Capitolo
8
Pentadattilia europea: celtica o
romana?
seconda parte
|
Vale
la pena puntualizzare quando i Celti raggiunsero la Gallia e la Britannia. Gallia
era il nome dato dai Romani a diversi Paesi occupati dai Celti. Facendo
riferimento all’attuale assetto europeo, la Gallia comprendeva la Francia,
il Belgio, una parte dei Paesi Bassi, gran parte della Svizzera e la Germania
alla sinistra del Reno. Da non tralasciare la Gallia Cisalpina, che
corrispondeva genericamente all'Italia settentrionale al di qua delle Alpi, e
particolarmente alla Pianura Padana a nord della linea Rimini-Pisa. Verso il 400 aC la Gallia Cisalpina era stata occupata dai Galli - che
guidati da Brenno nel 390 giunsero fino a Roma saccheggiandola
[1]
- per essere poi
definitivamente sottomessa da Roma all'inizio del II secolo
aC. La regione a sud del Po ottenne la cittadinanza romana dopo la guerra
sociale del 90-89 aC e
quella a nord del Po nel 49 aC con Cesare.
Ai
Romani interessava controllare la fascia costiera posta a sud della Gallia per
garantirsi comunicazioni sicure con la Spagna, ormai passata in loro saldo
possesso. Così, dopo operazioni condotte contro singoli popoli gallici -
Salluvi, Allobrogi e soprattutto Alverni, che erano in fase di minacciosa
espansione - i Romani costituirono, con i territori costieri dalle Alpi alle
Cevennes, la provincia della Gallia Narbonese (l’attuale Provenza), così
chiamata dal nome della colonia di Narbo Martius (odierna Narbonne) che
istituirono nel 118 aC. La
nuova provincia, invasa sul finire del secolo da un'ondata di Cimbri e Teutoni
che Gaio Mario riuscì a sbaragliare
[2]
, fu celermente
romanizzata grazie all'immigrazione di numerosi mercanti italici. I Romani si
appoggiarono a nord alla tribù celtica degli Edui, contro i quali però la
tribù dei Sequani chiamò in aiuto Ariovisto re dei Suebi
[3]
che invase il loro
Paese. A ciò fece seguito un'invasione della tribù celtica degli Elvezi. Fu
questa la premessa della conquista di tutta la Gallia a opera di Giulio
Cesare, che si concluse nel 51 aC.
Dillon
& Chadwick fanno risalire alla tarda Età del Bronzo i primi insediamenti
celtici nelle Isole Britanniche, precisamente intorno al 1180 aC
[4]
, ma fu solo verso
il 600-500 aC
che i Celti cominciarono a penetrare in Gallia e in parte anche in Britannia
sovrapponendosi alle popolazioni agricole che vi dimoravano da più millenni
(dal Paleolitico all’Età del Bronzo), portando a prevalere l’allevamento
sulla coltivazione dei cereali
[5]
. L’Irlanda fu
celtizzata sin dalla metà del I millennio aC, ma rimase immune da invasioni romane e germaniche.
Per
i Romani il Belgio - Belgica - era molto più esteso del Belgio attuale
e comprendeva tutta la Gallia settentrionale, avendo come confini il Reno, la
Marna, la Senna, la Manica e il Mare del Nord, un territorio dove Cesare
trovò i Belgi e che essi avevano cominciato a occupare verso il 300 aC per la pressione esercitata dai Germani sulle tribù
celtiche.
In
Britannia all’epoca di Cesare forse soltanto qualche tribù del Galles e
della Scozia rappresentava con una certa purezza la popolazione preceltica
dell’Età del Bronzo e della prima Età del Ferro. Se fra il VI e il IV secolo aC i Celti avevano occupato le isole britanniche, tra il 100 e il 60 aC nel sud
della Britannia erano giunti altri Celti, e precisamente i Belgi, o ulteriori
Belgi, che ai tempi di Cesare erano costituiti da Celti commisti a elementi
germanici, che, come abbiamo appena detto, erano stati sospinti a ovest del
basso Reno su pressione delle popolazioni germaniche
[6]
.
Nel
I volume abbiamo visto che
“Il pollo era presente in Francia prima della dominazione romana: era
diffuso lungo le coste settentrionali e occidentali, senza dubbio grazie alle
soste dei Fenici. Ai tempi di Cesare i Galli della Britannia erano
strettamente imparentati con quelli della Gallia, come testimoniano i costumi
e le credenze religiose, per cui non si può escludere che il pollo sia stato
introdotto in Francia e in Britannia anche dall’Est europeo per opera di
questi peregrinanti nostri futuri cugini
d’Oltralpe, che possono aver popolato le loro foreste con un pollo dalle
caratteristiche diverse da quello della costa atlantica e mediterranea.”
Entriamo
ora nel campo delle tradizioni. In Cornovaglia una tradizione locale vuole che
i polli vi siano stati introdotti dai Fenici, e una tradizione del tutto
simile persiste anche in Scozia (George Carter, 1971).
Secondo
gli studi di Carlos Adolfo Finsterbusch (Cockfighting all over the world, 1929) la
Britannia non si sottrasse all’influenza Fenicia, che fu responsabile dell’introduzione
oltremanica di Bankivoidi del tutto
simili a quelli della Spagna, delle Canarie e del Bacino Mediterraneo. Pare
assodato che i Fenici raggiunsero il Galles e la Cornovaglia, ma i Britanni
già da tempo possedevano un pollo di tipo Mongolico, non combattente, quello
di domesticazione cinese. Con l’arrivo dei Romani - soggiunge Finsterbusch -
non mancò l’influenza degli invasori, che si limitarono a incrementare i Bankivoidi
già presenti sull’Isola. Torneremo sulle implicazioni dei Fenici prima di
concludere questa nostra lunga galoppata.
Vediamo
ora in dettaglio quali sono le testimonianze del pollo in Britannia prima dell’arrivo
dei Romani nel 55
e nel 54 aC,
per passare poi alla testimonianza di Giulio Cesare.
Dorothea
M.A. Bate (The domestic fowl in pre-Roman Britain, 1934)
riferisce del ritrovamento della metà anteriore di uno sterno di Gallus
domesticus in scavi condotti a partire dal 1930 in
insediamenti britannici e proto romani presso Colchester, l’antica Camulodunum,
situata alla base di quel corno orientale dell’Inghilterra che sovrasta l’estuario
del Tamigi, abitato dalle tribù celtiche degli Iceni e dei Trinovantes,
attualmente costituito dalle contee di Essex, East Suffolk, West Suffolk e
Norfolk. Il reperto osseo di pollo, insieme ad altre ossa di volatili, era
associato a oggetti appartenenti alla cultura belgo-britannica della metà del
I secolo
dC, che si spingevano al più tardi al 43
dC (anno della conquista di questa
regione da parte dell’imperatore Claudio). Probabilmente tale osso è
databile fra il 10
e il 43 dC.
Geoff
Cottam, nel suo lavoro The ‘cock bronzes’ and other related Iron Age
bronze coins found predominantly in West Sussex and Hampshire (British Numismatic Journal 59 (1999)), analizza
una serie di monete il cui rinvenimento è sparso un po’ a nord e un po’ a
sud del Tamigi, ma il cui numero più sostanzioso è venuto alla luce in un’area
intorno a Chichester
[7]
(West Sussex) e si tratta di
monete che secondo Philip de Jersey
[8]
(comunicazione personale, 2003)
sono forse databili intorno al 50-40
aC. Queste monete non sono riportate
nei cataloghi più importanti (come il Van Arsdell's 'Celtic Coinage of
Britain', 1989)
dal momento che è solo negli ultimi anni che ne è stato rinvenuto un numero
sufficiente e tale da poterle descrivere in ogni dettaglio. Cottam ha
raggruppato le monete in diversi tipi. Abitualmente sul recto è raffigurata
una testa umana fornita di elmetto, mentre sul rovescio si trova una testa
umana sormontata da un gallo stilizzato. Soli il tipo 3
- rappresentato da un solo esemplare
rinvenuto presso Chichester - si discosta stilisticamente dagli altri tipi,
dal momento che il gallo è molto meno stilizzato e la sua postura è libera
in quanto non si appoggia su alcun supporto, come invece accade per le altre
monete, nelle quali il gallo sormonta una testa umana. Ma, secondo Cottam, sia
le monete con il gallo stilizzato che quella con il gallo poco stilizzato
hanno avuto come modello, o prototipo, delle monete di provenienza
continentale. Queste erano coniate verosimilmente dai Bellovaci
[9]
, una delle tribù della Belgica.
Secondo Cottam, nell’Età del Ferro la popolazione dell’area di Chichester
non doveva essere numerosa, mentre il reperto di monete che recano il gallo è
relativamente enorme. Si potrebbe pertanto pensare che la coniazione di monete
in elevata quantità sia stata stimolata da qualche importante cambiamento
nelle relazioni tra la popolazione britannica dell’area di Chichester e
quelle dell’Europa continentale che usavano monete. Secondo Cottam si è
trattato di un incremento degli scambi commerciali tra i due versanti della
Manica e le monete usate dai Belgi continentali passarono nelle tasche dei
Britannici, per poi servire da modello per la coniazione insulare.
Frederick
Everard Zeuner (A history of domesticated Animals, 1963) è
dell’avviso che i Celti pre-romani della Britannia possedessero il pollo,
come è confermato dalla sue effigie in monete belghe. Tuttavia Zeuner presume
che il pollo britannico, quando i Romani lo incontrarono, non avesse una lunga
storia.
Invece, secondo lo studio di West e Zhou sul quale ci siamo già a lungo intrattenuti, il pollo in Britannia era già presente un po’ di tempo prima dell’arrivo di Giulio Cesare. Infatti gli 8 siti britannici riportati di West e Zhou, tutti posteriori a Mohenjo-Daro, sono stati così datati:
§
Gussage All Saints - Dorset - Età del
Ferro - 18 ossa
§
Brean Down - Gloucestershire - Età del
Ferro - ossa (non specificato il numero)
§
Ashville Trading Estate - Oxfordshire -
tarda Età del Ferro - un osso
§
Camulodunum (Colchester) - Essex - tarda
Età del Ferro - uno sterno (Dorothea Bate, 1934)
§
West Hill - Gloucestershire - tarda Età
del Ferro, I secolo
aC - 6 ossa
§
Thorpe Thewles - Cleveland - 200 aC-40 dC
- due ossa
§
Nor-Nour - Isole Scilly - 150 aC - un
tarsometatarso
§
Bierton - Buckinghamshire - periodo
belga, fine del I secolo
aC - 6 ossa
E
veniamo a Giulio Cesare (100-44 aC),
che nei Commentarii de bello Gallico ci ha fornito il resoconto delle
sue due spedizioni in Britannia.
Prima
spedizione in Britannia: partendo
probabilmente da Portus Itius (l’attuale Boulogne-sur-Mer), porto dei
Morini nella Gallia Belgica, il 26 agosto
del 55 aC i
Romani attraversano la Manica e attraccano verosimilmente a Deal, una
quindicina di km a nordest di Dover. Non è una spedizione fortunata, in
quanto funestata da danni alle navi dovuti al maltempo. Dopo alcune scaramucce
in cui vince gli indigeni, Cesare riceve ostaggi e torna sul continente.
Seconda
spedizione in Britannia:
il 6 luglio
del 54 aC
i Romani salpano nuovamente da Portus Itius, stavolta con 800 navi, 5 legioni
[10]
e 2.000 cavalieri.
Lo sbarco avviene probabilmente poco più a nord di Deal, fra Deal e Sandwich,
e successivamente entrano in conflitto con Cassivellauno che regna sulla
tribù dei Catuvellauni stanziati a nord del Tamigi e che il Tamigi divideva
dalle nazioni marittime. Come riferisce Cesare (V,11,8), il territorio di Cassivellauno si trovava a circa 80 miglia dal
mare. Dato che un miglio romano (mille passi - milia passuum)
equivaleva a circa 1.480 metri, tale territorio si trovava a circa 120 km verso
nordovest dal luogo dello sbarco di Cesare. Tale distanza porta al Tamigi all’altezza
di Londra, che allora non esisteva ancora, in quanto, sebbene i reperti
archeologici denuncino la presenza di precedenti insediamenti umani nella
zona, la storia di Londinium comincia con la conquista romana di
Claudio (43 dC).
A
questo punto della sua narrazione (V,12) Cesare,
che conobbe direttamente solo l’area sudest del Kent e quella del basso
Tamigi, fornisce alcune notizie che non hanno attinenza militare: la costa
della Britannia era abitata da popolazioni venute dal Belgio, le abitazioni
erano pressoché identiche a quelle della Gallia, e asserisce in V,12,6: Leporem
et gallinam et anserem gustare fas non putant; haec tamen alunt animi
voluptatisque causa -
Ritengono illecito cibarsi di lepre, gallina e oca; tuttavia allevano
questi animali per puro diletto.
Come già visto nel I volume di Summa Gallicana, ricordiamo per inciso che il divieto di cibarsi della carne di pollo non è scomparso ovunque, né si è verificato in modo contemporaneo. Infatti Aldrovandi (1600) - pagina 298, riga 20 - riporta due identiche prassi che distano fra loro non solo dal punto di vista geografico, ma anche cronologico:
Hodie
apud Indos quosdam in Socotera insula religio est Gallinam, aut
quamlibet avem contingere, nedum gustare: et Britannis olim Iulius Caesar testatur, nefas fuisse leporem, et Gallinam, et Anserem
gustare: hæc tamen alere animi voluptatisque causa. |
Oggi
presso alcuni Indiani dell’Isola di Socotra
[11]
esiste l’usanza religiosa di non assaggiare, né tanto meno mangiare
la Gallina o qualsivoglia uccello: e, un tempo, come testimonia Giulio
Cesare, per i Britanni era vietato cibarsi di lepre, gallina e oca: le
allevavano per puro diletto. |
È d'uopo fare una digressione, anzi, è essenziale. Venerdì 5 settembre 2008, in procinto di pubblicare la traduzione di pagina 298, mi sono chiesto da dove Aldrovandi avesse tratto le notizie relative a Socotra. Ne è emersa un'ennesima bubbola che va ad aggiungersi alle altre, tutte frutto o di una lettura frettolosa, o della scarsa capacità di documentarsi, o, assai più verosimilmente, dell'ineguagliabile capacità di Ulisse di incantare i serpenti come fanno da sempre certi politici.
Si premette che le galline di Socotra sono assenti in tutta quanta l'Historia animalium III (1555) di Conrad Gessner, ma, a dirla tutta, in questo trattato di ornitologia sono assenti anche le galline della Britannia di cui parla Giulio Cesare. Possiamo presumere che Aldrovandi abbia architettato di sana pianta questa notizia – relativa cioè al fatto che nel XVI secolo a Socotra per motivi religiosi non si mangiavano polli né qualsivoglia uccello – basandosi sulla lettera indirizzata da Andrea Corsali il 18 settembre 1517 a Lorenzo de' Medici e contenuta nel I volume Delle navigationi et viaggi (1550) di Giovanni Battista Ramusio.
Presumibilmente quest'opera mastodontica di Ramusio in 3 volumi è la stessa fonte usata da Aldrovandi a proposito dei polli squartati e farciti, ma apparentemente intatti, descritti sempre nel I volume da Francisco Álvares. Da notare che per le galline della Britannia Aldrovandi cita la fonte a bordo pagina: Liber 5 de bello Gallico. Mentre per le galline di Socotra non dà alcuna referenza, ma è ovvio, così nessuno potrà contestarlo. Come al solito Aldrovandi ciurla nel manico, in quanto Corsali non afferma affatto in modo esplicito e inequivocabile - come invece fa Giulio Cesare per la Britannia - che a Socotra non si mangiavano polli. Corsali si limita a dire cosa mangiavano – per lo più – i pastori cristiani dell'isola: latte e burro, datteri al posto del pane, talora riso.
Corsali non specifica se i pastori cristiani di Socotra allevavano bovini, oppure pecore, oppure capre, oppure tutti e tre questi tipi di animali, tutti quanti in grado di fornire latte e burro, anche se oggi preferiamo ottenerlo da latte bovino. Pare comunque che i primi mammiferi furono introdotti sull'isola solo circa 2000 anni fa e si tratta soltanto di specie domestiche come capre, pecore, asini, cammelli e mucche.
Né Corsali si attarda a specificare che senz'altro anche la carne di questi animali affidati ai pastori serviva loro da alimento, ovviamente quando i soggetti erano giunti al termine della loro carriera produttiva di latte, prole e lana (e questa non certo impiegata per confezionare mantelli e maglie invernali), oppure quando i soggetti avevano un incidente e morivano o si era costretti a sopprimerli, come spesso accade.
E di animali al pascolo doveva essercene una caterva, visto che i pastori "vivono di latte e butiro, che qui n'è grandissima abbondanzia" Né Corsali specifica che per ridurre la carne in esubero, sia viva che macellata, magari i pastori la scambiavano con il riso che di tanto in tanto i marinai scaricavano sull'isola.
Tutto ciò che abbiamo testé specificato non sta scritto, ma può venir facilmente sottinteso in assoluto rispetto della ragionevolezza. Credo di poter affermare - anche se Corsali non lo dice - che i pastori, oltre a latte, burro, datteri e riso, mangiavano anche la carne dei loro quadrupedi, salvo doverla sotterrare o farne dono agli avvoltoi, magari al capovaccaio, Neophron percnopterus, tuttora osservabile in gruppi sull'isola.
Infatti nutrirsi di carne di quadrupedi non era un'offesa a Dio, eccetto il venerdì, ammesso che i pastori cristiani di Socotra seguissero la regola dell'astinenza tanto cara alla Chiesa Cattolica. Poi, con grande disappunto dei pescivendoli, solo dal 17 febbraio 1966 la Costituzione Apostolica Paenitemini ha limitato l'astinenza dalle carni al mercoledì delle Ceneri, ai venerdì di Quaresima e al Venerdì Santo e ne ha consentito la sostituzione con opere di carità spirituale o corporale per gli altri venerdì dell'anno.
E veniamo finalmente al pollo di Socotra. In fin dei conti, questi pastori, avrebbero avuto la possibilità di allevare polli? In teoria sì, essendo il pollo onnivoro, tanto da trangugiare avidamente anche le feci umane, ma se al posto delle feci si volesse dare ai polli delle granaglie di cui sono altrettanto ghiotti, ecco che Corsali afferma "La terra non è molto fruttifera, ma sterile e deserta com'è tutta l'Arabia Felice". Per cui agli isolani conveniva fare i pastori anziché i coltivatori di granaglie. Non coltivavano neanche il frumento per farsi il pane, sostituito dai datteri. E non dimentichiamo che Conrad Gessner a pagina 382 di Historia animalium III (1555), citando Strabone, a proposito delle Yemen - l'Arabia Felix per antonomasia e posta dirimpetto a Socotra - scrive: La parte dell’Arabia rivolta verso Austro – verso sud – e che si erge dirimpetto all’Etiopia, possiede in abbondanza uccelli di ogni tipo eccetto oche e galline, Strabone.
Quindi, se la fonte di Ulisse è stata la lettera di Corsali, Ulisse ha ciurlato per l'ennesima volta nel manico, e lo dimostra lo stralcio della lettera di Corsali che a noi interessa, chiudendo benevolmente un occhio sui suoi errori di botanica. Nello stralcio è oltremodo agevole accertare che i polli, contrariamente a quanto accade in Giulio Cesare, vi sono del tutto assenti.
Giovanni Battista Ramusio volume I Delle navigationi et viaggi (1550) - Andrea Corsali fiorentino allo illustrissimo principe e signor il signor duca Lorenzo de' Medici, della navigazione del mar Rosso e sino Persico sino a Cochin, città nella India, scritta alli XVIII di settembre MDXVII.
[...] Questa isola di Soquotora è in circuito quindeci leghe, e mi pare, quando Tolomeo compose la sua Geografia, che era incognita appresso de' naviganti, come molt'altre per decorso del tempo per questa navigazione novamente discoperta: il che non è di maraviglia, non essendo di costume a que' tempi discostarsi molto dalla terra. Questa è abitata da pastori cristiani, che vivono di latte e butiro, che qui n'è grandissima abbondanzia; il lor pane sono dattili. Nella medesima terra è alcuno riso, che d'altre parti si naviga. Sono di natura Etiopi, come i cristiani del re David, con il capello alquanto piú lungo, nero e riccio; vestono alla moresca, con un panno solamente atorno le parti vergognose, come costumano in India, Arabia ed Etiopia, massime la gente populare. Nell'isola non vi si trova nessun signor naturale: egli è vero che le ville vicine al mare sono signoreggiate da Mori di Arabia Felice, che, per il commerzio ch'essi tenevano coi detti cristiani, a poco a poco gli soggiogarono e impatronironsi. La terra non è molto fruttifera, ma sterile e deserta com'è tutta l'Arabia Felice; in essa vi sono montagne di maravigliosa grandezza, con infiniti rivi d'acqua dolce. Qui è molto sangue di drago, ch'è gomma d'un arbore il quale si genera in aperture di questi monti, non molto alto, ma grosso di gambo e di scorza delicata, e va continuamente diminuendo da basso in suso come ritonda piramide, in la punta della quale sono pochi rami, con foglie intagliate come di rovere. Di qui viene lo aloe soquoterino, dal nome dell'isola denominato. Nella costa del mare si trova molto ambracan; ancora gran quantità ne viene dell'Etiopia, da Cefala sino al capo di Guardafuni, e di questa isola dell'oceano.
Prima di procedere, vorrei sottolineare che neppure Lind (1963) è stato in grado di ipotizzare la fonte della fantasmagorica notizia sui polli di Socotra propinataci da Aldrovandi. È d'uopo procedere in quanto ulteriori ricerche nel I volume Delle navigationi et viaggi (1550) di Ramusio espletate domenica 7 settembre 2008 mi hanno permesso innanzitutto di appurare 3 ulteriori toponimi di Socotra che vanno ad aggiungersi a Soquotora di Corsali: si tratta di Zacotora, Zocotera e Çocotora.
Soprattutto ho potuto appurare che la mia affermazione sul fatto che i pastori mangiavano carne corrisponde pienamente al vero. Ma in primis, ovviamente, ho potuto appurare che mai nessuno sia prima che nel XVI secolo parlò di polli di Socotra.
Come vedrete, il fatto che mangiassero carne - e davano quindi agli avvoltoi solo gli scarti - lo afferma nel 1516 Duarte o Odoardo Barbosa (Lisbona ca. 1480 – Filippine 1521) che ebbe l'onore di morire come il suo capoccia Magellano: venne anch'egli assassinato pochi giorni dopo. Poi potrete leggere succinte notizie non alimentari relative a Zocotera tramandateci dal viaggiatore e mercante Nicolò dei Conti (Chioggia ca. 1395 - Venezia 1469) che tra il 1414 e il 1439 visitò Damasco, la Persia e l'India. Ma Nicolò dei Conti è l'unico a specificare che questi cristiani erano dei nestoriani – lui dice nestorini – cioè seguaci di Nestorio (fine IV secolo - 451), patriarca di Costantinopoli, condannato come eretico nel concilio di Efeso del 431. Nestorio rifiutò la dottrina dell'unità in Cristo della natura divina e della natura umana, sostenendo di fatto una distinzione tra il Figlio di Dio e il figlio di Maria, la quale non può essere pertanto definita Madre di Dio.
Libro di Odoardo Barbosa portoghese - Nel presente anno 1516 io diedi fine a scrivere il presente libro - Capo di Fartas e Zacotora isola.
In questo paese e regno è un capo detto il capo di Fartas, dove la costa torna a far la volta nel mar largo: e fra questa e quella di Guardafuni è la bocca dello stretto di Mecca, donde tutte le navi passano al mar Rosso. Fra queste due punte sono tre isole, due piccole e una grande, chiamata Zacotora: questa è isola con molte alte montagne, e abitata da gente olivastra, nominati cristiani; ma manca loro il battesimo e la dottrina cristiana, che non hanno se non il nome di cristiani, e mancò quivi la legge cristiana già molti anni, e avanti che vi navigassero Portoghesi. Dicono i Mori che questa fu già isola delle femine dette Amazoni, le quali poi per ispazio di tempo si mescolarono con gli uomini: il che in alcune cose si conosce, perciò che le donne ministrano le facultà e le governano, senza che i mariti se n'impaccino. Questi hanno linguaggio da per sé e vanno ignudi, solamente cuoprono le lor vergogne con panni di bambagio e con pelli. Hanno molte vacche e castrati e palme e dattili; le lor vettovaglie sono di carne, di latte e di dattili. In questa isola vi è molto sangue di drago e molto aloe zocoterino. In essa i Mori di Fartas fecero una fortezza, per poterla tener soggetta e far che gli abitanti di essa fossero suoi schiavi con le lor persone e con le lor facultà. Ma arrivandovi un'armata del re di Portogallo, pigliò detta fortezza dei Mori di Fartas per forza d'arme, combattendo con essi, i quali si difesero molto piú gagliardamente che gli altri di quelle parti, di sorte che non si volsero mai arrendere e moriron tutti in battaglia, che nessuno di loro scampò, perché sono molto valenti e arditi nella guerra. Il capitano della detta armata lasciò nella fortezza gente e artegliaria, per guardarla in nome del re di Portogallo. Appresso di questa isola di Zocotora sono due altre isole di uomini olivastri e negri come Canarii, senza legge e senza dottrina, e non hanno conversazione con alcuna altra gente. In queste due isole si trova molto buono ambracan e in quantità, e molte pietre dette niccoli, di quelle che vagliono e sono stimate in la Mecca, e molto sangue di drago e aloe zocotorino, ed evvi molto bestiame, vacche e castrati.
Viaggio di Nicolò di Conti veneziano, scritto per messer Poggio fiorentino. - Nicolò di Conti veneziano, essendo giovane e ritrovandosi nella città di Damasco di Soria, avendo imparato la lingua arabica, se n'andò colle sue mercanzie con una carovana di mercatanti, che erano da 600, con i quali passò per l'Arabia che si domanda Petrea, dove sono gran deserti, e poi per la provincia di Caldea, insino che giunse sopra il fiume Eufrate.
Dell'isola Zocotera, ove nasce l'aloe. - Di qui essendo ritornato di nuovo verso Calicut, se ne venne per mare ad una isola chiamata Zocotera, la quale, andando alla volta di ponente, è posta lontana da terra ferma cento miglia; ha di circuito 600 miglia. Dimorò in far questo viaggio da duo mesi. Nasce in detta isola eccellente aloe, chiamato cocotrino. La maggior parte di questa isola è abitata da cristiani nestorini.
Di due isole, in una delle quali separatamente vivono gli uomini, nell'altra le donne; e dell'effetto che causa l'indisposizione di quell'aere. - In fronte di questa isola, non piú di cinque miglia lontano, vi sono due isole, distanti l'una dall'altra trenta miglia, in una delle quali abitano solamente uomini, nell'altra donne. Alcuna volta vanno gli uomini all'isola delle donne, e similmente le donne a quella degli uomini, e sono stretti e necessitati, avanti che compino tre mesi, di partirsi e ciascuno tornare alla sua isola, perché, contrafacendo e stando piú del tempo determinato, la disposizione del cielo e dell'aere gli fa morire immediate.
Riprendiamo
il discorso che abbiamo dovuto forzatamente interrompere grazie a quel buffone
di Ulisse Aldrovandi. Cassivellauno
si ritirò man mano verso il proprio territorio. Per inseguirlo i Romani
furono costretti ad attraversare il Tamigi, non con imbarcazioni, ma a piedi.
Un punto del fiume anticamente guadabile corrisponde a quel tratto londinese
del Tamigi che scorre a Westminster. I soldati romani, sebbene emergessero
dall’acqua solo con la testa, passarono il fiume con tale rapidità e con
tale slancio che i nemici non poterono sostenere l’attacco delle legioni e
dei cavalieri e, abbandonata la riva, si diedero alla fuga. Cesare - V,21,2 -
arriva fino alla piazzaforte di Cassivellauno (forse la futura Verulamium)
e l’attacca energicamente da due parti. I nemici resistono brevemente e poi
si danno alla fuga. Essendo sorti dei problemi in Gallia, dopo alcune
scaramucce con Cassivellauno nel Kent, Cesare impone un tributo e all’inizio
di settembre torna sul continente con le sue legioni.
Cassivellauno
è nome tipicamente celtico ed era un Belga. Regnava su un popolo - poi
chiamato Catuvellauni da Tolomeo e da Cassio Dione - stanziato a nord del
Tamigi attorno alla futura Verulamium, alta sopra la riva del fiume
Ver. Verulamium corrisponde all'attuale Old Verulam nei pressi di Saint
Albans, città con 52.000 abitanti
posta presso il fiume Ver, contea di Hertford, distante circa 15 km
dalla periferia nord di Londra.
Ma,
per raggiungere il guado londinese, Cesare fu costretto a transitare nel
territorio posto alla periferia sud della futura Londra: passò senza dubbio
nei pressi di Dorking, città del Surrey, alla periferia sudovest di Londra.
Gli
Atrebates, tribù celtica del continente, occupavano il territorio dell’odierno
Artois, che prima di essere francese apparteneva alla Belgica. Prima
dell'era cristiana Arras fu il capoluogo degli Atrebates, dapprima
detta Nemetacum e successivamente Civitas Atrebatum, da cui l’odierna
Arras, capoluogo del dipartimento francese del Pas-de-Calais.
I
pareri sono discordi, ma pare che un’altra tribù di Atrebates fosse già
stanziata oltremanica. Durante il II e il I secolo aC
fu una delle più potenti tribù britanniche e mantenne stretti vincoli con le
tribù imparentate della Gallia. Il capoluogo degli Atrebates
britannici era Silchester (Calleva Atrebatum), nell’Hampshire,
stanziati in un’area corrispondente agli attuali Hampshire, West Sussex, Berkshire, Wiltshire
nordorientale e West
Surrey, quindi a ridosso di Dorking, che si trova al centro del Surrey. In
linea d’aria Dorking dista una sessantina di km da Silchester.
Nel
57 aC Commio venne nominato re degli Atrebati continentali da Cesare,
che quindi lo inviò in Britannia in avanscoperta per una futura prima
spedizione. L’incarico di Commio era quello di visitare tutte le tribù
possibili e invitarle a dichiararsi fedeli a Roma. Accompagna Cesare in
Britannia nelle spedizioni del 55 e del 54 aC,
ma a un certo punto Commio tradisce Cesare e si allea a Vercingetorige che
stava fomentando la rivolta degli Arverni, ai quali si unirono poi altri
popoli galli. Dopo la disfatta di Vercingetorige ad Alesia
[12]
,
Commio si rifugia in Britannia e fonda il regno degli Atrebati d’Oltremanica
diventandone il re. Questo regno - con centro principale sempre a Silchester (Calleva
Atrebatum) - attrasse altri immigrati dal Belgio, venendo gradualmente a
costituire nel Berkshire, Wiltshire, Hampshire e Somerset il dominio dei Belgi
occidentali contrapposto a quello dei Belgi orientali di Cassivellauno
[13]
.
Fu un discendente di Commio a dare il
pretesto a Claudio per invadere la Britannia: si tratta di Verica, che forse
era il terzo figlio di Commio il Giovane, a sua volta figlio di Commio. Dal
momento che Verica - noto anche come Berikos - guerreggiando contro i Trinovantes
aveva perso la parte settentrionale del suo territorio, inclusa la capitale
Silchester, allora si rivolge ai Romani per ottenere aiuto e va a supplicare
Claudio direttamente a Roma nel 42 dC,
creando così la scusa per l’invasione romana della Britannia dell’anno
successivo.
Secondo
quanto afferma la Guida della Gran Bretagna del Touring Club Italiano (1972), dopo
la venuta di Cesare intensissimi rapporti commerciali si svilupparono per un
secolo tra le due rive della Manica, rapporti che servirono a diffondere nell’isola
la civiltà romana e favorirono la costituzione di un forte regno capeggiato
da Cunobelinus, che aveva la sua capitale a Camulodunum
(Colchester). La richiesta di aiuto da parte di Verica indusse l’imperatore
Claudio
[14]
a intraprendere la
conquista della Britannia nel 43 dC. Precedentemente, con dei veterani inviati sul posto,
Claudio si era preparato il terreno tra i pochi re fedeli clienti di Roma.
Anche stavolta i Romani sbarcarono nel Kent (Cantium, dove era
stanziata la tribù celtica dei Cantii), affrontando una guerra lunga e
difficile. Vinto e deportato nel 50 dC Caractacus, figlio di Cunobelinus,
i Romani dovettero più tardi affrontare Boudicca (o Boadicea) regina degli
Iceni, antico popolo
celtico trasmigrato in Britannia nel 250 aC.
Secondo
quanto riferito nell’articolo Boudicca, Queen of the Iceni, led a revolt
against the Roman military in AD 60-61 (Athena Review Vol.1, No.1),
i mercanti e i re degli Iceni conobbero una notevole prosperità grazie agli
scambi commerciali con l’impero romano, scambi che si svolgevano attraverso
la Manica, tanto che essi arrivarono a coniare monete tra il 65 aC
e il 61 dC.
Verso la fine di tale periodo, in seguito all’invasione della Britannia da
parte di Claudio nel 43 dC, il re
degli Iceni Prasutago (che regnò dal 50 al
60 dC)
divenne un ricco e potente cliente dei Romani. Quando Prasutago morì, lasciò
come eredi le due figlie e l’imperatore Nerone (37-68 dC). Ciò nonostante i Romani avevano invaso il
territorio degli Iceni, lo avevano saccheggiato, i parenti del re erano stati
fatti schiavi, la vedova malmenata e le figlie oltraggiate. A vendicare gli
oltraggi patiti era sorta la vedova di Prasutago, Boudicca, la quale era
riuscita a sollevare gli Iceni e i vicini Trinovantes, costituendo un
esercito di centomila uomini e marciando su Camulodunum (Colchester).
Qui stavano di presidio pochi veterani romani che dopo una vana resistenza si
erano asserragliati nel tempio di Claudio; ma dopo due giorni il tempio era
stato espugnato, i difensori massacrati e la città data al saccheggio e alle
fiamme. Petilio Ceriale, legato della IX Legione, accorso in aiuto, era stato a
sua volta sconfitto e costretto a fuggire con la cavalleria, mentre Cato
Deciano aveva ripreso il mare alla volta della Gallia.
Svetonio
Paulino si diresse a marce forzate verso il teatro della rivolta e tentò di
salvare Londinium e Verulamium, ma i suoi sforzi non furono
coronati da successo: le due località caddero in mano dei ribelli. Allora il
generale marciò su Camulodunum, dove gli insorti avevano radunato la
maggior parte delle loro forze. Qui Paulino costrinse i ribelli a una
battaglia campale e li sconfisse sanguinosamente. Boudicca, uscita salva dalla
disfatta, si diede la morte ingerendo un veleno: Boudicca vitam veneno finivit (Tacito,
Annales XIV,37). La giornata di Camulodunum segnò la fine dell'insurrezione ma
anche l'inizio di feroci repressioni romane. I presidi furono rinforzati e si
inaugurò una politica di conciliazione, che doveva dare ottimi risultati.
Gli
storiografi del passato non parlano di polli importati a Roma dalla Gallia o
dalla Britannia. Invece a Roma si importavano oche dal territorio dei Morini
che abitavano la Gallia Belgica. Le oche, partite dalla Manica,
raggiungevano Roma a piedi. Ce lo racconta Plinio in Naturalis historia
X,52-53:
Nostri
sapientiores, qui eos iecoris bonitate novere. Fartilibus in magnam
amplitudinem crescit, exemptum quoque lacte mulso augetur. Nec sine
causa in quaestione est, quis tantum bonum invenerit, Scipio Metellus
vir consularis an Marcus Seius eadem aetate eques Romanus. Sed, quod
constat, Messalinus Cotta, Messalae oratoris filius, palmas pedum ex
iis torrere atque patinis cum gallinaceorum cristis condire repperit;
tribuetur enim a me culinis cuiusque palma cum fide. Mirum in hac
alite a Morinis usque Romam pedibus venire. Fessi proferentur ad
primos; ita ceteri stipatione naturali propellunt eos. |
Più
saggi furono i nostri antichi a riconoscere le oche per la bontà del
loro fegato
[15]
.
A quelle che
vengono ingrassate, l’organo cresce in modo enorme, e una volta
tolto all’animale, continua a ingrossare se immerso in latte e miele
[16]
.
Non senza
motivo dunque ci si domanda chi abbia scoperto questa grande
leccornia, se l’ex console Scipione Metello, oppure Marco Seio, che
fu un cavaliere romano della stessa epoca
[17]
.
Ma quello che
sappiamo è che Messalino Cotta, figlio dell’oratore Messalla
[18]
,
inventò la
ricetta dei loro piedi palmati arrostiti e cucinati in padella con le
creste di gallo; io attribuisco la palma della vittoria all’arte
culinaria di ciascuno con piena onestà. Desta meraviglia in questo
volatile il fatto di giungere a piedi fino a Roma dal territorio dei
Morini
[19]
.
I soggetti stanchi vengono messi davanti a quelli che sono in prima
fila; così gli altri li sospingono per l’istinto naturale che li fa
accalcare. |
Il
testo che segue è tratto anch’esso da
Il ruolo dei Celti nell’Europa antica di Fabio Calabrese - pubblicato
il 15-11-2002
in www.bibrax.org: “Dal
tempo della grandezza di Roma, le oche, specialità degli allevatori della
Gran Bretagna, venivano esportate fino in Italia a branchi che si spostavano
camminando sotto la guida di venti intermediari e attraversando la Gallia, da
Calais alle Alpi in circa un mese. Con la comparsa del cavallo da tiro, lo
stesso commercio e quello di altri prodotti, si svolse in parte con barche che
salivano e discendevano i fiumi, e in parte con pesanti carri che svolgevano
la stessa funzione delle odierne ferrovie. Il cavallo da tiro, generalizzando
la trazione di pesanti carichi sui lenti fiumi della Germania e delle Fiandre,
aprì questi paesi alla civiltà così bene che la loro funzione li pose
rapidamente allo stesso livello dell’Europa mediterranea, e finì anche per
sopravanzarla.” (Louis Pauwels e Jacques Bergier. L’uomo eterno (L’homme éternel), Mondadori, Milano 1971,
pag. 269)
Quindi abbiamo visto che intensi traffici commerciali si svolgevano
tra la Britannia e il mondo romano, sia dopo la visita di Cesare in
Britannia che dopo la conquista di Claudio, e che ai tempi di Cesare a nord
del Tamigi erano stanziate delle popolazioni belghe guidate da Cassivellauno.
Orbene, in un ambiente celtico e belga, vivevano verosimilmente due razze di
polli dotate ambedue di cinque dita.
Una
di queste razze era rappresentata dalla Dorking
che
forse abitava a sud di Londra, l’altra era l’antica Houdan
che
viveva verosimilmente ai margini della Belgica, in quanto la città di
Houdan si trova a una sessantina di km a ovest della Senna, considerata il
confine occidentale del territorio occupato dagli antichi Belgi.
Houdan
attualmente conta 2.925 abitanti,
è situata nella regione dell’Île-de-France, dipartimento di Yvelines
(capoluogo Versailles), 63 km a ovest di Parigi, proprio sul confine occidentale dell’Île-de-France
che è quasi tagliata in due dal serpeggiare della Senna. Quindi si può dire
che la città di Houdan, se non fosse per l’interposizione del lembo
settentrionale del dipartimento di Eure-et-Loir, confinerebbe con l’attuale
Haute-Normandie, e quindi con il settore orientale di quella regione storica
che riceve il nome di Normandia, limitata a sudest dall’Île-de-France, a
sudovest dalla Bretagna, a sud dal Maine e a nordest dalla Piccardia. La
Normandia fu anch’essa abitata da numerose tribù celtiche, delle quali
possiamo citare gli Aulerci Cenomani, gli Aulerci Eburovices,
gli Aulerci Diablintes, i Carnutes, i Lexovii, i Baiocasses
e gli Unelli., tutte citate da Cesare eccetto le ultime due.
Fig. X. 18 – Dorking
Le
prime notizie storiche sicure sulla Dorking, come riportato da Edward Brown in
Races of domestic Poultry (1906),
risalgono al XVII secolo. Come riferisce Brown, in un lavoro pubblicato nel 1854 (Rare
and Prize Poultry) l’autore G.Ferguson scrisse che a partire dal 1683 esistevano
ampie prove circa il fatto che i principali polli oggetto della sua
trattazione erano stati allevati a Dorking, o nei suoi dintorni, e che per un
considerevole periodo di tempo, come ancora nel 1854,
giustamente tali polli avevano avuto l’onore di rifornire i mercati con i
più eccellenti esemplari, sia per l’aspetto che per la tavola. Giustamente
Brown puntualizza un fatto: dal momento che Ferguson non adduceva alcuna
motivazione, Ferguson non aveva nessuna autorità per far risalire la Dorking
puramente e semplicemente al 1683.
Pertanto, secondo Brown, non era possibile esprimere alcun giudizio sull’attendibilità
della sua affermazione cronologica.
Jean
Claude Périquet in Le gran livre des volailles de France (1994) afferma
che le cinque dita della Houdan sembrano derivare dalla gallina comune a
cinque dita che era molto diffusa in Normandia, piuttosto che dalla
Dorking. Sempre secondo Périquet la Houdan è una delle più antiche razze
francesi, la cui esistenza è attestata sotto il regno di Luigi XIII (1601-1643),
e può aver ereditato il ciuffo dalla Padovana.
Brown,
trattando della Houdan, ne riconosce la grandissima popolarità a fini
utilitaristici, e riferisce che, per il fatto di possedere cinque dita, è
stata rivendicata alla Dorking la possibilità di essere una dei suoi
antenati, e che la presenza del ciuffo può essere derivato dalla Polish. Ma
successive osservazioni - prosegue Brown - hanno mostrato che tali
affermazioni non possono essere accettate appieno. Infatti sembra fuori dubbio
che la Houdan sia unicamente originaria del dipartimento di Seine-et-Oise
[20]
e che per un certo
periodo di tempo la sua diffusione in quest’area sia stata praticamente
universale.
A
questo punto Brown cita La Perre de Roo, il quale nel 1902 scrisse che, nonostante si voglia far risalire la Houdan alla
Dorking e alla Padovana, non esistono prove positive in tal senso,
specialmente per il fatto che la Houdan non possiede della Dorking né il
piumaggio né la struttura somatica. La Perre de Roo affermava infatti come
dato certo che la Houdan esisteva da secoli nell’area di Houdan, dove questo
pollo si allevava in grande quantità per i mercati di Parigi e di Londra.
Fig. X. 19 – Houdan
Brown
riferisce anche ciò che sostenevano i Francesi: che la Dorking giunse nel sud
dell’Inghilterra proprio dalla Normandia, che la Dorking era allevata in
Normandia sin dal tempo dell’occupazione romana della Gallia e che polli con
cinque dita furono noti nel nord della Francia per parecchi secoli.
A
supporto di quest’ultima affermazione La Perre de Roo parla così della razza
comune a cinque dita: “Questa razza è caratterizzata dalla peculiarità
di possedere un quinto dito che porta su ciascuna zampa, e tale caratteristica
è rinvenibile nei dintorni di Courtrai (Kortrijk), Bruges, Gent e altre
città belghe, come pure nei dipartimenti francesi del nord, dove ha un’alta
e ben meritata reputazione.” Jean Claude Périquet, parlando della Houdan
aggiunge: “Per quanto riguarda le cinque dita, sembra che questa
peculiarità provenga dalla gallina comune a cinque dita (che era molto
diffusa in Normandia) piuttosto che dalla Dorking.”
(Le grand livre des volailles de France, 1994)
[21]
Fig. X. 20 – Faverolles. Questo pollo ha preso il nome da una località che
è vicina alla cittadina francese di Houdan nel dipartimento di Eure-et-Loir.
Anche secondo Jean Claude Périquet la sua creazione risale agli anni 1870.
Gli allevatori della zona tentarono di far scomparire i difetti della Houdan,
dovuti alla presenza del ciuffo, incrociandola con la Brahma e poi con la
Cocincina, la Coucou di Rennes, la Langshan e la Dorking. Ogni grosso volatile
da macelleria della regine era allora chiamata Faverolles: poco importava che
questi soggetti avessero una cresta semplice, rugosa, tripla, semplice
anteriormente e posteriormente sdoppiata, 4 o 5 dita e un piumaggio non
omogeneo. Solo il valore della carne era di primaria importanza.
Successivamente si giunse a una purezza di razza con caratteristiche stabilite
dallo standard. (Jean Claude Périquet, Le gran
livre des volailles de France
- 1994) - Più sintetico è Edward Brown nell’indicare l’albero
genealogico della Faverolles: "This
breed is mongrel of Houdan with Dorking x Light Brahma. Created
around 1870 in France, took its name from a village in the department of
Eure-et-Loir, nearby Houdan, the latter belonging to the department of
Yvelines.” (Edward Brown, Races of domestic poultry
- 1906)
Come
abbiamo visto, se fra il 600 e il 500 aC i
Celti avevano occupato le isole britanniche, tra il 100 e il 60 aC nel sud
della Britannia erano giunti altri Celti, e precisamente i Belgi.
Brown
vuole dare ancora una stilettata a Ferguson. Questo autore scrisse che alcuni
suoi amici gli avevano procurato dal sud dell’Italia tre soggetti che erano
dei facsimile della Dorking, fatta eccezione per la mole, che era inferiore.
Brown asserisce che durante una sua visita in Italia nel 1903 si era imbattuto in soggetti che avevano una certa
somiglianza con la Dorking, magari discendenti di polli portati dalla
Britannia alla Penisola Italiana.
In
base alle antiche attestazioni degli scrittori romani - prosegue Brown - si
può dare per certo che una razza tipo-Dorking era nota in Italia nel periodo
in cui essi scrissero e pubblicarono i loro trattati. Ma ciò non annullerebbe
un fatto molto evidente: polli con le caratteristiche della Dorking sono stati
presenti da moltissimo tempo in Britannia, molto al di là di qualsiasi
documentazione diretta in nostro possesso. Tuttavia, a testimoniare quest’antica
presenza non possono essere di alcun aiuto gli scrittori inglesi, in quanto le
loro citazioni non caverebbero il ragno dal buco: infatti è solo a partire
dal XIX secolo
che abbiamo a disposizione informazioni precise sulla Dorking stilate dagli
inglesi. E, a fini cronologici pre-romani, non possono essere d’aiuto
neppure le parole di Réaumur, che nel suo Art
de faire éclorre et d’élever en toute saison des oiseaux domestiques de
toutes espèces, edito per la
prima volta agli inizi del 1700, parla di
una razza di polli dotata di cinque dita, dalla grossa corporatura, e che a
causa del suo grosso volume merita ogni sforzo volto a moltiplicarla.
Cosa
pensavano due eminenti studiosi italiani di avicoltura come Teodoro Pascal e
Alessandro Ghigi? Vediamo le loro ipotesi.
Teodoro
Pascal, parlando della Dorking in Le razze della gallina domestica (1905) lascia
trasparire la possibilità che la Dorking sia originata da un pollo a cinque
dita che viveva ai bordi della Manica:
“La
razza nazionale dei biondi figli di Albione
[22]
trae il nome di Dorking dalla
città omonima situata nella contea di Surrey, al sud dell’Inghilterra, ove,
come nella contea di Sussex, viene coltivata da secoli. La particolarità
della Dorking consiste nel quinto dito al piede, particolarità che
riscontrasi in pochissime razze, nella Houdan, nella Sultana, nella Mora a
seta, ecc. La gallina comune a cinque dita era conosciuta sin dall’epoca
romana, come risulta da una descrizione lasciata da Columella, quindi è
lecito supporre che i romani portarono questo volatile a cinque dita nella
Gran Brettagna [sic!] quando la conquistarono, e che perciò la razza Dorking,
pure a cinque dita, non sia altro che un derivato del pollo dei Romani; e
difatti la generalità degli autori inglesi è del parere che la gallina bruno
scura ed a quattro dita del Sussex, incrociata colla gallina a cinque dita,
abbia dato il tipo primitivo della Dorking. Ma d’altra parte qualche autore
inglese vede l’origine della sua razza dalla gallina comune a cinque dita
della Normandia. Comunque, l’origine romana, e parimente l’origine
francese della Dorking, nulla tolgono e nulla aggiungono al valore della
superba razza inglese, ma resta assodato che la gallina a cinque dita è
quella che le ha dato origine.”
Alessandro
Ghigi nel suo Trattato di avicoltura (1968) non descrive la
Dorking. Parla però della pentadattilia nota ai Romani e ai suoi tempi.
Vediamone i relativi brani.
Pagina
13:
“Columella raccomanda di tenere, come più feconde, anche le galline con
cinque dita. Il consiglio è importante perché prova che la polidattilia dei
polli è una mutazione che conta almeno duemila anni: si riferiscono
evidentemente a Columella gli scrittori inglesi, i quali dicono che la razza
Dorking a cinque dita è di origine romana e fu importata in Inghilterra al
tempo di Cesare.”
Pagina
20:
“Columella consiglia, peraltro, galline ad orecchione bianco e con cinque
dita, cosa però di dubbio valore inquantochè il quinto dito soprannumerario
è da considerarsi piuttosto una rarità: l’Autore ha evidentemente calcato
su quanto Varrone afferma come semplice osservazione.”
Vedremo
che non si tratta di una semplice osservazione di Varrone, ma di un suo
consiglio per chi vuole possedere un allevamento avicolo perfetto.
Stiamo
affannosamente razzolando in un ambiente che fu celtico, alle prese con due
razze antiche affacciate ambedue sulla Manica, il cui curriculum vitae
ci è sconosciuto, come accade per la quasi totalità dei polli. Ma si tratta
di due razze con una caratteristica genetica facilmente descrivibile e
documentabile: ancor oggi sono dotate di 5 dita.
Tutto
l’excursus storico centrato cui Celti, sulla Gallia e sulla Britannia ha un
preciso significato. Edward Brown è tra coloro che ipotizzano che le cinque
dita della Dorking non provengano da Roma, ma che esse abbiano compiuto un
percorso inverso, cioè che dalla Britannia, o dalla Gallia settentrionale,
abbiano raggiunto la capitale dell’impero romano. Brown cita due autori
latini che parlarono di galline a cinque dita più esplicitamente (Columella)
o meno esplicitamente e più confusamente (Plinio), due autori che diedero
quasi per scontato trattarsi di galline romane visto che non ne hanno indicata
l’origine. Ma Brown omette una fonte storica molto importante che a mio
avviso avrebbe potuto dargli ragione in questa diatriba che non ha nulla di
campanilistico: Brown tralascia Varrone.
Prima di affrontare gli autori latini dobbiamo sapere che
Aristotele
[23]
, il quale visse
sempre e solamente in ambiente mediterraneo, e che per esempio parlò delle
galline Adrianaí - o Adrianikaí o Hadrianae ancor oggi
difficilmente identificabili -, non segnalò polli dotati di 5 dita. Non credo che se Aristotele ne avesse accennato ciò
sarebbe sfuggito ad Aldrovandi, il quale nella sua Ornithologia fece
ripetuti riferimenti al filosofo greco per dati comportamentali e biologici
inerenti al pollo, incluse le varie tappe dello sviluppo dell’embrione nell’uovo
di gallina.
Così,
le uniche fonti di Aldrovandi relative alla pentadattilia nel pollo sono
costituite da due autori latini: Plinio e Columella. Aldrovandi tralasciò
Varrone per motivi non facilmente diagnosticabili, e certamente non perché
non conoscesse a fondo Varrone vista la dovizie di citazioni che ne desume.
Facciamo un’ipotesi che potrebbe corrispondere al vero: come vedremo, Plinio
e Columella parlarono in modo più o meno inequivocabile di cinque dita,
mentre Varrone usò solo l’aggettivo impar - che analizzeremo più
avanti - per definire il numero di dita possedute dalle galline prolifiche.
Che Aldrovandi conoscesse il preciso significato dell’aggettivo impar
è dimostrato dal suo frequente impiego per denotare il concetto di dispari
riferito al numero delle uova. Né Aldrovandi ha mai fatto confusione fra impar
e dispar: infatti non ha mai impiegato l’aggettivo dispar nel
testo relativo al pollo contenuto nella sua Ornithologia, e l’impiego
di impar vi è sempre appropriato in quanto possiede il corretto
significato di dispari se riferito a un numero. Pertanto, o Aldrovandi
ha scotomizzato che l’impar di Varrone attribuito alle dita
significasse una polidattilia (cinque, sette, nove e più dita), oppure
pretendeva che da parte degli autori latini si parlasse più o meno
esplicitamente di cinque dita.
Abbiamo
una riprova del fatto che Aldrovandi non tralasciò di esaminare attentamente
la letteratura del passato: neppure in A glossary of Greek Birds di D’Arcy
Thompson (1895) siamo
in grado di trovare un qualsivoglia accenno a un pollo pentadattilo noto agli
antichi Greci. D’Arcy Thompson dedica ben 12 pagine
alla voce Alektryøn (gallo), ma dopo un’attenta analisi della
congerie di dati segnalati dall’autore dobbiamo concludere che il pollo
pentadattilo non venne mai menzionato da un antico autore greco.
Neppure
in Ornithologia Latina di Filippo Capponi (1979) trapela
un qualsivoglia riferimento alla pentadattilia - o, se vogliamo, alla
polidattilia - eventualmente segnalata nel pollo da autori greci, soprattutto
da Aristotele: nonostante quello di Capponi sia uno studio ornitologico
relativo a quanto ci hanno tramandato gli antichi autori latini, giustamente
egli ricorre a continui richiami alle opere aristoteliche per mettere in luce
eventuali parallelismi tra gli scritti del filosofo greco e quelli soprattutto
di Plinio. Così, per esempio, Capponi riporta per esteso le notizie
riguardanti le galline di Hadria fornite da Aristotele, notizie che
sono mille volte più doviziose della stringatissima frase di Plinio, che in
proposito si limita a dire: “Hadrianis laus maxima. - La massima lode va
alle galline di Hadria”(X,146)
Orbene,
alla voce Gallus, Capponi non riporta alcun dato morfologico - né
latino né greco - relativo alla pentadattilia. Del gallo vengono solo
analizzati i dati latini e greci relativi a statura, cresta, capo, gozzo,
intestino crasso, coda e speroni.
Invece
alla voce Gallina - nel paragrafo Classificazione - Capponi
riporta i brani relativi alle galline dalle dita dispari tratti da Varrone,
Columella e Plinio, ma non vi compare alcun riferimento ad Aristotele.
Come vedremo in 8.18., credo che questa mia filippica in difesa della scrupolosità e della serietà di Aldrovandi può essere facilmente oppugnata dalla precisione priva di prosopopea di un grande contemporaneo e collega di Ulisse: Conrad Gessner. Come diremo in XI.3.1. questo medico zurighese (1516-1565), famoso anche per la sua Historia animalium in cinque volumi (1551-1587), rappresentò una fonte preziosissima dalla quale Aldrovandi attinse a piene mani. Ma Aldrovandi, rielaborando e riversando a iosa nella sua Ornithologia i testi di Gessner, più volte offuscò la chiarezza espositiva e concettuale del suo collega - che chiamò Ornithologus per antonomasia - compromettendone l’intelligibilità e l’attendibilità, talora in modo assai grave. Non solo: talora tralascia dati importanti - o meglio, più che palesi - riferiti in modo scarno e preciso da Gessner, come quelli dovuti a Varrone e al geoponico greco – verosimilmente della Bitinia romana – Florentino, che nella prima metà del III secolo dC scrisse una Georgica in almeno 11 libri che viene a intrufolarsi in modo meraviglioso e inaspettato - non solo in tema di pentadattilia - nello hiatus della letteratura latina a lui contemporanea, o in quella appena successiva del IV secolo dC dovuta a Palladio. Orbene: neppure Gessner cita Aristotele quando nel suo trattato affronta una sola volta, e una volta per tutte, il tema delle galline dalle dita dispari, che con ogni probabilità fecero la loro comparsa nel mondo greco dopo che erano giunte a Roma, come fa pensare l’epoca in cui ne scrisse Florentino.
Dal
momento che in The complete Chicken (2002)
la scrittrice statunitense Pam Percy
afferma che Plinio il Vecchio e anche Aristotele fanno menzione della Dorking
(pag. 49:
“Pliny the Elder and Aristotle also mention Dorkings in their writings.”),
ho voluto leggere con attenzione tutte le opere biologiche di Aristotele per
stanare un pollo aristotelico ravvicinabile alla Dorking dal punto di vista
dell’ovodeposizione, della struttura somatica e della colorazione del
piumaggio, ma soprattutto per scovare una volta per tutte un misconosciuto
pollo aristotelico dotato di cinque dita.
Così,
accantonato temporaneamente e forzosamente quanto citato - o non citato - in
proposito da Ulisse Aldrovandi, da D’Arcy Thompson e da Filippo Capponi, mi
sono imbarcato nella verifica delle opere biologiche di Aristotele, una
sfibrante verifica, che comunque non ha sortito alcun effetto se non quello di
confermare ciò di cui eravamo già al corrente grazie ai suddetti studiosi di
ornitologia antica greca e latina.
Le
opere di Aristotele indagate sono le seguenti: Historia animalium, de
Partibus animalium, de Incessu animalium, de Generatione animalium, de Motu
animalium, Parva naturalia. I Parva naturalia comprendono: de
Divinatione per somnum, de Insomniis, de Longitudine et brevitate vitae, de
Memoria et reminiscentia, de Respiratione, de Sensu et sensilibus, de Somno et
vigilia.
In
nessuna di queste opere di interesse prettamente biologico Aristotele fornisce
il minimo spunto per poter lontanamente sostenere quanto affermato da Pam
Percy. Stavolta, con cognizione di causa, possiamo categoricamente affermare
che, se Aristotele non è incappato in un’imperdonabile amnesia oppure in un’ingiustificabile
omissione - come accadde invece ad Aldrovandi [X-7.1. - X-8.18.] - nel IV
secolo aC nessun uccello
pentadattilo era noto al mondo greco dell’area mediterranea.
Non
solo: a questo mondo greco erano anche sconosciute galline con caratteristiche
tali da rammentare la Dorking, come invece possiamo facilmente arguire dagli
scritti di Varrone, Plinio e Columella, posteriori di almeno tre secoli a
quelli di Aristotele.
Per
precisione, e per porre fine a questa diatriba, riporto per esteso quanto
riferito da Aristotele sia riguardo alle razze di pollo a lui contemporanee,
sia riguardo al numero di dita abitualmente posseduto dagli uccelli a lui noti.
Razze
di pollo contemporanee ad Aristotele:
Historia
animalium VI, 558b - Gli uccelli
sono tutti ovipari, ma la stagione dell’accoppiamento e le modalità della
posa non sono uguali per tutti. Alcuni infatti si accoppiano e depongono le
uova per così dire in ogni momento. È il caso ad esempio della gallina e
della colomba; la prima anzi genera tutto l’anno ad eccezione dei due mesi
del solstizio invernale. Certe galline, anche di razza, depongono prima della
cova una quantità di uova che può arrivare fino alla sessantina; e tuttavia
le galline di razza sono meno prolifiche di quelle comuni. Le galline
adriatiche sono di piccole dimensioni ma depongono uova ogni giorno; hanno
cattivo carattere e spesso uccidono i pulcini; i loro colori sono assai
variati. Certe galline di cortile depongono uova anche due volte al giorno, ed
è accaduto talvolta che morissero in poco tempo per aver fatto troppe uova.
(Traduzione di Mario Vegetti)
de Generatione animalium
III, 749b-750a - Anche gli uccelli di piccole dimensioni, come talvolta anche le
piccole piante, sono propensi al coito e prolifici. Ciò perché quello che
servirebbe all’accrescimento del corpo diventa residuo seminale. Perciò le
galline adriatiche sono molto feconde: per la piccolezza del corpo l’alimento
è destinato alla deposizione delle uova. E le galline comuni sono più
prolifiche di quelle di razza perché il loro corpo è più umido e massiccio,
mentre quello delle altre più magro e asciutto; l’aggressività della razza
si produce più in questo tipo di corpi. Inoltre anche la sottigliezza e la
debolezza delle gambe concorre a che la natura di questi uccelli sia propensa
al coito e prolifica, come è per gli uomini: [750a] l’alimento destinato
agli arti è volto in costoro in residuo seminale, perché ciò che la natura
toglie di là aggiunge qui. (Traduzione
di Diego Lanza)
Numero
di dita degli uccelli noti ad Aristotele:
Historia
animalium II, 504a - Tutti gli
uccelli hanno più unghie, e tutti sono altresì, in un modo o nell’altro,
polidattili: nella maggior parte dei casi, le dita sono ben divise, mentre gli
uccelli nuotatori sono palmipedi, ma hanno pur sempre le dita articolate e
separate. Tutti gli uccelli in grado di sollevarsi in volo hanno quattro dita:
in gran parte hanno tre dita anteriori e una sita posteriormente che sta al
posto del tallone; pochi invece hanno due dita anteriori e due posteriori,
come il cosiddetto torcicollo [Jynx torquilla]
[24]
. Quest’uccello è un poco
più grande del fringuello [Fringilla coelebs], d’aspetto variegato,
e suoi caratteri particolari sono le dita e la lingua, che ha simile ai
serpenti: la può allungare anche a distanza di quattro dita, e poi
riavvolgerla su sé stessa. Inoltre può volgere il collo all’indietro,
mantenendo immobile il resto del corpo, proprio come i serpenti. Ha unghie
grandi, simili d’altra parte a quelle delle cornacchie. La sua voce è
trillante. (Traduzione di Mario Vegetti)
de Partibus animalium - IV,
695a - Tutti gli uccelli hanno quattro dita, sia che abbiano piedi divisi
oppure palmati (dello struzzo libico diremo in seguito che ha due dita,
insieme con le altre differenze che esso presenta rispetto al genere degli
uccelli). Tre dita sono rivolte in avanti, una indietro per svolgere la
funzione stabilizzatrice del tallone. Negli uccelli ad arti lunghi quest’ultimo
dito è di minori dimensioni, come accade nel caso del krex; non hanno
comunque più di quattro dita. Questo è dunque l’assetto delle dita in
tutti gli uccelli, con l’eccezione del torcicollo: esso ha due sole dita in
avanti e due indietro. Ne è causa il fatto che il suo corpo grava in avanti
meno di quello degli altri uccelli. (Traduzione
di Mario Vegetti)
Come
già sappiamo, gli autori latini che si interessarono al pollo furono cinque.
Disposti in ordine cronologico crescente, troviamo: Catone il Censore,
Varrone, Plinio il Vecchio, Columella e Palladio. E come già sappiamo,
ciascuno di essi si interessò al pollo con intendimenti diversi, essendo solo
Columella colui che potrebbe in qualche modo appagare la curiosità e l’interesse
di un odierno allevatore.
Tralasciamo
i dati anagrafici e letterari di Plinio e di Columella già ripetutamente
analizzati, puntualizzando solo che Plinio pubblicò la sua Naturalis
historia intorno al 77 dC (due
anni prima di morire per l’eruzione del Vesuvio), e che Columella nacque nel
I secolo
dC a Cadice, in Spagna, fu tribuno militare in Siria e in Cilicia forse nel 36 dC
ed era a Roma nel 41
dC, ma non
sappiamo quando morì. Ci dedichiamo invece un po’ più estesamente a
Catone, Varrone e Palladio.
Marco
Porcio Catone il Censore (Tuscolo 234-149
aC): il suo De agricultura -
scritto fra il 190 e il 180
aC - è il più antico testo di
prosa latina a noi pervenuto. È un trattato di tecnica agricola, arido e
slegato: si tratta di consigli, di istruzioni, e quelle relative ai volatili
consistono solo in come ingrassarli (galline, oche, giovani piccioni). Catone
non fornisce alcun dato anatomico sul pollo, neppure un accenno a quale sia il
colore del piumaggio eventualmente ritenuto migliore.
Marco
Terenzio Varrone (Rieti 116-27
aC) fu il più grande erudito del
mondo romano e il più fecondo scrittore latino. Studiò a Roma con il famoso
grammatico Elio Stilone
[25]
, poi ad Atene con Antioco di
Ascalona
[26]
. Partigiano di Pompeo, ebbe
comandi militari in Spagna. Dopo la sconfitta di Farsalo
[27]
si avvicinò a Cesare, che gli
restituì le proprietà e gli affidò l’allestimento di una biblioteca greca
e latina a Roma. Compose una settantina di opere in molti campi del sapere,
per un totale di 620
libri. Di queste opere si hanno per
intero solo il Rerum rusticarum in 3 libri e
6 libri dei 25
che componevano il De lingua
latina. Una data molto importante che non dobbiamo dimenticare è quella
in cui Varrone scrisse il Rerum rusticarum: era il 37 aC,
quando aveva quasi 80
anni, e quando erano intercorsi
circa 18
anni dalla seconda spedizione di
Cesare in Britannia e circa 14 dalla
conclusione della guerra gallica. Le notizie sul pollo fornite da Varrone sono
ad ampio respiro, pur non raggiungendo la dovizia di Columella.
Palladio,
alias Palladius Rutilius Taurus Aemilianus, nacque nel IV secolo
dC. Possediamo scarsissimi dati biografici: sappiamo che visse e scrisse ai
tempi di Teodosio I
(347-395) e che il suo Opus
agriculturae ottenne rinomanza, ma abbiamo poco più che congetture circa
il suo luogo di nascita, o se era un avvocato, un medico, oppure un
agricoltore. Pare comunque certo che esercitò l’agricoltura. In Opus
agriculturae libro I, XXVII (De
gallinis), così esordisce: “Gallinas educare nulla mulier nescit,[...]”.
Gli unici dati anatomici sul pollo che ci fornisce sono: “Sint praecipue
nigrae, aut flavi coloris [giallo vivo, giallo oro, aranciato, biondo],
albae vitentur.” Dà i consigli sulle uova da covare e poi suggerimenti
terapeutici in caso di pituita etc. Quindi: notizie oltremodo scarne sotto il
profilo anatomico.
È
giunto il momento di affrontare una disquisizione linguistica sul significato
e sull’uso di due aggettivi latini che parrebbero molto simili e sui quali
ci siamo già intrattenuti nel I volume
(VIII-2.6.b.). Si tratta di impar
e dispar.
Par
- In latino l’aggettivo par significa: pari, uguale, equivalente in
relazione a certe qualità o proprietà, come la misura, il valore, il numero,
etc.
Impar
- L’aggettivo latino impar - o inpar - significa disuguale
rispetto a: lunghezza, numero, durata. Così, giocare a pari e dispari,
in latino si dice: par et impar ludere.
Vediamo
l’uso di impar da parte di Catone e di Varrone.
Catone: De agricultura
(3) Trapetos bonos privos inpares esse oportet
È
necessario che i frantoi per olive in buono stato siano ciascuno di dimensioni
diverse
Varrone
Rerum
rusticarum (si incontra impar solo nel libro III)
III,9,4:
...imparibus digitis
III,9,12:
In supponendo ova observant ut sint numero imparia.
De
lingua latina
IX,4:...si
quem lectum de tribus unum imparem posuerunt aut de paribus nimium aut parum
produxerunt...
...se
di tre letti ne hanno collocato uno disuguale [rispetto agli altri due] o se
sono tutti e tre uguali e li hanno sistemati troppo o poco avanti [gli uni
rispetto agli altri]...
Dispar
- L’aggettivo dispar significa: dissomigliante, disuguale, differente
per qualità, per natura. Spesso si incontra l’espressione haud dispar:
cioè, il medesimo.
Livio:
dispares ac dissimiles gladii - spade di ineguale lunghezza e forma
Virgilio:
dispares cicutae - canne digradanti della zampogna (fatta con la canna della
cicuta)
Varrone:
Rerum
rusticarum
II,11,4:...propter
loca et pabulum disparile - a causa dei luoghi e del pascolo differente
III,17,4:...ubi
dispares disclusos habent pisces - dove tengono i pesci diversi separati
De
lingua latina
VIII,16,32:
... disparibus figuris quam grabattis - differenti decorazioni che non dei
lettucci
Ova
imparia
Varrone
III,9,12:
In
supponendo ova observant ut sint numero imparia.
Plinio
X,151:
Ova incubari intra decem dies edita
utilissimum; vetera aut recentiora infecunda. Subici inpari numero debent.
Columella
VIII,5,8:
Numerus ovorum quae subiciuntur inpar observatur nec semper idem.
Palladio
I,27:
Supponenda sunt his semper ova numero impari, luna crescente, a decima usque
in quintadecimam.
Possiamo
concludere che, a parte il costante e regolare impiego di impar quando
si tratta del numero di uova da mettere a covare, è una gran confusione.
Credo valga la pena fare una sola osservazione importante: Varrone, nel Rerum
rusticarum, usa solo due volte l’aggettivo impar, una volta
riferito alle dita della zampa del pollo, l’altra al numero di uova da
mettere a covare. Per analogia e per quanto successivamente specificato da
Columella, credo sia lecito pensare che Varrone volesse riferirsi a un numero
dispari di dita, così come debbono essere dispari le uova da incubare.
Pertanto,
in base a siffatta deduzione sul significato di impar, ne conseguirebbe
che la prima attestazione di pentadattilia nel pollo sia quella di Varrone e
che tale attestazione sia posteriore di circa 18 anni
rispetto alle scorrerie di Cesare in Britannia e nel nord della Gallia, in
particolare nella Belgica e nella futura Normandia. Nulla vieta
che polli di un particolare interesse gastronomico e ovaiolo siano stati
portati a Roma e che in quasi quattro lustri si siano moltiplicati a tal punto
da indurre Varrone a parlarne. Questa affermazione è ancora più valida per l’epoca
in cui vissero Plinio e Columella, quando di lustri ne erano trascorsi a
decine, dando a quei polli pentadattili la possibilità di riprodursi in
abbondanza.
Vediamo
per esteso i testi relativi alle dita dispari.
Varrone
III,9,4: Qui
spectat ut ornithoboscion perfectum habeat, scilicet genera ei tria paranda,
maxime villaticas gallinas. E quis in parando eligat oportet fecundas,
plerumque rubicunda pluma, nigris pinnis, imparibus digitis, magnis capitibus,
crista erecta, amplas; hae enim ad partiones sunt aptiores.
Chi
mira a possedere un allevamento avicolo perfetto, deve ovviamente procurarsi
le tre categorie [di
galline: villaticae, rusticae et Africanae - da cortile, selvatiche e
africane],
soprattutto le galline da cortile. Nel preparare il pollaio occorre che tra
esse scelga quelle prolifiche, che per lo più sono caratterizzate dall’avere
le piume rossicce, le penne nere, le dita dispari, la testa grande, la cresta
eretta, e dal fatto di essere corpulente; queste infatti sono più adatte alla
riproduzione.
Plinio
X,156:
Gallinarum generositas spectatur crista erecta, interim et gemina, pinnis
nigris, ore rubicundo, digitis imparibus, aliquando et super IIII
digitos traverso uno. Ad rem divinam
luteo rostro pedibusque purae non videntur, ad opertanea sacra nigrae. Est et
pumilionum genus non sterile in his, quod non in alio genere alitum, sed
quibus centra, fecunditas rara et incubatio ovis noxia.
La
buona razza delle galline si riconosce dalla cresta eretta, talvolta anche
doppia, dalle penne nere, dalla faccia rossa [?], dalle dita di differente
lunghezza [?], talvolta anche dalla presenza di un dito disposto obliquamente
oltre agli altri quattro. Per i servizi divini non sono ritenute incontaminate
quelle con becco e zampe gialli, quelle nere sono adatte per i riti misterici.
Fra queste vi è anche una razza di galline nane non sterile, non presente in
altre specie di volatili, ma le galline dotate di speroni sono raramente
feconde e il loro covare è nocivo alle uova.
Plinio,
nonostante la sua ampia cultura, purtroppo non è di valido aiuto quando siamo
a caccia di particolari. Infatti, per analogia con quanto affermato da
Varrone, dopo le penne nere, ci dovremmo aspettare le piume rossicce. Invece
la lezione del testo a noi tramandata - e accettata - parla di ore
rubicundo invece che di colore rubicundo, per cui anziché quelle
con piume rossicce siamo costretti a ritenere come ottime galline quelle dalla
faccia rossa. Plinio fu un grandissimo arraffone e ha fuso le notizie in modo
tale che anche il suo digitis imparibus, se non vogliamo incorrere in
una stolta ripetitività, siamo costretti a tradurlo con dita di differente
lunghezza, visto che appena dopo Plinio afferma che le galline di buona
razza sono talora caratterizzate da un dito disposto obliquamente oltre agli
altri quattro. Io sono dell’avviso che Plinio abbia raggranellato la notizia
delle dita dispari da due fonti diverse e che il suo digitis imparibus
corrisponde all’imparibus digitis di Varrone. Non credo che si possa risalire alla
fonte da cui Plinio ha tratto la palese e inutile ripetizione costituita da aliquando
et super IIII digitos traverso uno.
In sintesi: senza tema di smentita, anche digitis imparibus di Plinio
corrisponde a dita dispari, quindi alla pentadattilia.
E
ora attenti a Columella. Egli non usa impar, bensì nec paribus
unguibus e immediatamente specifica - con un -que, accodato a generosissimae
- che sono ritenute molto fertili le galline con cinque dita, dove con il
suffisso -que vuole chiaramente precisare che quelle matrices,
che quelle femmine con nec paribus unguibus, sono galline pentadattile.
La congiunzione pospositiva enclitica -que accodata a generosissimae
in questo caso significa e precisamente, e cioè. Insomma, a mio
avviso, non si tratta di una semplice congiunzione equiparabile alla
congiunzione et.
Columella
VIII,2,7-9:
[7] Parandi autem modus est
ducentorum capitum, quae pastoris unius curam distendant, dum tamen anus
sedula vel puer adhibeatur custos vagantium, ne obsidiis hominum aut
insidiatorum animalium diripiantur. Mercari porro nisi fecundissimas aves non
expedit. Eae sint rubicundae vel infuscae plumae nigrisque pinnis, ac si fieri
poterit, omnes huius et ab hoc proximi coloris eligantur. Sin aliter, vitentur
albae, quae fere cum sint molles ac minus vivaces, tum ne fecundae quidem
facile reperiuntur, atque etiam conspicuae propter insigne candoris ab
accipitribus et aquilis saepius abripiuntur.
[7] La
quantità da procurarsi è di duecento capi, i quali occupino interamente l’impegno
di un solo custode, purché tuttavia venga impiegata una vecchia attenta
oppure un fanciullo quale custode dei soggetti errabondi, affinché non
vengano sottratti dalle insidie degli uomini o degli animali. Inoltre non
conviene comperare volatili se non fecondissimi. Questi volatili debbono avere
piume rosse o nerastre, e le penne nere, e se sarà possibile vengano scelti
tutti di questo colore o di un colore molto simile. Se non è possibile fare
altrimenti, si evitino i soggetti bianchi, i quali non solo sono per lo più
deboli e meno longevi, ma neppure è facile trovarli che siano prolifici, e
inoltre essendo visibili a causa della caratteristica del candore più spesso
vengono rapiti dagli sparvieri e dalle aquile.
[8] Sint
ergo matrices robii coloris, quadratae, pectorosae, magnis capitibus, rectis
rutilisque cristulis, albis auribus, et sub hac specie quam amplissimae, nec
paribus unguibus: generosissimaeque creduntur quae quinos habent digitos, sed
ita ne cruribus emineant transversa calcaria. Nam quae hoc virile gerit
insigne, contumax ad concubitum dedignatur admittere marem, raroque fecunda
etiam cum incubat, calcis aculeis ova perfringit.
[8] Le
riproduttrici siano dunque di colore rossiccio, tarchiate, posseggano un petto
largo, la testa grande, la piccola cresta dritta e rosso splendente, gli
orecchioni bianchi, e sotto questo aspetto li abbiano quanto più grandi
possibile, e non debbono avere le dita pari: e precisamente sono ritenute
molto fertili quelle con cinque dita, ma non debbono avere speroni che
sporgano di traverso sulle zampe. Infatti, quella che porta questo segno di
mascolinità, restia all’accoppiamento, è sdegnosa nell’accettare il
maschio, ed è raramente feconda e poi quando cova rompe le uova con gli
speroni della zampa.
[9]
Gallinaceos mares nisi salacissimos habere non expedit. Atque in his quoque
sicut feminis idem color, idem numerus unguium, status altior quaeritur;
sublimes sanguineaeque nec obliquae cristae, ravidi vel nigrantes oculi,
brevia et adunca rostra, maximae candidissimaeque aures, paleae ex rutilo
albicantes, quae velut incanae barbae dependent; iubae deinde variae vel ex
auro flavae, per colla cervicesque in umeros diffusae;
[9] Non conviene avere dei galli se essi non sono estremamente lussuriosi. Anche loro debbono avere lo stesso colore come detto per le femmine, lo stesso numero di dita, ed è richiesta una statura maggiore; la loro cresta deve essere alta e sanguigna e non inclinata, gli occhi giallogrigiastri o nerastri, becco corto e arcuato, orecchioni grandissimi e candidissimi, i bargigli rossi soffusi di bianco che pendono come le barbe di persone attempate; inoltre le piume della mantellina debbono essere policrome o giallo oro, sparse dal collo e dalla nuca fino alle spalle;
[1] La data del sacco di Roma viene abitualmente fissata al 390 aC. Altri preferiscono parlare del 390 circa, altri (come Gerhard Dobesch in I Celti, Bompiani, 1991) datano l’avvenimento al 387 aC, altri ancora (come www.keltia.it) riportano il 386 aC. Il famoso episodio dell’assedio di Roma da parte dei Galli guidati da Brenno e della difesa del Campidoglio da parte delle oche viene citato anche da Plinio (Naturalis historia X,26): “Et anseri vigil cura Capitolio testata defenso, per id tempus canum silentio proditis rebus, quam ob causam cibaria anserum censores in primis locant..” Cioè: “Anche da parte dell’oca c’è una vigile sollecitudine dimostrata dalla difesa del Campidoglio, mentre per il silenzio dei cani tutto in quel momento era stato compromesso. Per questo i censori pongono in appalto fra le cose di primaria importanza il cibo per le oche.”
[2] Cimbri: antica popolazione di stirpe germanica che dalle sedi originarie sulla destra dell'Elba, alla fine del sec. II aC, mossero contro i Teutoni verso il centro e il sud della Germania, ma, risospinti dai Boi, penetrarono lungo la valle del Danubio sconfiggendo nel 113 il console romano Papirio Carbone. Entrarono poi in Gallia, rafforzati da gruppi di Elvezi, e sconfissero diversi eserciti romani. Fu Gaio Mario a stroncarne per sempre la furia aggressiva con le memorabili sconfitte che inflisse nel 102 ai Teutoni ad Aquae Sextiae (odierna Aix-en-Provence) e ai Cimbri nel 101 ai Campi Raudii, presso Vercelli. Teutoni: popolazione germanica proveniente anch’essa dalla regione dell'Elba, che verso il 120 aC invase la Gallia con i Cimbri, seminando ovunque distruzione.
[3] Suebi o Svevi: il più potente dei popoli che abitavano anticamente la Germania. Il nome degli Svevi - Suebi per i Romani - è alquanto oscuro e viene usato da Tacito per designare tutte quelle tribù che egli considerava germaniche e non sottomesse.
[4] Riferito da Caitlin Matthews in I Celti, Xenia, 1993.
[5] Albino Garzetti, note storico critiche in La guerra gallica, Einaudi, 1996.
[6] Albino Garzetti, note storico critiche in La guerra gallica, Einaudi, 1996.
[7] Chichester: capoluogo della contea del West Sussex affacciata sulla Manica. Situata 20 km a est di Portsmouth (la più importante base navale e militare del Paese, pur svolgendo anche funzioni commerciali),. Chichester è la romana Regnum, poi chiamata Cissaceaster o Cissanceaster.
[8] Grazie al Dr. Philip de Jersey (Institute of Archaeology, Oxford, UK) sono venuto in possesso dello studio di Geoff Cottam e di fondamentali considerazioni sulle monete cosiddette cock bronzes.
[9] Bellòvaci: antica popolazione celtica stanziata nella Gallia Belgica e precisamente nell’attuale Piccardia dove oggi si trova il dipartimento francese dell'Oise, con capitale Caesaropagus (odierna Beauvais). Furono tra i più accaniti avversari di Cesare, che li sconfisse definitivamente nel 51 aC. Cesare scrisse così dei Bellovaci nei Commentarii de bello Gallico: “[...] Bellovacos, qui belli gloria Gallos omnes Belgasque praestabant, [...]” (VIII,6,2). Cioè: i Bellovaci, che erano superiori nella gloria militare a tutti i Galli e i Belgi.
[10] Una legione era costituita da 6.000 uomini ed era suddivisa in 10 coorti di 600 uomini ciascuna (6 centurie).
[11] Socotra - l’antica Dioscoride - è un’isola del Mar Arabico che appartiene politicamente alla Repubblica dello Yemen, molto celebre nell'antichità essendo il favoloso paese dell'incenso e della mirra.
[12] Alesia: città della Francia situata in Borgogna presso l'odierno villaggio di Alise-Sainte-Reine, nel dipartimento della Côte-d'Or, 50 km a nordovest di Digione. La disfatta di Vercingetorige avvenne nel settembre del 52 aC.
[13] Albino Garzetti, note storico critiche in La guerra gallica, Einaudi, 1996.
[14] Tiberius Claudius Caesar Augustus Germanicus, Lione 10 aC - Roma 54 dC.
[15] Cfr. Ateneo IX 384c per l’ingrasso delle oche e del loro fegato.
[16] Orazio, Sermones II 8.88, parla di fegato d’oca ingrassato coi fichi.
[17] Cfr. Varrone, Rerum rusticarum III 10.1. Marco Seio fu cavaliere romano, cesariano; Scipione Metello fu console nel 52 aC.
[18] Marco Aurelio Cotta Massimo Messalino, figlio dell’oratore Messalla Corvino, visse nel I secolo dC ed è citato da Plinio come fonte per i libri XIV e XV.
[19] I Morini abitavano la Belgica e occupavano la costa sul fretum Gallicum (fretum = stretto, canale), dove il continente è più vicino alla Britannia, e confinavano a est con i Menapii, a sud con gli Atrebates. L’Itius portus (forse Boulogne-sur-Mer), nominato da Cesare come punto d’imbarco per la seconda spedizione britannica (e usato forse anche nella prima) era nel loro territorio. I Morini vennero a fatica sottomessi da Cesare nel 56 aC.
[20] Seine-et-Oise: ex dipartimento della Francia settentrionale esteso sul Bacino di Parigi, suddiviso dopo al riforma amministrativa del 1964 nei dipartimenti di Val-d'Oise, Yvelines e Essonne.
[21]
"Quant au cinq
doigts, il semble que cette particularité vienne de la poule commune à
cinq doigts (qui était assez répandue en Normandie) plutôt que de la
Dorking."
[22] Albione: antico nome della Gran Bretagna di probabile origine celtica, attestato dal VI secolo aC in poi. A partire dal IV secolo aC cominciò a prevalere il termine latino Britannia. Secondo The concise Oxford dictionary of English etymology Albion - *Albio in celtico - deriverebbe da *albho- (latino albus) bianco, con riferimento alle bianche scogliere della Britannia. Anche le Alpi avrebbero la stessa etimologia e quindi lo stesso significato.
[23] Aristotele: filosofo greco (Stagira 384 - Calcide 322 aC). Nacque a Stagira, piccola città ionica sulla costa orientale della penisola calcidica, figlio di Nicomaco, medico personale di Aminta II di Macedonia. Rimasto orfano in minore età, venne adottato da un parente, Prosseno di Atarneo - in Misia - e si trasferì in questa città. A diciotto anni giunse ad Atene, alla scuola di Platone, e vi rimase fino alla morte del maestro (347 aC). Andò poi ad Asso, nella Troade, alla corte del tiranno Ermia, dove esisteva una comunità filosofico-politica di tipo platonico, e qui probabilmente conobbe Teofrasto, col quale si recò nel 345-344 a Mitilene sull’isola di Lesbo. Nel 343 fu chiamato da Filippo II re di Macedonia alla corte di Pella come precettore del figlio Alessandro (là dove quarant'anni prima aveva lavorato suo padre Nicomaco): a Mieza, presso Pella, egli seppe inculcare ad Alessandro l'ideale della superiorità della cultura ellenica e della sua universale capacità di espansione e dominio. Nel 335 tornò ad Atene, dove ormai era prevalso il partito filomacedone, e vi fondò una scuola, il Liceo, così chiamata perché aveva la sua sede fra i viali intorno al tempio di Apollo Liceo; poiché gli insegnamenti più ristretti venivano tenuti passeggiando per questi viali, i filosofi aristotelici vennero anche chiamati peripatetici. Qui insegnò per tredici anni, fino alla morte di Alessandro (323). Accusato d'empietà dal partito antimacedone, fuggì a Calcide, nell’Eubea, dove si trovava una proprietà della madre, e dove l'anno seguente morì di malattia.
[24] Torcicollo comune - Jynx torquilla: appartiene alla famiglia dei Picchi o Picidi e alla sottofamiglia dei Torcicolli o Jingini. Non assomiglia affatto a un picchio, anche se i suoi piedi sono adatti ad arrampicare come quelli di tutti i Picidi. Lungo circa 20 cm, di cui più o meno un terzo riferibile alla coda, possiede corpo slanciato, becco breve e dritto, zampe molto corte. Il piumaggio è marrone con barrature nere, grigie e bruno scuro. Vive in Europa e in Asia nel folto dei boschi nutrendosi di insetti, soprattutto di formiche, che cattura con la lunga lingua vischiosa. Quando viene disturbato allunga il collo e lo torce all'indietro, mantenendo immobile il resto del corpo. Non ho trovato una descrizione delle dita del Torcicollo comune, ma dalla foto pubblicata in www.ittiofauna.org/provinciarezzo/ufficiocaccia arguisco che dovrebbe corrispondere a quella delle dita dei Picchi veri: nei cosiddetti Picchi veri, o Picini, (sottofamiglia Picini), il 1° e il 4° dito sono rivolti all’indietro, il 2° e il 3° dito in avanti, e il 4° dito è allungabile di lato e in avanti (Grzimek, IX, pag. 95). Alla sottofamiglia dei Picchi veri o Picini appartiene il genere Picoides, con ogni probabilità sconosciuto ad Aristotele per puri motivi geografici, come diremo tra poco. Il genere Picoides è rappresentato da due specie: il Picchio tridattilo dal dorso nero (Picoides arcticus) che vive qua e là nell’America settentrionale accanto alla sottospecie nordamericana del Picchio tridattilo (Picoides tridactylus) diffuso dall’Eurasia al Nordamerica. I fitti boschi di betulle e di conifere tappezzati di licheni, quali si possono trovare nella taiga, con molti tronchi secchi e malati, potrebbero essere l’ambiente originario dei Picchi tridattili, in quanto sono spiccatamente arboricoli e accaniti trivellatori del legno. Nella fascia artica del Vecchio e del Nuovo Mondo essi sono diffusi in una zona ben individuata. Più a sud, nelle regioni montuose, vi sono delle popolazioni isolate che possono essere considerate come residui dell’era glaciale. Orbene, ai Picchi tridattili manca il primo dito. Ciò costituirebbe un adattamento particolare al loro modo di vivere: quando infatti, saldamente aggrappati a un tronco, debbono vibrare duri colpi con un certo slancio, il primo dito rivolto all’indietro e in basso sarebbe per loro solo d’impaccio. § La taiga è quella particolare formazione forestale boreale, dominata dalle conifere, estesa dal Nord del continente asiatico fino alla Scandinavia, e, con una composizione floristica un poco variata, attraverso il Canada. Limitata a nord dalla tundra artica e a sud da steppe e praterie, è caratterizzata da clima continentale con inverno freddo e lungo, che favorisce il perdurare della copertura nivale fino a primavera inoltrata, e da estate breve e secca.
[25] Elio Stilone: Lucius Aelius Stilo Praeconinus, erudito e grammatico latino (Lanuvio 150 aC - ca. 90 aC). A Roma si occupò per primo e intensamente di critica letteraria, grammatica e antichità. Tra i suoi allievi si annoverano Varrone e Cicerone. Commentò il Carmen Saliare e le leggi delle Dodici Tavole, pubblicò edizioni di Ennio e di Lucilio e stabilì il canone delle commedie di Plauto.
[26] Antioco di Ascalona: filosofo della Nuova Accademia (120-68 aC). Fu scolaro di Filone di Larissa che seguì a Roma nell'88 aC, donde si recò ad Alessandria con Lucullo. La sua filosofia si stacca dalla tradizione scettica della Nuova Accademia per approdare a un eclettismo conciliatore di platonismo, aristotelismo e stoicismo. Fu anche maestro di Cicerone ad Atene nel 79-78 aC.
[27] Farsalo: il nome di questa città greca nel nomós di Larissa è legato a una delle più celebri battaglie dell'antichità, quella che segnò, nel 48 aC, la definitiva vittoria di Cesare su Pompeo. La battaglia si svolse il 29 giugno o il 9 agosto (più probabile la seconda data) e vide opposti 30 000 legionari cesariani a più di 50.000 pompeiani. Nonostante l'inferiorità numerica i legionari di Cesare, grazie alla riserva, conquistarono la vittoria.