Vol. 1° -  VIII.2.4.h.

Il Pavone in cucina

Le notizie di Capponi sono precise quando parla della carne di pavone: essa serviva come cibo, previo ingrassamento.

Plinio attesta che Aufidio Lurcone, per primo, intraprese ad ingrassare i pavoni al tempo dell’ultima guerra contro i pirati, diventando ricco in quanto gli garantivano una rendita annua di 60.000 sesterzi [1] . Ciò accadeva verso la metà del I secolo aC, in quanto i mari furono definitivamente ripuliti dalla pirateria grazie a Gneo Pompeo Magno, incaricato di ciò nel 67 aC con la legge Gabinia. Con 500 navi, 20 legioni e 5.000 cavalieri riuscì in tre mesi a ridurre i pirati all’impotenza. Dovevano essere abili, tanti e tanto potenti, visto il dispiegamento di forze approntato da Roma.

Non per vantarci - si fa per dire - ma i migliori nell’arte piratesca furono gli Illiri, gli Etruschi e i Liguri.

Isidoro invece non stima la carne di pavone:

Tam dura est ut putredinem vix sentiat, nec facile coquatur. (Etymologiae, XII,7)

è tanto dura che a mala pena riesce a saper di putrido, e non è facile da cuocere.

Vediamo cosa dice Varrone nel capitolo De pavonibus in Rerum Rusticarum Liber III:

Primus hos volucres Q. Hortensius augurali adjiciali coena posuisse dicitur: quod potius factum tum luxuriosi, quam severi boni viri laudabant: quem cito secuti multi extulerunt eorum pretia, ita ut ova eorum denariis veneant quinis, ipsi facile quinquagenis...

Si dice che Quinto Ortensio sia stato il primo a servire questi uccelli in occasione del banchetto inaugurale del suo sacerdozio: ma quest’iniziativa veniva lodata più dagli amanti delle cose sontuose che dalle persone serie: molti hanno sùbito seguito il suo esempio, col risultato di una levitazione dei prezzi, cosicché le loro uova venivano vendute per cinque denari ognuno, e i volatili comodamente per cinquanta...

A volte possiamo venire a conoscenza di importanti notizie storiche attraverso trattati che neanche ci metteremmo a sfogliare, in quanto siamo convinti che le cose serie sono di esclusivo dominio della letteratura accademica. Chi mi ha messo sulla buona strada è stato Orlando Perera, giornalista presso la RAI di Torino, nonché esperto culinario. Quando gli accennai che il pavone in tavola non ci fa buona figura, mi disse di possedere documenti atti a confutare questa boutade, e così mi indicò La Scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene di Pellegrino Artusi, dove le note sono state curate da Piero Camporesi.

La ricetta 550 dell’Artusi è dedicata al pavone, che egli apprezzava alquanto:

«Ora che nella serie degli arrosti vi ho nominati alcuni volatili di origine esotica, mi accorgo di non avervi parlato del pavone, Pavo cristatus, che mi lasciò ricordo di carne eccellente per individui di giovane età.
«Il più splendido, per lo sfarzo dei colori, fra gli uccelli dell'ordine dei gallinacei, il pavone abita le foreste delle Indie orientali e trovasi in istato selvatico a Guzerate nell'Indostan, a Cambogia sulle coste del Malabar, nel regno di Siam e nell'isola di Giava. Quando Alessandro il Macedone, invasa l’Asia minore, vide questi uccelli la prima volta dicesi rimanesse così colpito dalla loro bellezza da interdire con severe pene di ucciderli. Fu quel monarca che li introdusse in Grecia ove furono oggetto di tale curiosità che tutti correvano a vederli; ma poscia, trasportati a Roma sulla decadenza della repubblica, il primo a cibarsene fu Quinto Ortensio l’oratore, emulo di Cicerone e, piaciuti assai, montarono in grande stima dopo che Aufidio Lurcone insegnò la maniera d'ingrassarli, tenendone un pollaio dal quale traeva una rendita di millecinquecento scudi la qual cosa non è lontana dal vero se si vendevano a ragguaglio di cinque scudi l’uno.»

La nota a piè pagina a commento del testo dell’Artusi è di Piero Camporesi:

«Il pavone era un piatto trionfale della cucina rinascimentale, portato in tavola con tutte le penne, dopo essere stato cotto e rivestito. Costituiva un piatto ornamentale di grande effetto in banchetti solenni: quella che Barthes chiama la cucina del rivestimento o dell'alibi non è invenzione dei rotocalchi specializzati. La cucina ornamentale è parte integrante dei miti alimentari antichi. «La carne di questo animale - scrive il Tanara - che più tardi d'ogni altra si putrefà per la sua durezza, cuocesi e servesi ne' sudetti modi de' polli, capponi, e Galli d'India, et massime i pavoncini di tre mesi, perché pare però, che fuori dell'occasione d'ornar le tavole nuziali, freddo salpamentato[?], con la sua coda più breve ma larga, e lo stesso suo colorato collo servito, in altro modo poco si prattichi.»

Aggiunge poi il Tanara una considerazione importante dalla quale si ricava che la moda del pavone stava tramontando, vinta dal sempre più frequente apparire sulle mense del tacchino “Credo, che li sopradetti Galli d'India [i tacchini] habbino levato a questo animale la molestia d'intravenir in ogni pasto, come più teneri, e sani: fannosi però salciccie di polpe di pavone buone. Scorticasi ancora un pavone comodamente, et involto in carta unta o coperto di rete, si cuoce arrosto, da poi con la sua stessa pelle si ricopre, e con qualche ferretto o legno sostentato nel piatto in piedi su la tavola cotto, e con le piume si porta”». (L’economia del cittadino in villa).

 

La cucina ornamentale richiede parecchio tempo, e quella di oggi, stando alla mia esperienza, non è che un pallido ricordo dell’impegno profuso in passato per abbellire le mense dei ricchi. Se vogliamo andar per paragoni, possiamo dire che un tempo si costruivano piramidi, mentre oggi, in quattro e quattr’otto, da una colata di cemento vedi nascere funghi giganteschi. La manodopera è oggi sempre più costosa, ma così non era in passato: ecco perché Maestro Martino - in un manoscritto della Library of Congress di Washington, intitolato Libro de arte coquinaria - sfodera tutta la sua esperienza nell’insegnarci cosa serve per fare pavoni vestiti che parono vivi. Non conosco la data del manoscritto ma, dallo stile, potrebbe risalire al XVI secolo.

Per fare pavoni vestiti che parono vivi

Per fare pavoni vestiti che parono vivi: in prima se vole amazare il pavone con una penna, ficcandogliela sopra al capo, o veramente cavargli il sangue sotto la gola como ad un capretto. Et dapoi fendilo sotto lo corpo, cioè da lo collo per insino a la coda, tagliando solamente la pelle et scorticarlo gentilmente che non guasti né penne né pelle. Et quando tu averai scorticato il corpo, inversa la pelle del collo per insino a presso al capo. Poi taglia il ditto capo che resti attaccato a la pelle del collo; et similemente fa’ che le gambe restino attaccate a la pelle de le cosse. Dappoi scconcialo molto bene arrosto, et empielo de bone cose con bone spetie et togli garofoli integri et piantagli per lo petto, et ponilo nel speto et fallo cocere ad ascio; et d’intorno al collo ponevi una pezza bagnata aciò che’l foco non lo secchi troppo; et continuamente bagnia la dicta pezza: Et quando è cotto cavalo fore e rivestilo con la sua pelle. Et habi uno ingegno di ferro fitto in un taglieri et che passi per i piedi et per le gambe del pavone aciò che’l ferro non se veda; et quel pavone stia in piedi dritto col capo che para vivo; et acconcia molto bene la coda che faccia la rota. Se voli che gitti foco per il beccho, togli una quarta oncia de canfara con un pocha de bombace sì intorno, et mittila nel beccho del pavone, et mettivi etiamdio un pocha de acqua vite o de bon vino grande. Et quando il vorrai mandare ad tavola, appiccia il focho nel dicto bombace, et gietterà focho per bon spatio di tempo. Et per più magnificentia, quando il pavone è cotto, si po' indorare con fogli d’oro battuto et sopra lo ditto oro porre la sua pelle, la quale vole essere inbrattata dal canto dentro con bone spetie. Et simelmente si po fare di fasciani, gruve, oche et altri ocelli, o capponi o pollastri.

Forse il cigno era uno degli altri ocelli non citati da Maestro Martino, forse perché di impiego non frequente.

Nel 1939 Alessandro Ghigi curò l’edizione di un volume che venne stampato in occasione del VII Congresso Mondiale di Avicoltura tenutosi a Cleveland, negli USA: Poultry farming as described by the writers of ancient Rome. In esso vengono riportati i passi fondamentali, completi e di nostro interesse stilati da quattro autori latini: Catone, Varrone, Columella e Palladio. Ciascuno di loro aveva le sue finalità da raggiungere, per cui chi è conciso in un tema è prolisso in un altro. Ho voluto analizzare chi di essi consigliasse o citasse l’impiego alimentare dei pavoni insieme ad altri volatili che facevano parte dell’abituale cucina romana. Nello specchietto sinottico la croce sta ad indicare che il tale autore parla dell’ingrasso del tale volatile, oppure del suo uso in cucina.

A fianco di ciascun autore si trova la data di nascita.

 

polli

tordi

piccioni

tortore

pavoni

oche

Catone 234 aC

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Varrone 116 aC

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Columella I sec. dC

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Palladio IV sec. dC

 

 

 

 

 

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Nel De Agricultura Catone dedica pochi paragrafi al metodo d’ingrassare gallinacei, piccioni e oche. Varrone è ricco di notizie, ma non raggiunge la dovizie di particolari che Columella ha profuso nel De Re Rustica Liber VIII. Palladio, in Opus Agriculturae Liber I, dedica pochissimo spazio ai metodi d’allevamento dei gallinacei, dal momento che qualunque donna di casa ha già acquisito queste nozioni, tramandate di madre in figlia - gallinas educare nulla mulier nescit - mentre riserva un lungo paragrafo ai pavoni senza accennare al loro impiego a tavola, ed è l’unico dei quattro a parlare dell’allevamento dei fagiani. Da notare che l’unico volatile incluso nello specchietto cui Palladio dedica alcune parole per l’ingrasso, è l’oca.

Possiamo quindi desumere che il pavone venisse prevalentemente allevato a scopo ornamentale, visto che piccioni, gallinacei, tortore, tordi e oche venivano raccomandati per l’ingrasso dai due autori  - Varrone e Columella - che più si sono attenuti ai canoni di un trattato rivolto a lettori di qualsivoglia livello culturale. Palladio non solo non parla di mangiare i pavoni, ma neanche ne parla per le galline, eppure ai suoi tempi il pollo costituiva senza dubbio una fonte alimentare.

Tanto per gettare benzina sul fuoco, mi sia concesso di insistere sull’ipotesi già abbozzata: i cigni di Salomone, non erano per caso pavoni ingrassati?

No, perché sanno di putrido - afferma Isidoro - e anche Richter non si schiera a loro favore, e neppure lo fa il compendiatore della Storia Naturale di Buffon, un certo C.S.B.M, che nel 1822 scriveva: “La carne del pavone è secca, dura e difficile a digerirsi.” Insomma, quelli di Salomone erano proprio polli. Al massimo erano delle saporitissime faraone ingrassate.

D’accordo che molte tradizioni ashkenazite proibiscono la Numida meleagris, mentre in qualche comunità italiana viene permessa, ma quest’uccello non compare come animale impuro né nel Levitico né nel Deuteronomio, salvo farlo apparire di colpo, e ciò è possibile, in quanto la linguistica possiede siffatti poteri.

E, di galline faraone, Salomone doveva averne parecchie a disposizione visti gli stretti legami di parentela col Faraone d’Egitto. Già allora doveva essere tanto appetitosa, che finalmente anche i Romani riuscirono ad importarla e ad allevarla dopo la caduta di Cartagine (146 aC), così prelibata che per ora nessuno l’ha relegata tra gli animali immangiabili.

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[1] Marco Aufidio Lurcone è personaggio citato e biasimato da Orazio per le sue abitudini alimentari (Sermones II 4.24).