Vol. 2° -  XIX.11.

EVOLUZIONE DELLE PROTEINE
E POLIMORFISMO PROTEICO

Le mutazioni alterano il genotipo in quanto cambiano la sequenza nucleotidica del DNA, mentre la selezione naturale agisce sul fenotipo che dipende in larga misura da particolari proteine sintetizzate dall’organismo. Lo studio della struttura e della sequenza delle proteine possedute da un individuo può pertanto dimostrarsi utile per comprendere in modo più approfondito le tappe dell’evoluzione seguendo due importanti filoni.

Innanzitutto, paragonando la struttura di una proteina specifica come il citocromo c [1] di specie differenti, diventa possibile stabilire oppure confermare le relazioni filogenetiche in seno agli organismi e costruire un albero filogenetico che comprenda classe, famiglia ordine, specie e così via.

Si è visto Inoltre che un certo numero di proteine esiste in più forme strettamente correlate, come l’ovalbumina A e B, e questo fenomeno è detto polimorfismo. Lo studio della distribuzione delle differenti forme polimorfiche in seno a una popolazione di una determinata specie, unitamente alla conoscenza delle loro relazioni di dominanza, può servire a spiegare la loro storia più recente.

Queste due aree di studio sono intercorrelate e cercheremo di esaminare un certo numero di proteine, alcune delle quali sono state di primaria importanza per stabilire o confermare le relazioni filogenetiche, come è il caso delle proteine dell’eme, mentre altre si sono dimostrate più utili per determinare le relazioni esistenti tra le razze del pollo domestico, come è il caso delle proteine dell’albume.

L’evidenza che ha condotto Darwin a proporre la sua teoria sull’evoluzione è emersa attraverso tre fasi cronologiche. Dapprima il supporto maggiore al corso evoluzionistico proposto da Darwin si basava su dati paleontologici, che raffrontano le caratteristiche morfologiche anatomiche e macroscopiche di fossili appartenenti a periodi diversi con le morfologie attuali. Se i sedimenti possono essere datati con sicurezza, allora anche l’albero filogenetico dei fossili può essere tracciato con una scala temporale rispondente al vero.

Siccome a partire dalla metà degli anni '60 sono state acquisite sufficienti informazioni sulle sequenze proteiche, tali da permettere un confronto di proteine specifiche in seno a specie differenti, l’evoluzione proteica può essere esaminata su base molecolare. Ovviamente il concetto è applicabile anche ai geni, nei quali si è verificata la mutazione che sta alla base della sintesi delle differenti molecole proteiche.

Ma, a partire dalla metà degli anni '70, è diventato più facile determinare le sequenze di DNA rispetto a quelle proteiche, e il numero delle sequenze geniche sta rapidamente accrescendosi. Questo fatto permette ora di paragonare i geni codificanti particolari proteine.

Un albero filogenetico può essere costruito seguendo modalità differenti, per esempio ricorrendo alle sequenze proteiche derivanti da un singolo tipo di proteina ottenuta da specie differenti. Sia le proteine che i geni dotati di un numero significativo di somiglianze vengono detti omologhi. Una volta note le sequenze di un certo numero di proteine omologhe, le differenze relative alla loro sequenza possono venir paragonate.

Se consideriamo le differenze esistenti tra due specie particolari, si può dedurre la forma ancestrale dalla quale si crede che esse possano essere derivate prendendo in considerazione il minor numero di mutazioni. Simili deduzioni vengono generalmente fatte dopo aver preso in esame le sequenze proteiche, e usando successivamente il codice genetico, al fine di dedurre il numero minimo di cambiamenti nucleotidici richiesti nel DNA. Paragonando due molecole proteiche dotate di lunghezza differente, la conoscenza della loro struttura tridimensionale viene avvantaggiata dalla determinazione di dove si sono verificate le addizioni/delezioni, dal momento che la struttura terziaria viene generalmente conservata affinché la proteina continui ad essere funzionante.

Pertanto, l’albero filogenetico prende forma considerando il minor numero di eventi mutazionali richiesti per produrre il cambiamento nella sequenza. I risultati di questo approccio sono stati generalmente in eccellente concordanza con l’evidenza fossile. Tuttavia, quando viene riscontrato solo un numero ridotto di differenze, dal momento che possono essere coinvolti eventi casuali, si sono messe in evidenza alcune discrepanze, specialmente quando fu presa in considerazione solamente una singola proteina.

Analizzando un singolo tipo di proteina nel modo suddetto, si è visto che la frequenza di sostituzione aminoacidica è costante nel corso dell’evoluzione. Per esempio, nell’emoglobina la frequenza di sostituzione aminoacidica corrisponde all’1% per 5,8 milioni d’anni. Se invece vengono confrontati due tipi di molecole proteiche, come il citocromo c e i fibrinopeptidi, essi mostrano frequenze sostitutive diverse, rispettivamente 1% per 20 M d’a e 1% per 1,1 M d’a. Il motivo risiede nel fatto che certe proteine debbono venir specificate con molta precisione al fine di mantenere la loro funzione intatta, come accade per l’emoglobina che deve legare l’ossigeno alla pressione parziale fisiologica caratteristica dei polmoni e dei tessuti, mentre altre proteine come i fibrinopeptidi, derivati dalla scissione del fibrinogeno durante il processo coagulativo, possono tollerare maggiori cambiamenti senza che la loro funzione vada persa.

Quando si analizzano le posizioni nella sequenza proteica dove si verificano le sostituzioni, e vengono identificati gli aminoacidi che sono sostituiti, si trova che la sostituzione è non casuale, cioè che certi aminoacidi vengono sostituiti più frequentemente rispetto ad altri, e che la maggior parte delle sostituzioni consistono in ciò che viene definito come sostituzione neutrale, dal momento che non intacca in modo apprezzabile il funzionamento della proteina. Le sostituzioni si verificano più frequentemente nelle regioni delle molecole proteiche che non sono state specificate con accuratezza. In questo modo, la percentuale di sostituzione aminoacidica riflette in gran parte le sostituzioni neutrali in posizioni non essenziali. La frequenza delle mutazioni è simile per tutti i geni, ma l’entità dei cambiamenti a carico della struttura di una proteina in accordo con la sua efficienza funzionale varia a seconda delle proteine, e così si determina una sostituzione aminoacidica che sia accettabile per ogni molecola proteica.

Le sostituzioni aminoacidiche sono pure responsabili di un secondo fenomeno ad esse correlato, detto polimorfismo proteico. A partire dal momento in cui fu possibile la separazione elettroforetica delle proteine, divenne evidente che il polimorfismo proteico è ampiamente diffuso. Il polimorfismo può essere scoperto se due enzimi o due proteine qualsiasi differiscono nella loro carica elettrica globale e quindi nella loro mobilità quando sono sottoposte a un campo elettrico. Un certo numero di polimorfismi non può essere scoperto col metodo elettroforetico, specialmente se essi coinvolgono delle mutazioni conservative, mutazioni cioè in cui gli aminoacidi sono sostituiti da aminoacidi simili, la parte idrofobica con un’altra parte essa pure idrofobica. Le osservazioni di Nevo (1978) condotte su 242 specie hanno messo in evidenza che il 26% di tutti i loci studiati era polimorfico e che il 15% dei loci degli uccelli inclusi nello studio si presentava polimorfico. Per le difficoltà insite in questo tipo di indagini, si può addirittura arrivare a supporre che si tratta di una sottostima e che 2/3 di tutti i loci potrebbero essere polimorfici.

Quando una popolazione, appartenente a una determinata specie, appare ben adattata all’ambiente, ci si potrebbe aspettare che nel corso di parecchie generazioni si sia progressivamente selezionato un singolo genotipo, il genotipo meglio adattato all’ambiente. Invece ciò accade raramente, in quanto le popolazioni meglio adattate mostrano un esteso polimorfismo a carico di parecchi loci.

Un’ipotesi, che potrebbe spiegare perché accada tutto ciò, consiste nella constatazione che lo stato di eterozigosi presenta dei vantaggi. Un esempio è fornito da una patologia umana, l’anemia a cellule falciformi: lo stato omozigote è spesso fatale poiché i globuli rossi si deformano a falce e tendono ad aggregarsi nei capillari impedendo così l’apporto di ossigeno ai tessuti; lo stato eterozigote presenta la stessa anomalia, ma di molto minore entità, ed è in grado di conferire una resistenza nei confronti della malaria, resistenza sconosciuta all’omozigote normale.

Parecchi ricercatori sono dell’avviso che molte delle mutazioni che hanno dato origine a nuovi alleli, e quindi a polimorfismi, sono mutazioni neutrali, per cui influenzano ben poco il funzionamento della proteina. In questi casi non esiste una pressione selettiva tesa ad eliminare la mutazione, per cui essa si fissa nella popolazione attraverso una deriva casuale. Questo processo rappresenta un importante caposaldo per l’ipotesi neutralista dell’evoluzione. Ed effettivamente il polimorfismo potrebbe garantire a una popolazione un’elevata capacità di adattamento alle variazioni delle condizioni ambientali.

 sommario 

 avanti 

 


[1] Citocromo: si tratta di uno dei numerosi carrier di elettroni, con funzione respiratoria e contenenti eme, presenti soprattutto in associazione con le membrane citoplasmatiche dei batteri anaerobi e con le membrane dei mitocondri negli eucarioti. Contengono ferro in forma ridotta, Fe++, o in forma ossidata, Fe+++. A livello delle membrane mitocondriali interne sono stati individuati almeno 5 citocromi, denominati b, c, c1, a, a3. Il citocromo c agisce come agente trasferente elettroni nelle reazioni di ossidoriduzione. Più della metà degli aminoacidi della sua molecola sono disposti secondo una sequenza identica in tutte le specie testate e le differenze nella sua struttura primaria tra le varie specie sono state correlate al grado di relazione filogenetica. L’uomo e le scimmie Reso differiscono per un solo residuo, mentre i pesci e i lieviti per 48.