Lessico
Siccome Aldrovandi, quando a pagina 243 del II volume della sua Ornitologia (1600) parla della velenosità per il pollo delle feci umane contenenti elleboro, non specifica se era il bianco oppure il nero, probabilmente fa riferimento proprio all’elleboro – l’odierno Helleborus – ma non è escluso che facesse invece riferimento al veratro bianco in quanto sin dai tempi antichi e per tutto il Medioevo il Veratrum album – veratro bianco – fu chiamato elleboro bianco, e anche il rizoma del Veratrum album è velenoso – per uomo e animali – come quello dell’Helleborus niger e viridis.
Si tratta di uno dei tanti lapsus di Aldrovandi, e troviamo conforto sul fatto che si tratta dell’elleboro bianco – Veratrum album – nella precisa citazione di Gessner tratta da Avicenna. Conrad Gessner, Historia Animalium III (1555), pag. 384: Stercus hominis qui bibit elleborum album, necat gallinas, Avicenna.
Pierandrea Mattioli, pur conoscendo bene l’azione farmacologica e tossica, nonché le caratteristiche fenotipiche sia del Veratrum che dell’Helleborus, a pagina 526 dei suoi Commentari a Dioscoride – Commentarii in libros sex Pedacii Dioscoridis Anazarbei De Materia Medica (Venetiis, apud Valgrisium, 1554) – inverte le terminologie e pone Veratrum album come didascalia del veratro bianco (didascalia perfetta secondo l’attuale classificazione botanica) e Veratrum nigrum come didascalia dell’Helleborus niger.
A
sinistra Veratrum album – a destra Helleborus niger
da Pierandrea Mattioli - Commentarii
in libros sex Pedacii Dioscoridis Anazarbei De Materia Medica
Venetiis,
apud Valgrisium, 1554
Il motivo della confusione – o della sinonimia - è antico. Infatti Dioscoride si esprime così nel latino di Mattioli derivato da quello di Jean Ruel: “Elleborum album, Latini veratrum album vocant, fert folia plantaginis, aut betae sylvestris, similia, [...] Nascitur in montibus, et asperis. [...] Primatum Cyrenaicum tenet. Galaticum autem, et Cappadocicum candidiora, et pulvere quodam obsita, celerius strangulatus movent.” e in greco questo veratrum dei Latini suona Helléboros leukós.
Invece per l’elleboro nero, Helléboros mélas, Dioscoride non fa alcuna precisazione sulla differenza linguistica, in quanto è assodato che anche i Latini lo chiamano elleboro: “Elleborum nigrum appellatur melampodion, quoniam pastor nomine Melampus [...] Folia ei viridia, platani similia, minora, [...] flores in purpura albicantes, racematim cohaerentes: semen cnici, quod in Anticyra sesamoides vocant: [...] In collibus, asperis, et sitientibus locis enascitur. Optimum est quod ex huiusmodi petitur terris, ut ex Anticyra.”.
Questa ambiguità linguistica ha avuto delle ovvie ripercussioni sulle pretese proprietà delle due piante, tanto da far attribuire effetti su psiche ed encefalo da parte del veratro che invece erano caratteristici dell’elleboro, con tutte le intossicazioni che scaturivano dall’abuso del veratro, tant’è che Mattioli mise sull’avviso medici e pazienti del suo tempo, specificando giustamente che gli effetti sulla psiche erano propri solo dell’elleboro nero: finalmente i medici del XV e XVI secolo abbandonarono il veratro come psicofarmaco.
Infatti, se attraverso Mattioli Dioscoride afferma che il “Veratrum nigrum purgat ventrem [...] prodest morbis comitialibus, melancholicis, insanientibus”, a pagina 529 lo stesso Mattioli fa eco a queste affermazioni di Dioscoride dicendo: “Siquidem ego testari possum, me sexcentis ferme hominibus nigri ellebori dilutum exhibuisse nullo prorsus incommodo. [...] Datur quoque insanientibus [...] ”
Non era solo Mattioli a essere in grado di identificare con precisione le due piante velenose. Se esisteva un’ambiguità linguistica che prontamente chiarisce, anche nei panni di botanico Dioscoride se la cava egregiamente evitando qualsiasi ambiguità che potrebbe rivelarsi letale: infatti, oltre a descrivere esattamente le foglie, puntualizza che l’Helléboros leukós cresce sui monti – senza precisare se predilige o meno luoghi umidi e paludosi, forse assenti sui monti della Cirenaica, della Turchia e della Grecia – mentre l’Helléboros mélas cresce più in basso – sui colli – e nei terreni poveri d’acqua, ed è ottimo quello di località aride come Anticira. Questi dati relativi all’habitat trovano riscontro in ciò che si può osservare anche in Italia, dove il Veratrum album preferisce i luoghi umidi o paludosi ad altitudini comprese fra circa 900 e 2000 metri, mentre l’Helleborus niger cresce dal livello del mare – dove sorge per esempio Anticira – fino a 2000 metri, e privilegia i territori boschivi.
L’elleboro nero degli antichi Greci è l’Helleborus orientalis Lam. che non cresce in Italia – presente in Grecia, Turchia e Caucaso - ma che era ed è dotato delle stesse proprietà venefiche e farmacologiche delle specie presenti in Italia. Dioscoride fece un’osservazione curiosa: le viti che crescono dove si trovano molti ellebori producono un vino con proprietà purgative. Nell’antichità l’elleboro nero era considerato un rimedio sovrano contro le malattie mentali.
La città della Focide Anticira – Antíkyra - nel golfo di Corinto, a 20 km da Delfi, in epoca ellenistica ebbe rinomanza e floridezza solo perché vi si trovava l’elleboro e molti malati vi soggiornavano per curarsi. Lo testimonia anche il sito http://users.otenet.gr dedicato ad Anticira: Μα πάνω απ'όλα, η πόλη αυτή, ήταν πασίγνωστη στην αρχαιότητα για το φάρμακο κατά της τρέλας,τον ελέβορα. - Ma al di sopra di tutto, questa città era conosciutissima nell'anitchità per il rimedio contro la pazzia, l'elleboro. (traduzione di Spiridon Tsembertzis)
È con l’elleboro che Ercole guarì dalla follia, e il pastore Melampo con il latte delle capre che avevano mangiato l’elleboro curò le figlie di Preto di Argo, diventate furiose. Come abbiamo appena visto, Pierandrea Mattioli confermò questa proprietà e dichiarò di averne verificato l’efficacia contro le malattie mentali.
Si può ragionevolmente presumere – vista la sua serietà professionale - che egli abbia effettivamente sperimentato l’Helleborus, in quanto per esempio lo stesso Linneo chiamava elleboro l’Eranthis hiemalis Salisbur., detto volgarmente Pié di gallo, una ranuncolacea affine all’Helleborus; e Mattioli conosceva bene sia Helleborus che Veratrum, in quanto scrisse che ai suoi tempi non si impiegava più la polvere di Veratrum album, ma piuttosto il macerato del rizoma e che “album mortiferum est”. Più tardi, e fino a epoche relativamente recenti, l’elleboro trovò impiego in Europa per esorcismi e fatture.
Alla confusione diede ovviamente il suo contributo il nostro grande arraffone enciclopedico: Plinio il Vecchio. Infatti nella sua Naturalis historia si dilunga alquanto nel descrivere pregi e inconvenienti dell’elleboro bianco e nero. Ma fa una tale miscela delle due piante che diventa difficile districarsi.
Infatti, se prendiamo per certo che ad Anticira si curavano le malattie neurologiche con l’Helleborus orientalis, praticamente gemello dell’Helleborus niger, alla fine della citazione di Plinio ci accorgiamo che ad Anticira ci si curava invece con il Veratrum album. Il tribuno Marco Livio Druso si era recato ad Anticira dove si liberò delle crisi epilettiche, per essere poi ucciso nel 91 aC per aver presentato leggi favorevoli ai diritti degli Italici che erano socii, cioè alleati di Roma, ma che Roma trascurava, soprattutto nell'applicazione delle leggi agrarie.
La morte di Livio Druso, dovuta senza alcun dubbio alle sue proposte di legge, inasprì gli Italici, i quali, avendo visto fallire tutte le loro speranze brandirono le armi e iniziarono quella sanguinosa guerra che costò la vita a trecentomila Italiani e che, chiamata da alcuni storici guerra italica, da altri guerra marsica e da altri ancora guerra sociale, doveva durare dal 90 all’88 aC. La rivolta, scoppiata nel Piceno, si estese a tutta l'Italia centro-meridionale.
Orbene, Druso era stato ad Anticira, e Plinio in XXV,52 termina il resoconto asserendo che quell’elleboro in Italia era detto veratro:
Drusumque apud nos, tribunorum popularium clarissimum, cui ante omnis plebs adstans plausit, optimates vero bellum Marsicum inputavere, constat hoc medicamento liberatum comitiali morbo in Anticyra insula. Ibi enim tutissime sumitur, quoniam, ut diximus, sesamoides admiscent. Italia veratrum vocat.
Da notare che Plinio commette un errore di geografia. Infatti Antíkyra, la nostra Anticira –– c’erano allora numerose Anticire in Grecia - sorgeva e sorge tuttora sulla terraferma. Di fronte alle sue spiagge non esiste alcuna isola, neppure un’isola piccolissima come la Gallinara antistante Albenga e che l’Atlante Geografico Encarta raffigura con un puntino senza nome, così come sono raffigurate con un puntino senza nome parecchie isolette molto lontane da Anticira. Poco distante da Anticira in direzione sudovest si trova una penisola che nell’Atlante Encarta non ha nome. Ma è una penisola, non un’isola. Oppure Plinio ha fatto un altro tipo di errore: a metà strada fra l’isola di Kíthira – scritto Kýthëra - e la punta settentrionale dell’isola Creta si trova l’isoletta di Antikíthira – scritto Antíkýthëra - con capoluogo Potamós, appartenente al nomós dell’Attica. Plinio potrebbe aver fatto questo taglio: Antíký{thë}ra e aver associato il nuovo ma vecchio toponimo a un’isola. Riconosco che questa seconda soluzione è un’ipotesi alquanto bislacca. È più verosimile che Plinio abbia scritto insula per pura svista, senza una precisa motivazione, oppure per una motivazione ben precisa: Anticira era un’isola di felicità, in quanto vi si recuperava l’integrità neuropsichica! Oppure Plinio intendeva con insula una città talmente piccola da essere costituita da un solo caseggiato, da un piccolo insieme di dimore, che in latino viene detto insula? Ma ai tempi di Druso, visto che era partito da Roma e che Anticira non era girato l’angolo, questo centro terapeutico della Focide doveva trovarsi ancora al top delle classifiche, per cui verosimilmente era composto da più insulae se voleva ospitare degnamente sia pazienti che eventuali acccompagnatori, per non parlare di coloro che dovevano provvedere cibo ed elleboro. Insomma, a mio avviso il costrutto latino di Plinio lascerebbe erroneamente intendere che Anticyra era un’isola in mezzo al mare. Infatti egli non scrisse in insula Anticyrae – in una clinica di Anticira, cioè in uno degli agglomerati di case di Anticira - ma in Antycira insula. Se non bastasse, in IV,8: Quondam praeterea oppidum Crisa et cum Bulensibus Anticyra, Naulochum, Pyrrha, Amphisa immunis, Tithrone, Tithorea, Ambrysus, Mirana, quae regio Daulis appellatur.
Secondo un omeopata (Dr. Frédéric Schmitt – www.planete-homeo.org) il Veratrum album sarebbe dotato di azione sedativa, e confortato dagli studi di Hahnemann riferisce di stati di ipercinesi, di stati furiosi, di megalomania, di delirio religioso e di erotomania guariti con il Veratrum album. Per fortuna gli odierni psichiatri non hanno l’imbarazzo di scegliere quale delle due piante debba comparire nel loro armamentario terapeutico: se Helleborus oppure Veratrum!
Genere di piante della famiglia Ranuncolacee formato da una ventina di specie dell'Asia occidentale e dell'Europa centro-meridionale. Sono erbacee perenni dotate di rizomi più o meno ramosi in cui sono contenuti i principi attivi da maneggiare con estrema cautela (pena la morte), dai quali si innalzano le foglie pedato-composte che attorniano gli scapi fioriferi. I fiori sono composti da 5 sepali petaloidi grandi, di colore bianco, rosato o verdastro, mentre i petali sono molto ridotti. In Italia ne vivono 4 specie, fra le quali la più nota è Helleborus niger (elleboro nero, elabro nero, rosa di Natale), pianta con rizoma grosso e nerastro e foglie lungamente picciolate, formate da 5-9 segmenti lanceolati acuti, di consistenza coriacea e persistenti durante l'inverno; lo scapo fiorale è cilindrico e carnoso, di colore rossiccio, alto fino a 40 cm, e porta da 1 a 3 fiori. Specie congeneri sono Helleborus viridis (elleboro verde, elleboro falso, erba nocca) caratterizzato da fiori verdastri e foglie caduche, e Helleborus foetidus (elleboro puzzolente, cavolo di lupo) con fusto robusto, più alto dei precedenti (fino a 70 cm), e numerosi fiori penduli, a sepali petaloidi verdastri orlati di rosso.
Per gli appassionati di erboristeria possiamo dire che, in base a dati parzialmente desunti da www.ars-grin.gov, i rizomi dell’Helleborus niger - e presumibilmente anche del viridis - contengono le seguenti sostanze dotate di specifica azione terapeutica: glucoside elleborina (C26H42O6) narcotico, glicoside ellebrina (C36H52O15) antitumorale, narcotico e digitalico, cioè con azione cardiotonica efficace in caso di scompenso cardiaco, glicoside elleboreina (C37H56O18) capace di provocare vomito e diarrea.
Questi dati chimici e farmacologici non mi soddisfano e sono comunque da verificare, in quanto la letteratura in proposito richiama alla mente i qui pro quo analizzati a proposito dell’identificazione di elleboro e veratro nell’antichità. Helleborus niger e viridis in passato sono stati anche adoperati come purganti drastici.