto l'inaffidabilità di Ulisse Aldrovandi.

Debbo riconoscere che il primum movens è stato Fernando Civardi. Alla fine di novembre del 2007 il nostro amanuense elettronico mi inviava la trascrizione del libro XIV dei Geoponica tradotti da Janus Cornarius. Fernando, memore del fatto che avevo escluso Aristotele dalla congrega dei creduloni circa la partenogenesi delle avvoltoie, mi fa notare che invece il libro XIV dei Geoponica si chiude proprio con le parole di Aristotele il quale afferma che le avvoltoie non si accoppiano e che vengono ingravidate dal vento. Ecco il breve testo di questo ultimo capitolo del libro XIV.

Cap. xxvi. De vulturibus. - Aristoteles. - Aristoteles tradit vultures unguenti odore interire. Scarabeos autem odore rosarum. Haec enim ipsis graveolentia esse. Vultures insuper non coire, sed facie obversa et adversus austrum exporrecta volare, atque sic praegnantes fieri, et per tres annos parere.

Quasi non credo ai miei occhi. Mi getto su Aristotele ma non cavo il ragno dal buco. Dico a Fernando che si tratta di una bufala propinata dai Geoponica e Ricciardi concorda pienamente.

Ma ecco che Fernando persevera in colpevolezza, stavolta nei diretti confronti di Aldrovandi. Infatti, essendomi reso edotto circa la partenogenesi anemofila grazie alle ricerche titillate da San Basilio & company, vado a spulciare l'avvoltoio dell'ornitologia di Gessner e di Aldrovandi per vedere cosa avevano raccolto i due insigni studiosi. Inutile dire che insigne si è dimostrato, come al solito, Gessner, mentre Aldrovandi è ulteriormente precipitato verso il fondo del baratro dell'inaffidabilità.

Anni fa su mia richiesta Fernando aveva trascritto l'avvoltoio di Aldrovandi, un testo che non avevo mai analizzato circa eventuali riferimenti ai Geoponica, che sulla scia di Gessner il nostro Ulisse non tralascia di riportare, però scambiando il testo di Eliano per quello dei Geoponica. Il bello è che Gessner è sempre molto chiaro e preciso nelle citazioni, e non si smentisce neppure stavolta a proposito dell'avvoltoio. Oddio! Anche Aldrovandi non si smentisce, ma vendendo, come al solito, bufale per verità.

Evito di tradurre i relativi testi. Noterete che Gessner con un tanquam mette in dubbio la veridicità della citazione aristotelica dei Geoponica circa la partenogenesi anemofila (In Geoponicis haec tanquam Aristotelis verba legimus). Lo stesso fa Aldrovandi (nisi potius huius simius quispiam nobis fucum facit), ma le sue citazioni redatte in corsivo sono tratte da Eliano e non dai Geoponica. Ulisse ha semplicemente ripreso ciò che Gesner attribuisce a Eliano prima e dopo la citazione dello stralcio in greco.

Conrad Gessner Historia animalium III (1555) pagina 751

Vulturem non nasci marem aiunt, sed foeminas omnes generari. quam rem non ignorantes hae bestiae, pullorumque solitudinem ac inopiam timentes, ad gignendos pullos talia machinantur. Adversae Austro volant: vel si Auster non spirat, ad Eurum ventum oris hiatu se pandunt. spiritus venti influens, ipsas implet, Aelianus interprete Gillio. Graece legitur, Ἀντίπρῳροι τῷ νότῳ πετόμενοι, κεχήνασιν. hoc est, adversus Austrum volantes, hiant. ego utero potius quam ore hiante et aperto, ventum eas concipere dixerim, ut Orus etiam sentit. In Geoponicis haec tanquam Aristotelis verba legimus, Τοὺς γῦπας μὴ συγγίνεσθαι, ἀλλ'ἀντιπρώρους τῷ νότῳ πετομένους ἐγκυμονεῖν, καὶ διὰ τριῶν ἐτῶν τίκτειν. Tertio a conceptu anno pariunt: nec nidum struunt, ut fertur. sed aegypii mediae inter vultures et aquilas naturae, etiam mares sunt (utriusque sexus) ut audio, et nigri colore: eorumque nidi ostenduntur. vultures vero non parere ova, aiunt, sed statim pullos, eosque mox a nativitate volucres, Idem ut nos vertimus, aliter quam Gillius.

Ulisse Aldrovandi Ornithologiae Hoc est de Avibus historiae libri XII (1599)

pagina 245 - Ab horum sententia longe discedunt Simocatus, Philes et Aristoteles ipse (si diis placet) sui scilicet oblitus, nisi potius huius simius quispiam nobis fucum facit, in Geoponicis, quae eius nomine circumferuntur, ita scribens: Vultures tertio a conceptu anno pariunt, nec nidum struunt, ut fertur, neque ova pariunt, sed statim pullos, eosque mox a nativitate volucres.

pagina 246 - Inter quos est ille, quisquis tandem est, Geoponicorum Aristoteli vulgo attributorum author, ita scribens: Vultures tertio a conceptu anno pariunt, nec nidum struunt, ut fertur, sed Aegypii mediae inter Vultures et Aquilas naturae. Mares sunt etiam (id est, utrumque sexum habent) ut audio, eorumque nidi ostenduntur.


Condor della California
Un omaggio al Dr Mikhail Romanov

Per il mio compleanno del 23 agosto 2008 ho ricevuto da Misha questa splendida foto di Condor della California, Gymnogyps californianus. Ho ritenuto opportuno gratificare sia Misha sia uno dei rappresentanti degli avvoltoi del Nuovo Mondo. E ho pure ritenuto opportuno onorare Yma Sumac, l'Usignolo delle Ande, che ha mandato il condor in ogni angolo della Terra grazie alla sua insuperabile voce.

23-8-2008 - A brief forward is needed. Some of you remember me as a member of the Jerry's lab where I was involved in the chicken genome project as well as studies on physical mapping in turkey and zebra finch. Now I relocated to this area. Here, at the San Diego Zoo Center for Conservation and Research of Endangered Species, whose logo is decorated with a flying condor image, Oliver Ryder has been dreaming for years to launch a new project on genetics and genomics of the California condor, and I hope his dream now comes true.
So, why California condor? Actually, the state bird of California is the California quail, not the condor. But the condor, to my mind, deserves much more to be an avian icon of this state, as can be seen on this recent California state quarter, together with one of the earliest modern preservationists John Muir.-
Misha

Yma Sumac
dal quechua Ima Shumaq – che bella! – how beautiful! – qué linda!

Zoila Augusta Emperatriz Chávarri del Castillo
Perú, Ichocán, Cajamarca, 10 de septiembre de 1922
Estados Unidos, Los Ángeles, 1 de noviembre de 2008

L'Usignolo delle Ande - The Andean Nightingale

El condor pasa

Condor della California
Gymnogyps californianus

L'etimologia di Gymnogyps è greca: gymnós  = nudo e gýps = avvoltoio, ma di nudo ha solo la testa e parte del collo. Condor deriva dal quechua ecuadoriano cuntur. Il magnifico e imponente condor della California (Gymnogyps californianus) è senza dubbio l'uccello da preda di maggiori dimensioni che versa in grave pericolo di estinzione. Di dimensioni simili a quelle del condor delle Ande (Vultur gryphus), il condor della California può raggiungere anche i tre metri di apertura alare ed un tempo occupava una vasta area di diffusione che riguardava tutta la zona costiera pacifica del Nord America dal Canada al Messico, ridotta, nel XIX secolo, alle zone più impervie e montuose.

Il condor della California è un animale antico. Suoi resti sono stati trovati in diversi depositi fossili risalenti al Pleistocene. Sebbene alcuni studiosi ritengano che tali reperti appartengano a una specie molto simile (e cioè al Gymnogyps amplus) resta il fatto che il Gymnogyps amplus è comunque il diretto progenitore del condor della California dal quale sarebbe derivato verso la fine del Pleistocene. Per secoli comunque ha vissuto con le popolazioni umane delle tribù del Nord America. Numerose ossa ritrovate risalirebbero addirittura a 200.000 anni fa. Molti ritrovamenti sono di epoca più recente, risalendo tra gli 8000 e i 4500 anni fa. Ritrovamenti di Gymnogyps sono stati effettuati in almeno 25 aree negli Stati Uniti e nel Messico. Agli occhi del mondo occidentale questa specie risultò sconosciuta sino al 1797, quando questo magnifico falconiforme fu descritto dal naturalista Shaw. Tra i primi pionieri del West che incontrarono il condor vi furono i due famosi esploratori Lewis e Clark, che lo osservarono nel 1805 lungo il fiume Columbia vicino a Sprague, nello stato di Washington. Le minacce cui fu sottoposto questo autentico simbolo delle montagne costiere nordamericane furono molteplici e tutte dovute, ovviamente, all'inconsulto intervento umano. Al di là della diretta uccisione di diversi individui, molti altri morirono avvelenati dalle esche poste appositamente dai cacciatori per distruggere i predatori delle specie oggetto di caccia; inoltre numerosi episodi di saccheggio dei nidi con distruzione delle uova e le tante attività di disturbo soprattutto nel periodo della riproduzione contribuirono ad aggravare lo stato di questa specie dal ciclo biologico particolarmente delicato e, secondo alcuni studiosi, ormai giunto forse alla fase critica della «vecchiaia» nella sua lunga storia evolutiva.

Biologia

Soggetto adulto

Questo avvoltoio presenta un piumaggio di color nero con riflessi metallici bluastri; sulle ali sono presenti delle barre alari bianche, visibili osservando l'uccello in volo. La testa e il collo sono nudi e di colore arancione rossastro. È presente, alla base del collo, un collare costituito da lunghe e sottili piume scure. Le zampe presentano tarsi e piedi nudi con una colorazione variabile dal grigio all'arancione. Non esiste dimorfismo sessuale sebbene il maschio appaia leggermente più grande della femmina. Gli individui immaturi hanno un piumaggio scuro, privo di riflessi metallici, e acquistano l'abito adulto intorno ai 5-6 anni di vita.

Soggetto giovane

Il condor della California non si riproduce ogni anno, ma ogni due anni: depone un solo uovo e il piccolo nato resta per molti mesi nel nido prima di spiccare il primo volo. Il ciclo riproduttivo lentissimo rende questa specie molto vulnerabile a qualsiasi intervento di disturbo provocato dall'uomo, anche perché se una covata viene abbandonata, la coppia salta la riproduzione anche per quell'anno. Se aggiungiamo a questo quadro il fatto che ogni condor della California raggiunge la maturità sessuale molto tardi (come avviene per tutti gli avvoltoi e i grandi rapaci), a sei anni, la delicatezza complessiva del ciclo biologico di questa specie appare in tutta la sua completezza.

Le tappe della distruzione

Mentre per molte tribù indiane il condor della California era considerato una sorta di simbolo dell'immortalità e come tale venerato e rispettato, per l'uomo bianco divenne subito un animale da cacciare e da distruggere con qualsiasi mezzo.

Dall'ampio areale che lo spettacolare uccello occupava sin dal Pleistocene, con l'intervento diretto e indiretto dell'uomo la specie andò rapidamente assottigliandosi, facendo temere per il suo futuro già verso la fine del 1800. Sebbene ancora discretamente diffusa e osservata con una certa regolarità, alla fine del XIX secolo la specie era già ritenuta in declino. Il naturalista James G. Cooper lo definì nel 1890 «un uccello condannato» e nel 1906 il famoso naturalista William Beebe scrisse che la sua fine era vicina e che entro pochi anni il grande volatore poteva scomparire per sempre dalla faccia della terra.

L'ornitologo che cominciò a occuparsi a tempo pieno di questo uccello fu Carl B. Koford a cui si devono i primi censimenti accurati delle rimanenti popolazioni. Il primo censimento effettuato negli anni quaranta del secolo scorso fornì una cifra veramente preoccupante: soltanto una sessantina di esemplari che si riscontravano in un'area di circa 45.000 chilometri quadrati in California, da Santa Barbara lungo la costa Range a San Josè e lungo le zone montane occidentali della Sierra Nevada fino alla parte meridionale della contea di Madera a nord-est di Fresno. Le tre aree di riproduzione superstiti erano costituite dalla zona di Mountain Beartrap a est di San Luis Obispo, l'area di Sisquoc a nord di Santa Barbara e la zona di Sespe-Piru nelle contee di Ventura e Los Angeles, quest'ultima ritenuta la più importante e consistente.

Già dai primi del 1900 la specie con ogni probabilità nidificava soltanto in California essendo stata distrutta in tutte le altre aree di diffusione. L'ultimo esemplare avvistato in Canada, per esempio, fu osservato nel 1889. Prima dei dati raccolti da Koford negli anni 1939-1947 per conto della National Audubon Society, i naturalisti Joseph Grinnell e Alden Miller stimarono la popolazione sopravvivente di condor della California intorno al centinaio di individui. La National Audubon Society, una delle maggiori organizzazioni di conservazione della natura degli Stati Uniti, prese la decisione di tenere sotto controllo la specie per valutarne l'andamento della popolazione dal 1961. I primi censimenti furono effettuati sotto la direzione di Alden Miller con la collaborazione di Ian ed Eben McMillan. I dati relativi agli anni 1959-64 furono ancor più drammatici dei precedenti. In 17 anni la popolazione in natura di questa specie era scesa del 30%: gli esemplari stimati erano circa 42. I dati raccolti riguardavano una ventina di individui adulti non nidificanti, otto adulti con nidi attivi e 14 altri soggetti dei quali almeno 10 individui immaturi. Nel 1966 il Dipartimento di Pesca e Fauna Selvatica della California organizzò un censimento che riportò la cifra di almeno 52 individui: il possibile incremento rispetto ai dati del 1963 veniva giustificato a causa di un sistema di analisi differente e a una più completa copertura dell'area occupata dal condor. I dati di Miller e dei McMillan dimostrarono che la perdita più rilevante subita da questa specie riguardava i soggetti uccisi illegalmente: infatti la specie è protetta dalla legge sulle specie minacciate degli Stati Uniti (United States Endagered Species Act), dalla legge della California e dalla Convenzione Internazionale di Washington (CITES).

I successivi censimenti fornirono stime più o meno stabili. I dati pubblicati da S. R. Wilbur, W. D. Carrier, J. C. Borneman e R. W. Mallette fornirono per gli anni tra il 1966 ed il 1971 cifre tra i 50 ed i 60 individui; Wilbur tra gli anni 1972 e 1975 indicò non più di 50 individui, ma dal 1975 il declino si fece più evidente; già intorno al 1977 i censimenti parlavano di una quarantina di individui. Le campagne educative per sensibilizzare la gente alla protezione del condor, gli appositi santuari naturali istituiti per proteggere il condor nel suo ambiente non sembravano sufficienti. Oltre alla caccia e al depredamento dei nidi, la costruzione di strade, della diga di Topatopa e il sempre più incessante disturbo arrecato al gigante delle montagne hanno peggiorato la situazione. La California, lo stato più ricco degli Stati Uniti, e quindi il luogo nel mondo con il maggior reddito pro capite per abitante, sta distruggendo per sempre un mitico e suggestivo animale che per millenni ha vissuto in armonia con le tribù indiane. Un costoso e ampio progetto per prelevare alcune uova deposte in natura e per costituire un gruppo riproduttivo in cattività è partito non senza polemiche e pareri contrastanti. Per molti studiosi, considerando il lentissimo ciclo biologico dell'animale e le numerosissime difficoltà di mantenimento in cattività, sarebbe stato preferibile concentrare tutti gli sforzi, anche economici, per proteggere il condor nelle sue popolazioni naturali.

Dalle ormai pochissime coppie nidificanti (solamente 5 nel 1983) sono state sottratte alcune uova che sono state fatte schiudere in un apposito centro nato dalla collaborazione tra diversi enti: gli zoo di San Diego e Los Angeles, la National Audubon Society, il Patuxent Wildlife Research Center ed il California Department of Fish and Game. L'ultimo censimento effettuato nel luglio 1984 ha appurato una presenza in natura di 12-20 individui.

California Condor
Gymnogyps californianus

The California Condor (Gymnogyps californianus) is a North American species of bird in the New World vulture family Cathartidae. Currently, this condor inhabits only the Grand Canyon area and western coastal mountains of California and northern Baja California. Although other fossil members are known, it is the only surviving member of the genus Gymnogyps.

It is a large, black vulture with patches of white on the underside of the wings and a largely bald head with skin color ranging from yellowish to a bright red, depending on the bird's mood. It has the largest wingspan of any bird found in North America and is one of the heaviest. The condor is a scavenger and eats large amounts of carrion. It is one of the world's longest-living birds, with a lifespan of up to 50 years.

Condor numbers dramatically declined in the 19th century due to poaching, lead poisoning, and habitat destruction. Eventually, a conservation plan was put in place by the United States government that led to the capture of all the remaining wild condors in 1987. These 22 birds were bred at the San Diego Wild Animal Park and the Los Angeles Zoo. Numbers rose through captive breeding and, beginning in 1991, condors have been reintroduced into the wild. The project is the most expensive species conservation project ever undertaken in the United States. The California Condor is one of the world's rarest bird species. In May 2008, there were 332 condors known to be living, including 152 in the wild. The condor is a significant bird to many Californian Native American groups and plays an important role in several of their traditional myths.

Taxonomy

The California Condor was described by English naturalist George Shaw in 1797 as Vultur californianus. It was originally classified in the same genus as the Andean Condor (V. gryphus), but, due to the Andean Condor's slightly different markings, slightly longer wings, and tendency to actually kill small animals to eat, the California Condor has now been placed in its own monotypic genus. The generic name Gymnogyps is derived from the Greek gymnos "naked" or "bare", and gyps "vulture", while the specific name californianus comes from its location in California. The word condor itself is derived from the Ecuadorian Quechua cuntur.

The exact taxonomic placement of the California Condor and the remaining six species of New World vultures remains unclear. Though both are similar in appearance and have similar ecological roles, the New World and Old World vultures evolved from different ancestors in different parts of the world. Just how different the two are is currently under debate, with some earlier authorities suggesting that the New World vultures are more closely related to storks. More recent authorities maintain their overall position in the order Falconiformes along with the Old World vultures or place them in their own order, Cathartiformes. The South American Classification Committee has removed the New World vultures from Ciconiiformes and instead placed them in Incertae sedis, but notes that a move to Falconiformes or Cathartiformes is possible.

Evolutionary history

The genus Gymnogyps is a prime example of a relict distribution. During the Pleistocene epoch, this genus was widespread across the Americas. From fossils, the Floridan Gymnogyps kofordi from the Early Pleistocene and the Peruvian Gymnogyps howardae from the Late Pleistocene have been described. A condor found in Late Pleistocene deposits on Cuba was initially described as Antillovultur varonai, but has since been recognized as another member of Gymnogyps. It may even have been a subspecies of the California Condor.

Today's California Condor is the sole surviving member of Gymnogyps and has no accepted subspecies; although its range greatly contracted during the Holocene, the species always had a small and inbred population. However, there is a Late Pleistocene palaeosubspecies, Gymnogyps californianus amplus, which occurred over much of the bird's historical range – even extending into Florida – but was larger, having about the same weight as the Andean Condor. This bird also had a wider bill. As the climate changed during the last ice age, the entire population became smaller until it had evolved into the Gymnogyps californianus californianus of today.
Description

The adult California Condor is a uniform black, with the exception, especially in the male, of large triangular patches or bands of white on the underside of the wings. It has gray legs and feet, an ivory-colored bill, a frill of black feathers nearly surrounding the base of the neck, and brownish red eyes. The juvenile is mostly a mottled dark brown with blackish coloration on the head. It has mottled gray instead of white on the underside of its flight feathers.

As an adaptation for hygiene, the condor's head and neck have few feathers, which exposes the skin to the sterilizing effects of dehydration and solar ultraviolet light at high altitudes. The skin of the head and neck is capable of flushing noticeably in response to emotional state, a capability that can serve as communication between individuals. The skin color varies from yellowish to a glowing reddish-orange.

Contrary to the usual rule among true birds of prey, the female is smaller than the male. Overall length can range from 117–135 centimeters (46–53 in) and the wingspan averages around 2.77 meters (9.1 ft). Their weight can range from 7–14 kilograms (15–31 lb), with estimations of average weight ranging from 8–9 kilograms (18–20 lb). Most measurements are from birds raised in captivity, so determining if there are any major differences in measurements between wild and captive condors is difficult.

California Condors have the largest wingspan of any North American bird. They are surpassed in both body length and weight only by the Trumpeter Swan and the introduced Mute Swan. The American White Pelican and Whooping Crane also have longer bodies than the condor. Condors are so large that they can be mistaken for a small, distant airplane, which possibly occurs more often than they are mistaken for other species of bird.

The middle toe of the California Condor's foot is greatly elongated, and the hind one is only slightly developed. The talons of all the toes are straight and blunt, and are thus more adapted to walking than gripping. This is more similar to their supposed relatives the storks than to birds of prey and Old World vultures, which use their feet as weapons or organs of prehension.

Distribution and habitat

Five hundred years ago, the California Condor roamed across the American Southwest and West Coast. However, due to their decline in numbers, the last wild bird was taken into captivity for the breeding program in 1987. Recently, captive-bred condors have been released in southern California, in Baja California, and at the Grand Canyon. There are two sanctuaries dedicated to this bird, the Sisquoc Condor Sanctuary in the San Rafael Wilderness and the Sespe Condor Sanctuary in the Los Padres National Forest. These areas were chosen because of their prime condor nesting habitat.

The condors live in rocky scrubland, coniferous forests, and oak savannas. They are often found near cliffs or large trees, which they use as nesting sites. Individual birds have a huge range and have been known to travel up to 250 kilometers (150 mi) in search of carrion.

Ecology and behavior

When in flight, the movements of the condor are remarkably graceful. The lack of a large sternum to anchor their correspondingly large flight muscles restricts them to being primarily soarers. The birds flap their wings when taking off from the ground, but after attaining a moderate elevation they largely glide, sometimes going for miles without a single flap of their wings. They have been known to fly up to speeds of 90 km/h (55 mph) and as high as 4,600 meters (15,000 ft). They prefer to roost on high perches from which they can launch without any major wing-flapping effort. Often, these birds are seen soaring near rock cliffs, using thermals to aid them in keeping aloft.

The California Condor has a long life span, reaching up to 50 years. If it survives to adulthood, the condor has few natural threats other than humans. Their vocal display is limited to grunts and hisses. Condors bathe frequently and can spend hours a day preening their feathers. Condors also perform urohydrosis, or defecate on their legs, to reduce their body temperature. There is a well-developed social structure within large groups of condors, with competition to determine a pecking order decided by body language, competitive play behavior, and a variety of hisses and grunts. This social hierarchy is displayed especially when the birds feed, with the dominant birds eating before the younger ones.

Diet

Wild condors inhabit large territories, often traveling 250 kilometers (150 mi) a day in search of carrion. It is thought that in the early days of its existence as a species, the California Condor lived off of the carcasses of the "megafauna", which are now extinct in North America. They still prefer to feast on large, terrestrial mammalian carcasses such as deer, goats, sheep, donkeys, horses, pigs, mountain lions, bears, or cattle. Alternatively, they may feed on the bodies of smaller mammals, such as rabbits or coyotes, aquatic mammals such as whales and sea lions, or salmon. Bird and reptile carcasses are rarely eaten. Since they do not have a sense of smell, they spot these corpses by looking for other scavengers, like smaller vultures and eagles, who cannot rip through the tougher hides of these larger animals with the efficiency of the larger condor. They can usually intimidate other scavengers away from the carcass, with the exception of bears, which will ignore them, and Golden Eagles, which will fight a condor over a kill or a carcass. In the wild they are intermittent eaters, often going for between a few days to two weeks without eating, then gorging themselves on 1–1.5 kilograms (2–3 lb) of meat at once, sometimes to the point of being unable to lift themselves off the ground.

Reproduction

Condors begin to look for a mate when they reach sexual maturity at the age of six. To attract a prospective mate, the male condor performs a display. In the display, the male turns his head red and puffs out his neck feathers. He then spreads his wings and slowly approaches the female. If the female lowers her head to accept the male, the condors become mates for life. The pair makes a simple nest in caves or on cliff clefts, especially ones with nearby roosting trees and open spaces for landing. A mated female lays one bluish-white egg every other February or March. The egg weighs about 280 grams (10 oz) and measures from 90–120 millimeters (3½–4¾ in) in length and about 67 millimeters in width. If the chick or egg is lost or removed, the parents "double clutch", or lay another egg to take the lost one's place. Researchers and breeders take advantage of this behavior to double the reproductive rate by taking the first egg away for hand-rearing; this induces the parents to lay a second egg, which the condors are sometimes allowed to raise.

The eggs hatch after 53 to 60 days of incubation by both parents. Chicks are born with their eyes open and sometimes can take up to a week to hatch from their egg. The young are covered with a grayish down until they are almost as large as their parents. They are able to fly after five to six months, but continue to roost and hunt with their parents until they turn two, at which point they are displaced by a new clutch.

Conservation

At the time of human settlement of the Americas, the California Condor was widespread across North America. However, climate changes associated with the end of the last ice age and the extinction of the Pleistocene megafauna led to a subsequent reduction in range and population. Prehistorically, California Condors are known from Arizona, Nevada, New Mexico, and Texas.

In modern times, a wide variety of causes have contributed to the condor's decline. Its exacting mating habits and resulting low birth rate, combined with a late age of sexual maturity, make the bird vulnerable to loss of population. Significant damage to the condor population is also attributed to poaching, especially for museum specimens, lead poisoning (from eating animals containing lead shot), DDT poisoning, electric power lines, egg collecting, and habitat destruction. During the California Gold Rush, some condors were even kept as pets.

In addition to this, cattle ranchers who observed condors feeding on the dead young of their cattle assumed that the birds killed the cattle. This fallacy led to the condor's extinction in some parts of the western United States. This belief was so deeply ingrained that the reintroduction of condors to the Grand Canyon was challenged by some cattle ranchers, who mistakenly believed that the bird hunted calves and lambs.

As the condor's population continued to decline, discussion began about starting a captive breeding program for the birds. Opponents to this plan argued that the condors had the right to freedom, that capturing all of the condors would change the species' habits forever, and that the cost was too great. However, the project received the approval of the United States Government, and the capture of the remaining wild condors was completed on Easter Sunday 1987, when AC-9, the last wild condor, was captured. There were only 22 condors in existence, all in captivity. The captive breeding program, led by the San Diego Wild Animal Park and Los Angeles Zoo, got off to a slow start due to the condor's mating habits. However, utilizing the bird's ability to double clutch, biologists began removing the first egg from the nest and raising it with puppets, allowing the parents to lay another egg.

As the number of condors grew, attention began to focus on releasing some back into the wild. In 1988, the US Fish and Wildlife Service began a reintroduction experiment involving the release of captive Andean Condors into the wild in California. Only females were released, to eliminate the possibility of accidentally introducing a South American species into the United States. The experiment was a success, and all the Andean Condors were recaptured and re-released in South America. California Condors were released in 1991 and 1992 in California, and again in 1996 in Arizona near the Grand Canyon. Though the birth rate remains low in the wild, their numbers are increasing steadily through regular releases of captive-reared adolescents.

Condor chick being fed by condor feeding puppet

Unanticipated deaths among these populations occurred due to contact with Golden Eagles, power lines, and other factors such as lead poisoning. Since 1994, captive-bred California Condors have been trained to avoid power lines and people. Since the implementation of this aversion conditioning program, the number of condor deaths due to power lines has greatly decreased. Lead poisoning due to fragmented lead bullets in large game waste is a particularly big problem for condors due to their extremely strong digestive juices; this lead waste is not as much of a problem for other avian scavengers such as the Turkey Vulture and Common Raven. This problem has been addressed in California by the Ridley-Tree Condor Preservation Act, a bill that goes into effect July 1, 2008 that requires that hunters use non-lead bullets when hunting in the condor's range.

The California Condor conservation project is also the most expensive species conservation project in United States history, costing over $35 million, including $20 million in federal and state funding, since World War II. However, nesting milestones have been recently reached by the reintroduced condors. In 2003, the first nestling fledged in the wild since 1981. In March 2006, a pair of California Condors attempted to nest in a hollow tree near Big Sur, California. This was the first time in more than 100 years in which a pair of California Condors had been seen nesting in Northern California. In early 2007, a California condor laid an egg in Mexico for the first time since at least the 1930s. The population of the condors has risen due to these wild and also captive nestings. As of May 2008 there are 332 individuals living, including 152 in the wild and the rest in the San Diego Wild Animal Park, the Los Angeles Zoo, the Oregon Zoo, or the World Center for Birds of Prey in Boise, Idaho.

Relationship with humans

Throughout its historic range, the California Condor has been a popular subject of mythology and an important symbol to Native Americans. Unusually, this bird takes on different roles in the storytelling of the different tribes.

The Wiyot tribe of California say that the condor recreated mankind after Above Old Man wiped humanity out with a flood. However, other tribes, like California's Mono, viewed the condor as a destroyer, not a creator. They say that Condor seized humans, cut off their heads, and drained their blood so that it would flood Ground Squirrel's home. Condor then seized Ground Squirrel after he fled, but Ground Squirrel managed to cut off Condor's head when Condor paused to take a drink of the blood. According to the Yokut tribe, the condor sometimes ate the moon, causing the lunar cycle, and his wings caused eclipses. The Chumash tribe of Southern California believed that the condor was once a white bird, but it turned black when it flew too close to a fire.

Condor bones have been found in Native American graves, as have condor feather headdresses. Cave paintings of condors have also been discovered. Some tribes ritually killed condors to make ceremonial clothing out of their feathers. Shamans then danced while wearing these to reach the upper and lower spiritual worlds. Whenever a shaman died, his clothes were said to be cursed, so new clothing had to be made for his successor. Some scientists, such as Noel Snyder, believe that this process of making ceremonial clothing helped contribute to the condor's decline. If so, this would be the only known species that was endangered by the California natives.