Fig. IX. 19 - Atahualpa, ultimo Inca del Perù preispanico.
Per gli Spagnoli Atahualpa era Athabaliba, Atabaliba, Attabaliba, Atabalica, Atabálipa.
Non meravigliamoci delle diverse grafie e dei diversi lemmi.
Per non ritornare sull’argomento, vorrei suggerire di dare uno sguardo alla figura in cui sono riportate le denominazioni del pollo nell’area ecuadoriana. Non bisogna essere provetti etimologisti per trarre le debite conclusioni sul perché Atahualpa si chiamasse anche Athabaliba. A riprova della variabilità anche di altri nomi, vediamo un passo riportato da Garcilaso de la Vega nei suoi Commentari.
«Diego Fernandez, nella sua Historia general del Perú, Parte seconda, Libro terzo, Capitolo quinto, accenna brevemente al tirannico regno di Atahuallpa, e illustra le sue crudeltà con queste parole che qui riporto alla lettera: «Tra Guáscar Inga e suo fratello Atabálipa vi furono molte divergenze circa il trono e a chi spettasse la signoria. Mentre Guáscar Inga si trovava al Cuzco e suo fratello Atabálipa a Caxamarca, il secondo inviò due capitani tra quelli di più alto grado, che si chiamavano l'uno Chalcuchiman e l'altro Quízquiz, e i quali erano assai valenti, a levare gran numero di gente d'arme, e si misero in marcia con l'espresso proposito di catturare Guáscar Inga, poiché [...]»
Huáscar, figlio di Huayna Cápac e fratellastro di Atahualpa.
Nordenskiöld afferma che anche il nome dello zio di Atahualpa conteneva la radice pollo, cioè hualpa, e si chiamava Huallpa Tupac Inca Yupanqui. Ora è necessaria una digressione, altrimenti è facile confondere nomi e avvenimenti.
Vediamo l’albero genealogico degli ultimi Inca.
Gli ultimi Imperatori del Tahuantisuyu |
||||
Le
date si riferiscono al periodo in cui hanno regnato. La è
indica la paternità dei discendenti. |
||||
Pachacutecè |
Tupac
Incaè |
Huayna
Cápacè |
Huáscar |
1527-1532 |
1438-1471 |
o
Tupac Inca Yupanqui |
1493-1527 |
Atahualpa |
1532-1533 |
|
1471-1493 |
|
Tupac
Hualpa |
1533-1533 |
|
|
|
Manco
Inca |
1533-1545 |
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|
|
Paullu
Inca |
1537-1549 |
|
|
|
Carlos
Inca |
1549-1572 |
Trascrivo il testo di Carter; non so se è la traduzione di quello di Nordenskiöld oppure se ne rappresenta un libero adattamento:
«Nordenskiöld pointed to the Quechua name for the last Inca, Atahualpa, as evidence that the chicken preceded the Spanish to Peru. He also noted that the last Inca’s uncle had been named hualpa (Huallpa Tupac Inca Yupanqui). Either these men were named after the chicken, or the chicken was named after them. Garcilaso de la Vega says that the chicken was named in memory of Atahualpa so that each time the cock crowed, he would be remembered. This leaves unexplained the naming of Atahualpa’s uncle.»
Fig.
IX.
20 - Mappa di Nordenskiöld semplificata
Essa mostra la distribuzione di hualpa e derivati,
nonché la sua sovrapposizione in certe aree coi nomi derivati da kara.
Non si tratta di un’affermazione inventata da Nordenskiöld, il quale deve aver letto i Commentari di Garcilaso de la Vega: a un certo punto di questo libro veniamo sommersi da un inaspettato pullulare di Huallpa. Se da un lato Garcilaso si mette a contestare l’etimologia di gualpa e ronto, dall’altro non viene neppure sfiorato dall’idea di come mai, sia prima sia dopo l’ultimo Inca ecuadoriano mezzosangue, alcuni soggetti vennero denominati praticamente allo stesso modo:
§ La mamma di Garcilaso, ancora giovinetta, si salvò insieme al fratello - don Francisco Huallpa Tupac Inca Yupanqui - durante l’epurazione messa in moto da Atahualpa.
§ La mamma di Garcilaso e il fratello di lei, don Francisco, erano figli di un fratello di Huayna Cápac che si chiamava Huallpa Tupac Inca Yupanqui.
§ Garcilaso conobbe un figlio e due figlie di Atahualpa. Il figlio si chiamava don Francisco Atahualpa: “Era un giovane bello di corpo e di volto, come del resto tutti gli Incas e le Pallas; morì assai precocemente.”
§ Tupac Hualpa venne incoronato dagli Spagnoli nel 1533, e morì probabilmente avvelenato.
§ E questa è bella: il fratello di Atahualpa dapprima si chiamava Inti Cusi Huallpa, e solo successivamente gli venne dato l’appellativo di Huáscar.
Viene spontaneo domandarsi se anche lo zio di Atahualpa - Huallpa Tupac Inca Yupanqui - fu battezzato prendendo il nome dal pollo, oppure se fu il pollo ad avere il privilegio di chiamarsi come il futuro Imperatore, ma solo dopo il suo assassinio da parte di Pizarro. Il problema linguistico somiglia quasi al ritornello che abbiamo appreso da bambini: è nato prima l’uovo o la gallina? Parrebbe che prima sia nato il pollo e successivamente lo zio Huallpa Tupac Inca Yupanqui, nonno di Garcilaso.
Nel capitolo dedicato alla storia del pollo abbiamo detto che l’ultima parola su Pollo di Colombo sì - Pollo di Colombo no possiamo affidarla a José de Acosta, che già nel 1590 poneva un suggello basato sulla sacralità storico-biologica dei dati linguistici:
Debbo dire che sono rimasto sorpreso alla vista delle galline,
che senza dubbio erano allevate qui molto prima dell’arrivo degli Spagnoli.
E questo risulta ancor più chiaro dal fatto che i nativi
possedevano già dei termini per designarli:
la gallina si chiama gualpa
e l’uovo ronto.
Historia natural y moral de las Indias Libro cuarto Capítulo XXXV De aves que hay de acá, y cómo pasaron allá en Indias - Pero dejando estas aves, que ellas por si se gobiernan, sin que los hombres cuiden de ellas, si no es por vía de caza; de aves domésticas me he maravillado de las gallinas, porque, en efecto, las había antes de ir españoles; y es claro indicio tener nombres de allá, que a la gallina llaman gualpa y al huevo ronto; y el mismo refrán que tenemos de llamar a un hombre gallina, para notalle de cobarde, ese propio usan los indios. Y los que fueron al descubrimiento de las islas de Salomón refieren haber visto allá gallinas de las nuestras. (Fué impreso en Sevilla, casa de Juan de León, junto a las Siete Revueltas, 1590)
Il gesuita aveva un ottimo spirito d’osservazione che gli guadagnò il titolo di Plinio Americano. Al di là di questo aveva anche le doti di antropologo, in quanto riferisce che il termine gualpa veniva usato anche per designare un codardo.
Ma le mode cambiano come cambiano i modi di dire. I parlanti inglesi contemporanei sono in grado di comprendere gran parte della lingua di Shakespeare, anche se ogni tanto sono necessari degli emendamenti ai testi per impedire che divengano incomprensibili. Se ai tempi di Shakespeare si diceva codardo come un piccione - pigeon livered - oggi si dice chicken livered, ma in questo caso l’emendamento dei testi shekspiriani non è necessario: l’espressione è comunque intuibile anche se il termine di paragone è cambiato.
Un avvertimento: non vi passi per l’anticamera del cervello di dare del pollo a un Cinese! Se per noi Italiani pollo ha molteplici significati, per lo più tollerabili, nell’area cinese - specialmente dalle parti di Canton - dire a qualcuno che è un pollo vuol dire catalogarlo come puttana.
Nonostante i dati linguistici siano sacri, spesso non vengono maneggiati con il dovuto rispetto. Tra i naturalisti degni di fede dobbiamo senz’altro annoverare Buffon [1] , il quale, nella sua Histoire Naturelle (edizione inglese del 1808), afferma che al dire di Acosta - col quale concorda - i polli esistevano in Perù prima dell’arrivo degli Spagnoli e che si usava la parola talpa per le galline e ponto per le uova. L'opera di Acosta tradotta in francese da Robert Regnault Cauxois e pubblicata a Parigi nel 1598 con il titolo Histoire naturelle et moralle des Indes, tant Orientalles qu'Occidentalles (le doppie l sono veritiere) ci offre una via di mezzo, in quanto la gallina è Gualpa e l'uovo Ponto: Ie m'esmerveille des poulles, attendu qu'il y en avoit aux Indes, avant que les Espagnols y arrivassent, ce qui est assez prouvé, parce qu'elles ont un nom propre du pays, & appellent la poulle Gualpa, & leur oeuf Ponto, & ont en usage le mesme proverbe que nous avons icy, d'appeller poulle un homme couard. (pag. 194a) - Adesso ditemi voi quali sono i vocaboli corretti!
Vi giuro che sono stressato al pari vostro da questa girandola di nomi che ciascuno trascrive a modo suo. Un giorno, terminato questo lavoro, forse pianterò le tende in qualche biblioteca e mi metterò alla ricerca dei testi originali.
Per fortuna qualche testo originale qua e là lo si trova, stavolta grazie alla collaborazione dell’Ambasciata del Cile a Roma e della Biblioteca Nazionale di Santiago. Ho ricevuto, oltre al lavoro di Ricardo Latcham, anche una tesi che ha avuto diritto di pubblicazione: Gallina Araucana Prehispanica: ¿mito o realidad? un’esaurientissima carrellata redatta nel 1986 dalla Dottoressa Cristina Dunin-Borkowski in occasione della laurea in Biologia presso l’Università Peruviana Cayetano Heredia.
Un dono inatteso, un’iniziativa telepatica della Capo Bibliotecaria della Sezione Antropologica, Eliana Duran Serrano, la quale deve avermi letto nel pensiero. La traduzione del seguente brano tratto dalla tesi è mia, con la supervisione del Dr Leslye Haslam, nicaraguense.
A pagina 28 leggiamo:
José de Acosta, en su Historia
natural y moral de las Indias, menciona lo siguiente: “...de
aves domesticas, me ha maravillado de las gallinas, porque en efecto
las habia antes de ir los españoles, y es claro indicio tener nombres
de allá, que a la gallina llaman gualpa, y al huevo ronto, y el mismo
refrán que tenemos de llamar a un hombre gallina para notalle de
cobarde, ese propio usan los indios. Y los que fueron al
descubrimiento de las Islas de Salomón, refieren haber visto allá
gallinas de las nuestras. Puedese entender que como la gallina es ave
tan domestica y tan provechosa, los mismos hombres las llevaron
consigo cuando pasaron de unas partes a otras, como hoy en dia vemos
que caminan los indios llevando su gallina o pollito sobre la carga
que llevan a las espaldas, y o de palo.” (1590:
201-202) |
José de Acosta, nella sua Historia natural y moral de las Indias, riferisce quanto segue:
“...circa gli uccelli domestici, hanno destato meraviglia in me le
galline, perché in effetti le possedevano prima dell’arrivo degli
Spagnoli, ed è un chiaro indizio il fatto che hanno nomi locali, in
quanto la gallina la chiamano gualpa e l’uovo ronto, e gli Indios
usano lo stesso ritornello che abbiamo noi di chiamare un uomo gallina
per tacciarlo di codardo. E coloro che scoprirono le Isole Salomone
[2]
riferiscono di avervi visto galline del tipo delle nostre. Si può
comprendere che essendo la gallina un volatile tanto domestico e tanto
proficuo, l’uomo stesso la portò con sé quando si spostò da una
parte all’altra, come oggidì vediamo gli indios camminare portando
la loro gallina o il loro pollo in cima al carico che hanno sulla
schiena o sul bastone.” |
Pocos años después el inca Garcilaso de la Vega ([1609]
1959) refuta lo dicho por Acosta. Al respecto, anota: “De
las gallinas escribe un autor que las habia en el Perú antes de su
conquista, y hacenle fuerza para certificarlo ciertos indicios que
dice que hay para ello, como son que los indios, en su mismo lenguaje
llaman a la gallina gualpa y al huevo ronto, y que hay entre los
indios el mismo refrán que los españoles tienen, de llamar a un
hombre gallina para notarle de cobarde. A los cuales indicios,
satisfaremos con la propiedad del hecho. |
Pochi anni dopo l’inca Garcilaso de la Vega ([1609]
1959) rifiuta quanto detto da Acosta. Scrive in
proposito: “Un autore scrive, a proposito delle galline, che esse
erano presenti in Perù prima della sua conquista, e per darne
certezza si fa forte di certi indizi che dice esservi in merito, come
quello che gli Indios nel loro linguaggio chiamano la gallina gualpa e
l’uovo ronto, e che tra gli Indios esiste lo stresso modo di dire
degli Spagnoli, cioè di chiamare un uomo gallina per dire che è un
codardo. Ai quali indizi daremo soddisfazione con la verità dei
fatti. |
Dejando el nombre de gualpa para el fin del cuento,
y tomando el nombre ronto, que se ha da escribir runtu, pronunciando
ere sencilla, ... significa huevo; no en particular de gallina, sino
en general de cualquier ave brava o domestica, y los indios en su
lenguaje, cuando quieren decir de qué aves es el huevo, nombran
juntamente el ave y el huevo ... y esto baste para deshacer el indicio
del nombre runtu. |
Lasciando il vocabolo gualpa per la parte finale
della disquisizione, e prendendo la parola ronto, che deve essere
scritta runtu, pronunciando una sola erre, ... significa uovo; non in
particolare di gallina, bensì in senso generale di qualsivoglia
uccello selvatico o domestico, e gli Indios nel loro idioma, quando
vogliono dire di che uccello sia l’uovo, citano insieme sia l’uccello
che l’uovo ... e ciò basti per annullare l’indizio basato sulla
parola runtu. |
El refrán de llamar a un hombre gallina..., es
hurtado del lenguaje español, que en el de los indios no lo hay, y yo
como indio doy fe desto. |
Il proverbio di chiamare un uomo gallina..., è
rubacchiato dalla lingua spagnola, poiché non esiste in quella degli
Indios, e io, in quanto Indio, mi faccio garante di ciò. |
El nombre gualpa que dicen que los indios dan a las
gallinas, está corrupto en las letras y sincopado o cercenado en las
silabas, que han de decir Atahuallpa, y no es nombre de gallina, sino
del postrer Inca que hubo en el Perú, que, como diremos en su vida,
fue con los de su sangre cruelisimo sobre todas las fieras y
basiliscos del mundo ... fue como los españoles llevaron gallos y
gallinas que de las cosas de España fue la primera que entró en el
Perú, y como oyeron cantar a los gallos, dijeron los indios que
aquellas aves, para perpetua infamia del tirano y abominación de su
nombre, lo pronunciaban en su canto diciendo ‘¡Atahuallpa!’, y lo
pronunciaban ellos, contrahaciendo el canto del gallo.” ([1609]
1959, Tomo III, Libro IX: 241-245) |
Il nome gualpa, che dicono che gli Indios danno
alle galline, è corrotto nelle lettere che lo compongono e sincopato,
cioè amputato nelle sillabe, che dovrebbero essere dette Atahuallpa,
e non è nome di gallina, bensì dell’ultimo Inca che ci fu in
Perù, il quale, come diremo a proposito della sua vita, nei confronti
di quelli del suo stesso sangue fu il più crudele fra tutte quante le
fiere e i basilischi del mondo ... avvenne che, siccome gli Spagnoli
portarono galli e galline, i quali, tra le cose della Spagna, furono
la prima ad essere introdotta in Perù, e avendo udito i galli
cantare, gli Indios dissero che, a perpetua infamia del tiranno e
abominazione del suo nome, quegli uccelli lo pronunciavano cantando e
dicendo ‘Atahuallpa!’, e anch’essi lo pronunciavano imitando il
canto del gallo.” |
Potrebbe non essere necessario leggere le considerazioni che seguiranno sui brani tratti da Acosta e da Garcilaso de la Vega, in quanto non bisogna essere laureati in psicologia per assaporare tutto il veleno che trasuda dalla penna di Garcilaso e percepire come il suo spirito fosse intriso della malignità degli Europei, e di quelli della peggior risma.
Infatti, doveva tanto odiare le sue origini che si schierò completamente dalla parte degli Spagnoli, accusando di crudeltà Atahualpa il quale, nella peggiore delle ipotesi, era un santerello se paragonato a Pizarro. Io non ho vissuto quei momenti storici, ma non mi fido di chi tira in ballo basilischi e belve, soprattutto basilischi, anche se allora erano di moda, reclutando persino Aldrovandi.
La narrazione di Acosta è al di fuori delle parti, mentre Garcilaso, per dirla con Francesco Saba Sardi, “...scrive avendo ben presente l’obbligo - tanto più cogente per lui meticcio - di inchinarsi all’apparato dottrinario ufficiale.” (Introduzione ai Commentari Reali degli Incas - pag. XIII)
Fig. IX. 21 - Uno dei tanti aspetti assunti dal Basilisco: quello di sinistra è tratto dal De natura avium et animalium di Pier Candido Decembrio (Pavia 1392-Milano 1477), mentre ad Aldrovandi appartiene il Basilisco di destra contenuto non solo in Monstrorum historia - opera abbondantemente postuma (1642) che ho potuto avere tra le mani a Berna nell’ottobre 1996 - ma anche nel libro XIV di Ornithologia col nome di Gallus cauda quadrupedis cum crista Gallinacea. Ahimè! Il prezzo di Monstrorum historia non era per studiosi, bensì per bibliofili: 3.000 franchi svizzeri.
Se abbiamo bisogno di comprendere la psicologia di una persona possiamo trarre indizi dalla sua voce, dal modo di gestire, da come guida l’auto, dalla grafia, dallo stile della narrazione: state certi che, sia a letto che a tavola, si comporterà sempre allo stesso modo. Tuttavia, non al fine di criticare, ma solo per trovare la ragione del suo modo d’essere, è spesso utile disporre di qualche notizia biografica. Adottiamo pertanto questo criterio anche per Garcilaso.
Garcilaso de la Vega, detto l’Inca, nacque a Cuzco nel 1539 da una principessa Inca - la palla [3] Chimpu Ocllo -, mentre il padre - il capitano Sebastián Garcilaso de la Vega Vargas - apparteneva alla seconda ondata di conquistadores del Perù, los segundos, quelli accorsi in aiuto dei primi per garantire stabilità alla conquista. Visse in Perù fino a 21 anni, quando si trasferì definitivamente in Spagna. La sua condizione di meticcio partecipe di due culture, l’europea e l’americana, si riflette nella sua opera letteraria, iniziata dopo i 50 anni con l'eccellente traduzione in spagnolo dei Dialoghi d'amore di Leone Ebreo (1590), scritti in toscano dal filosofo giudeo-spagnolo. Si orientò in seguito verso il tema storico della conquista americana con La Florida (1605), in cui narra la tragica spedizione di Hernando de Soto, e con i Comentarios reales de los Incas, l'opera più importante, pubblicata in due parti: la prima (1609) tratta delle origini, dei costumi e del dominio degli Inca, la seconda, uscita postuma col titolo Historia general del Perú (1617), narra la scoperta, la conquista e le guerre civili della sua patria. Fu uno dei migliori cronisti storici spagnoli del Cinquecento, colto conoscitore anche del latino. Morì a Cordoba, in Spagna, nel 1616.
Cos’è che più infastidisce nel brano di Garcilaso? È il modo di citare José de Acosta: De las gallinas escribe un autor..., come se Acosta (1539-1600) fosse vissuto secoli prima e fosse arduo identificarlo, oppure, come se si trattasse dell’ultima ruota del carro. Garcilaso non si degna di profferirne il nome, nonostante i due storiografi abbiano calcato insieme lo stesso suolo, sia al di qua che al di là dell’Atlantico.
Non citare una persona significa solamente averne ribrezzo o paura. In questo caso si tratta solo di paura, perché quando Acosta viene adottato come fonte di notizie sulle quali Garcilaso concorda, allora lo chiama Padre Maestro Acosta, che invece cade nell’anonimato quando Garcilaso vuole avere ragione. Basta leggere i Commentari e quest'altalena non può passare inosservata.
Forse Garcilaso nutriva ambedue i sentimenti negativi nei confronti del gesuita, ma questo modo di confrontarsi col prossimo doveva essergli piuttosto usuale, visto come giudica l’ultimo imperatore del Perù, mentre ci fu chi dedicò ad Atahualpa una poesia intrisa di sgomento e di perenne rimpianto.
Fig. IX. 22 - L’esecuzione di Atahualpa: la morte avvenne non usando un coltellaccio, ma per garrottamento, il 29 agosto 1533. Il popolo è in lacrime per la morte dell’Imperatore, ingiustamente imprigionato da Pizarro nonostante il versamento di un astronomico riscatto.
Il tragico è che Garcilaso dà addosso ad Atahualpa, mentre chi era venuto meno ai patti era suo fratello Huáscar. Infatti, quando il loro padre Huayna Cápac sentì approssimarsi la morte, chiamò i due figli e ottenne da Huáscar la promessa che Atahualpa avrebbe potuto regnare sulla parte settentrionale dell’impero, mentre la parte rimanente, molto più estesa, sarebbe stata di Huáscar. Morto il padre…
«...Huáscar, non sapendo rassegnarsi all’idea che ci fosse un re suo pari, giunse alla conclusione che aveva fatto male ad accettare quanto suo padre gli aveva ordinato per ciò che atteneva al regno di Quito, vale a dire che questo fosse di suo fratello Atahualpa; infatti, oltre ad aver dovuto staccare dal suo impero un territorio così importante, s’avvedeva ora che questo costituiva un ostacolo che gli impediva di procedere oltre con le conquiste.»
Atahualpa, che se ne stava quieto quieto nei suoi territori provvedendo ai suoi sudditi, prende la palla al balzo attaccando e imprigionando il fratello. È logico che purtroppo dovesse non lasciar traccia di coloro che erano fedeli a Huáscar. Ecco il perché di tale epurazione.
Vorrei abbozzare la seguente ipotesi. Per non dar nell’occhio, o meglio, nell’orecchio degli oppressori, potrebbe essere vero il contrario di quanto affermato da Garcilaso: gli Indios non schernivano né dileggiavano il loro defunto imperatore facendo eco ai galli, bensì mettevano già in atto quanto si sarebbe verificato molto più tardi in Italia, quando era di moda lo slogan “Viva VERDI”.
Al Teatro Apollo di Roma la sera del 17 febbraio 1859 l'opera Un ballo in maschera di Giuseppe Verdi riscosse un successo entusiastico. Il pubblico acclamò il maestro, e nel teatro romano risuonò il grido che presto sarebbe divenuto popolare in tutta la penisola: Viva VERDI!, cioè, Viva Vittorio Emanuele Re d'Italia. Non furono solo gli indubbi pregi dell’opera che ne decretarono il grande successo. Un anelito di patriottismo concorse a riscaldare gli animi e a sollevare gli entusiasmi. In quel periodo Vittorio Emanuele II, sostenuto dai francesi, aveva praticamente mosso guerra all’Austria e nella situazione politica italiana era ormai prossimo – pur con fasi ancora alterne – il tanto sospirato momento in cui sarebbe stata realizzata l’unità del Paese, un fatto ormai acquisito dalla coscienza popolare.
Viva VERDI - Dalla musica alla storia - Cavour propone la candidatura del piemontese Vittorio Emanuele II come Re d'Italia, e chiede il sostegno di Napoleone III per liberare l'Italia dagli austriaci. L'Austria attacca il Piemonte e la Francia interviene. Vittorio Emanuele e Napoleone III entrano a Milano. Vittorie di Solferino e San Martino contro gli austriaci. Ma Napoleone III, all'insaputa degli italiani, firma a Villafranca un concordato con l'Austria: la Lombardia è annessa al Piemonte ma il Veneto resta all'Austria. Infine, Cavour propone il plebiscito. Nel frattempo Garibaldi, senza l'aiuto di alcun esercito, conquista tutto il sud dell'Italia e lo consegna a Vittorio Emanuele II che il 17 marzo 1861 diventa Re d'Italia e che per riguardo agli antenati vuole conservare il numerale II. Su invito di Cavour Verdi viene eletto deputato di Borgo San Donnino (nome di Fidenza fino al 1927), carica che esercitò con grande attenzione. - San Donnino martire (sec. III - inizio IV). Scarse e incerte le notizie sulla sua vita e sulle circostanze del suo martirio: sembra probabile che sia morto fra la fine del sec. III e l'inizio del IV, nei dintorni di Borgo San Donnino, di cui è il protettore. Festa il 9 ottobre.
Imitando il canto del gallo, gli Indios innalzavano un riverente ricordo al loro imperatore, scomparso in modo tanto europeo. E gli Spagnoli non avevano nulla da recriminare, poiché era risaputo che si trattava di dileggio.
È lo stesso Garcilaso che riporta questa seconda possibilità, affidando l’interpretazione - alla quale ero giunto anch’io - ad una delle sue fonti più preziose: il Padre Blas Valera:
«Perché si intenda meglio di quale natura fossero quei nostri cori, si immaginino quattro registri di organo in due tempi, secondo i quali veniva gridata la parola atahuallpa; e chi la oda, constaterà che riesce a imitare il canto del gallo; si tratta infatti di due semiminime, una minima e una semibreve raccolte in un'unica battuta. E non solo si alludeva, con quel grido, al tiranno, ma anche ai suoi principali comandanti militari il cui nome fosse composto di quattro sillabe, come Challcuchima, Quilliscacha e Rumiñaui, il quale ultimo significa occhio di pietra perché in un occhio aveva una cataratta. Accadde dunque così che gli indiani dessero il nome di atahuallpa ai galli e alle galline di Spagna. Il Padre Blas Valera, dopo aver raccontato, nelle sue carte andate immeritatamente distrutte, la morte repentina di Atahuallpa, e dopo essersi dilungato sulle cose eccellenti che compì a benefizio dei vassalli, come del resto degli altri Incas, benché avesse fatto oggetto di crudeltà inaudita i parenti, e dopo aver sottolineato il grande amore che i sudditi nutrivano per lui, così soggiunge nel suo elegante latino: «Da questo derivò che, quando la notizia della sua morte fu divulgata tra gli indiani, acciocché il nome di un uomo così grande non cadesse nell'oblio, essi si consolarono dicendo che, quando i galli che gli Spagnoli avevano portato con sé cantavano, piangevano la morte di Atahuallpa, e a sua memoria ne proclamavano il nome; e per tale motivo chiamarono, sia il gallo che il suo canto, atahuallpa; e come tale il nome è passato nell'uso in tutte le nazioni e favelle degli indiani, al punto che non soltanto essi, ma anche gli Spagnoli e i predicatori se ne servono correntemente», eccetera. Fin qui il Padre Blas Valera il quale ebbe questa informazione nel regno di Quito dagli stessi vassalli di Atahuallpa che, affezionati com'erano al loro sovrano naturale, sostenevano che i galli lo nominavano cantando a cagione della sua sonante fama; e questa versione l’ho udita anch'io al Cozco, dove Atahuallpa commise tiranniche e indicibili crudeltà, e coloro che le subirono, feriti e oltraggiati, sostenevano invece che i galli ne ripetevano il nome, cantando, a perpetua infamia e abominio suoi. È noto infatti che ognuno parla secondo il proprio tornaconto. E con quanto ho detto, credo di aver fatto giustizia dei tre supposti indizi, oltre ad aver comprovato in misura sufficiente come prima della conquista degli Spagnoli in Perù non esistessero polli.»
Siccome i dati linguistici relativi a gualpa danno torto marcio a Garcilaso, non possiamo concedere a questo sputaveleno di inventare la storiella dei suoi compatrioti sbeffeggianti parecchie volte al giorno la vittima di Sua Santità Pizarro, parecchie volte in quanto i galli cantano e ricantano in coro non solo all’alba. Questa storiella è solo denigratoria e niente più, perché esiste tutta una schiera di Huallpa e di Atahuallpa antecedenti e susseguenti all’Inca Atahualpa. Ma Garcilaso non spiega perché questo nome fosse tanto comune.
Prendiamo da Von Hagen le notizie che riguardano la nascita e il raggiungimento dell’età adulta di un bambino inca:
«Dopo la nascita, il bambino veniva lavato nel più vicino ruscello e al quarto giorno veniva messo in una culla, chiamata quiran. La madre la portava sul dorso e la teneva sempre a portata di mano. Il bambino veniva allattato fino a due anni d’età, dopo di che incominciava a conformarsi alla vita dei genitori. Nei primi due anni non si dava il nome al bambino, che veniva chiamato solamente wawa (bimbo) [4] ; in seguito si teneva una festa in famiglia e aveva luogo l'elaborata cerimonia del rutu-chicoy (taglio dei capelli). Si dava al bambino un nome provvisorio, in quanto quello definitivo gli veniva imposto quando fosse giunto alla pubertà.
«L'istruzione di un Indiano consisteva nell'imitare i suoi genitori in ogni atto della loro vita. I genitori non vivevano separati dai figli, i quali partecipavano a tutti i gesti della loro vita quotidiana: mangiare, dormire, lavorare. I figli erano testimoni anche degli atti sessuali, per cui un ragazzo giunto all’età puberale era in realtà un uomo in miniatura.
«A 14 anni un ragazzo, diventato pubere, indossava il perizoma. Fra i contadini si trattava di un semplice argomento di crescita, con tutto il loro senso dell'umorismo sboccato e osceno in occasioni del genere; il ragazzo fattosi uomo assumeva quindi il nome definitivo, quello di uno zio o del padre, oppure quello di un animale.
«Per i rampolli delle classi superiori le cose si svolgevano in modo assai differente; indossare il perizoma significava per loro recarsi in pellegrinaggio fino al luogo di nascita dello stato incaico, a Huanacauri, in cima alla valle di Cuzco, sacrificare lama alla presenza di sacerdoti officianti e farsi spalmare il viso di sangue (i nostri riti iniziatici per l’ammissione in società segrete non sono molto diversi). Più tardi egli assumeva l’aspetto di un guerriero, fornito di scudo, di ornamenti auricolari e di fionda, e faceva pubblica dichiarazione di fede all’Inca. Quindi il ragazzo di ceto superiore riceveva il tipo di istruzione tradizionale, che lo preparava ad assumere in seguito una carica amministrativa nel regno.
«Le fanciulle diventavano maggiorenni pressappoco alla stessa epoca, con una deliziosa cerimonia durante la quale venivano acconciate, ricevendo anch'esse il loro nome definitivo; nell'adattarseli, i loro nomi esprimevano, secondo il nostro significato e credo anche secondo il loro, qualcosa di poetico. Una ragazza poteva prendere il nome di una stella e farsi chiamare Coyllur, oppure quello della pianta chiamata coca, o di una pietra preziosa, e forse addirittura quello di Ima Sumac, cioè, Quanto sei Bella.»
Garcilaso ci fa sapere quali erano i criteri in base ai quali venivano dati nomi e soprannomi ai loro re:
«Gli Indiani, dando nomi e soprannomi ai loro re, obbedivano ad altre intenzioni, che andavano al di là del comune significato della parola, usando una fraseologia e locuzioni diverse da quelle del linguaggio comune e che rispondevano a un’attenta osservazione delle manifestazioni e indicazioni che i Principi, quand’erano fanciulli, fornivano delle virtù regali che promettevano di far proprie; tenevano anche in considerazione i benefizi e gli atti magnanimi che da esse virtù derivavano una volta che fossero uomini, per dar loro nome e soprannome conformi ... Gli Inca assumevano simili nomi di animali, o fiori, o erbe, per significare che, come queste creature sovrastavano le altre della propria specie, così essi sovrastavano gli uomini.»
Quali erano le caratteristiche di Atahualpa? È ancora Garcilaso a farcele conoscere:
«Come dianzi abbiamo accennato, l’Inca Huayna Cápac ebbe dalla figlia del re di Quito (che avrebbe dovuto succedere al padre su quel trono) un figlio, Atahuallpa. Costui fu di pronta intelligenza e di ingegno acuto, astuto, sagace, abile e prudente, e bellicoso e animoso in guerra, bello di corpo e avvenente di volto, come del resto era regola per gli Inca e le Palla; per tali doti del corpo e dell’animo, fu teneramente amato dal padre, che sempre lo portava con sé.»
Quindi, Atahualpa, ebbe un nome che senz’altro
esprimeva le sue doti:
era un bel pollo, un bel gallo.
Atahualpa, ultimo Inca, figlio di Huayna Cápac e fratellastro di Huáscar.
Cosa possiamo arguire dalla biografia di Garcilaso? Apparentemente nulla di saliente per interpretare ciò che di male scrive a proposito dell’ultimo Inca. Ma non è vero, in quanto non morì di nostalgia per la terra natale, consumando la sua esistenza in un’Europa che non era migliore di quella d’adesso, dove era giocoforza adeguarsi a chi offriva panem et circenses. Ve lo immaginate un meticcio dare addosso alla Corona di Spagna?
A mio parere Garcilaso vendette la sua dignità in cambio della fama, che come indio riuscì a meritarsi sgobbando, perché non aveva certo il dono della scienza infusa.
Vediamo tuttavia di essere più clementi nei suoi confronti, in quanto non è escluso che Garcilaso abbia inventato la storiella dell’abominazione di Atahualpa per salvare la sua gente. Infatti, in quanto indio - e stavolta lo dice senza vergogna - egli si fa garante di ciò che afferma e così in Perù gli Indios possono essere lasciati in pace quando esprimono la loro avversione per gli Spagnoli gridando Atahualpa insieme ai galli.
Ma, come abbiamo già accennato, quest’interpretazione addotta da Garcilaso lascia inspiegato non solo il nome di suo zio e di suo nonno, ma anche quello di Huáscar.
Era costume presso gli Inca prendere il nome da un uccello, come puntualizza Nordenskiöld, per cui sembra favorita l’ipotesi secondo cui il nome huallpa precedette di almeno una o due generazioni l’arrivo degli Spagnoli.
Credo non debba destare meraviglia il fatto di prendere il nome da un uccello. Esistevano motivi sufficienti per assumere il nome Hualpa? Nessuno, oggigiorno, risparmia l’appellativo di galletto a un rubacuori; il pene in gergo inglese è detto cock, in Macedonia e in Bulgaria il membro virile suona allo stesso modo, ma con vocabolo slavo: kur. Però in macedone – che come il bulgaro appartiene al gruppo meridionale della famiglia linguistica slava – nonché in bulgaro, per designare il gallo non si ricorre a kur, bensì a pjetjel - петел, termine derivato dal sanscrito pil che significa pollo, a sua volta derivato dalla radice verbale pa = proteggere. Se non bastasse, nella Repubblica Ceca, la cui lingua - il ceco o boemo - appartiene al gruppo slavo occidentale, in gergo il pene si scrive čurák e si pronuncia ciuràc. Se il gallo è detto kohout, il pollo in senso lato si dice kuře oppure kur. La fonte è estremamente attendibile: Giovanni Seminara (2006), che ai suoi tempi mi aiutò a scorrazzare per tutta la Moravia a caccia di Mendel.
Visto che ancora nel 1600 il gallo - come puntualizza Ulisse Aldrovandi a pagina 206 del II volume della sua Ornithologia - si sarebbe accoppiato più di 50 volte al giorno - ut facit Gallus noster, qui singulis diebus quinquagesies, et amplius uxores suas, quas plurimas habet, init - ma che oggi, nel 2005, lo farebbe solo 20-30 volte pro die, il nostro libidinoso pennuto – attraverso vocaboli che hanno molto da spartire, o meglio, da trasfondere in kur – si è preso la briga di indicare il pene anche in altre lingue: kir in persiano, che ha dato luogo allo zigano - o romani - kar che a sua volta si è intrufolato nella lingua albanese, cosicché anche gli Albanesi per indicare il pene dicono kar, e l’avrebbero derivato non dagli adiacenti Slavi, bensì da contatti a suo tempo intercorsi con gli onnipresenti Gypsy. Per finire: il gallo - quello che fa chicchirichì - è detto in persiano khurùs, in romani bašnó, in albanese gjel.
kir
in persiano trascritto da Kamran
Sarikhani
Kami per gli amici
Grazie alla preziosa collaborazione di Sergio Franzese possiamo venire a conoscenza, oltre che dell’iter linguistico dello zigano kar, anche dell’etimologia di bašnó: “Il termine bašnó deriva da baš- < Sanscrito Vas, vasyate "abbaiare" (che nella forma causativa bašav- significa "suonare" uno strumento).
Tuttavia per i dialetti romani di tipo "vlax" la radice baš- (dalla quale deriva il termine bašnó) indica il canto del gallo ma, quasi per ironia, i Rom che parlano queste varianti linguistiche non chiamano il gallo bašnó bensì kokóšo (perlomeno i Kalderaš che rappresentano la variante linguistica più diffusa). Gallina in romanés si dice nei seguenti modi: xáxni, xaxnín (pron. cháchni, chachnín; ch come in tedesco nella parola Buch), khanjí; čavrín (pron. ciavrín) significa soprattutto pulcino. È interessante notare l'analogia con il termine čavó "bambino", e - almeno per quanto riguarda i Sinti piemontesi - per la gallina si usa anche il termine klóška (etimologia ignota).”(e-mail del 29 maggio 2005)
Per ulteriori informazioni etimologiche su kur e pjetjel si veda rispettivamente VIII - 5.2.b e 5.2.a.
Kir- kar- kur e Atahualpa si aggiornano
Negli anni '80 era in voga uno stile di vita tra i giovani – abbigliamento nonché modo di apparire sotto il profilo esistenziale – per cui essi venivano chiamati Paninari, essendo anche l'epoca dei primi fast food in Italia. Per il paninaro un gallo era colui che aveva successo con le donne, nelle contese agonistiche e più in generale nella vita. Non necessariamente acculturato o intelligente, il paninaro partoriva comunque agli occhi dei suoi confratelli le scelte migliori, dette gallate. Tra i capi d'abbigliamento preferiti vi era il piumino invernale della ditta francese Moncler che aveva come stemma un gallo tricolore stilizzato che si deliziava dei colori della bandiera francese. Vestire firmato era l’ossessione dei paninari, che fecero del look il loro principale tratto distintivo. Il piumino Moncler e le scarpe Timberland, le cintura El Charro e le felpe Best Company erano i loro imperativi. I paninari erano giovani appartenenti alla borghesia, dall’orientamento ideologico vagamente di destra, piuttosto maschilista, quindi dei kir-kar-kur In tanti si saranno chiesti perché si usi il termine Paninaro per definire la generazione degli anni ’80 che ascoltava musica pop. Ebbene il termine Paninaro è nato in Piazza Liberty a Milano dal bar Al Panino. In questo bar storico infatti si ascoltava solo musica pop New-Wave, quella dei grandi gruppi commerciali degli ’80 per intenderci, e ci si imbottiva di panini. I frequentatori del bar furono chiamati Paninari. È infatti sempre da far risalire a quei bellissimi anni la nascita delle Paninoteche, che oggi sono quasi del tutto sparite, veri punti di ritrovo di galli e sfitinzie – o squinzie - che si ritrovavano in questi fast-food a consumare panini di ogni genere. - Questo aggiornamento iconografico e storico di kir-kar-kur lo dobbiamo ad Alfredo Colella, futuro discepolo di Esculapio (domenica 25 marzo 2007).
Vista l’insistenza con cui si ritorna sul significato sacrificale del pollo nelle Americhe, si può presumere che esso non fosse carne da macello e basta, come ai giorni nostri. Di converso, sappiamo da José de Acosta che il termine gualpa, la gallina, era usato per indicare un codardo. Quindi, il traslato psicologico, in questo caso denigratorio, era in uso anche presso il popolo delle Ande tanto come noi attribuiamo un cervello da gallina a chi non ha tutte le rotelle funzionanti.
Atahualpa nacque intorno al 1502, suo fratello Tupac Hualpa era più giovane e suo fratello Huáscar - Inti Cusi Huallpa - aveva pochi anni più di lui. Sembra inverosimile che ambedue siano stati ribattezzati Huallpa dopo la morte di Atahualpa, anzi, questo non può essersi assolutamente avverato per Huáscar in quanto venne ucciso da Atahualpa stesso.
A me pare molto verosimile che huallpa fosse volentieri impiegato nel regno di Tahuantisuyu, come lo dimostrano tutti gli Hualpa e gli Atahualpa elencati.
Però, morire se Garcilaso molla le brache e dà l’etimologia di Huallpa! Scorrendo i Commentari possiamo farci una vasta cultura etimologica sulla lingua degli Inca, ma sul più bello Garcilaso ci lascia a bocca asciutta. Vediamo questo brano, che parla di Huáscar e di come gli fu attribuito questo appellativo; l’oggetto di cui parla Garcilaso è un’enorme fune d’oro fatta costruire da Huayna Cápac.
«Questo splendido oggetto, così ricco e imponente, venne nascosto dagli Indiani in una con gli altri tesori che fecero sparire quando gli Spagnoli entrarono nella loro terra, e lo celarono così bene che non se n'è trovata traccia. E siccome quell'enorme gioiello così prezioso e magnifico contrassegnò il taglio dei capelli e l'attribuzione del nome al bimbo, Principe ereditario dell'Impero, oltre a quello proprio che gli fu posto, cioè Inti Cusi Huallpa, gli aggiunsero il soprannome di Huáscar, a dare maggior risalto all'opera. Huasca vuol dire fune e poiché gli indiani del Perù non avevano una parola per designare la catena, la chiamavano appunto fune, aggiungendo il nome del metallo di cui era fatta, così come in Spagna si dice catena d'oro, o d'argento, o di ferro; e affinché quell'attributo non fosse di discapito al Principe, visto il suo significato, lo corressero aggiungendovi una r, col che cessava di avere un significato preciso; in altre parole, vollero, sì, che gli restasse la denominazione di Huasca, non però il significato di fune; e fu così che quel Principe fu detto Huáscar, ed egli a tal punto lo fece suo che gli stessi vassalli preferivano chiamarlo così anziché con il nome proprio, che come s'è detto era Inti Cusi Huallpa, cioè Huallpa Sole di letizia. Siccome in quei tempi gli Incas si credevano potentissimi, e poiché la possanza per lo più induce gli uomini a vanità e superbia, non s'accontentarono di attribuire al Principe un nome di quelli che fino a quel momento erano serviti a designare grandezza e maestà, ma vollero ergersi fino al Cielo, servendosi del nome di ciò che adoravano e onoravano come dio, e lo diedero a un uomo chiamandolo Inti, che nella loro lingua vuol dire Sole; Cusi significa allegrezza, gioia, felicità e gaudio, e tanto basti per i nomi e i soprannomi del Principe Huáscar Inca.»
Prima di chiudere con le mie critiche a Garcilaso, vorrei farvi notare che egli oltre a non fornire spiegazioni che riterremmo logiche - dopo essersi dilungato su Inti Cusi, chiude di brutto l’argomento - cade altresì in contraddizioni linguistiche relative all’uovo. Abbiamo visto che gli Inca erano soliti specificare, accanto alla parola ronto, a chi appartenesse l’uovo. Ma questa non era la regola, come vedremo nel brano seguente, e Garcilaso dà anche per scontato che tutte le uova siano bianche.
«La Regina, moglie dell’Inca Viracocha, ebbe nome Mama Runtu, che vuol dire madre uovo; fu così chiamata perché era di colorito più pallido di quanto non lo siano generalmente le indiane, ragion per cui la chiamarono come s’è detto, che in quella lingua è considerato un complimento; equivaleva a dire che era bianca come un guscio d’uovo.»
Ecco dunque un insieme di dati a favore della preesistenza del pollo in Sudamerica prima della venuta degli Spagnoli, dati che vanno ad unirsi al pollo ben stanziato trovato dagli Spagnoli sulle sponde del Fiume Ucayali (1540) e alla testata del bacino amazzonico (1560).
[1] Georges Louis Leclerc Buffon: naturalista e filosofo francese (Montbard, Digione, 1707 - Parigi 1788). Di famiglia borghese, compì gli studi giuridici, ma si interessò ben presto di problemi scientifici. Eletto membro dell'Académie des Sciences, nel 1739 ottenne la carica di intendente al Jardin du Roy, dove lavorò indefessamente sino alla vecchiaia, ampliando quest’istituzione e stendendo la sua grande opera in 44 volumi, Histoire naturelle générale et particulière avec la description du Cabinet du Roy (1749-88), con la collaborazione di altri studiosi, fra cui l'anatomista Daubenton. L'opera, tra i migliori testi scientifico-filosofici dell'illuminismo francese, diede un contributo decisivo a geologia, biologia e filosofia della natura del Settecento, procurando gran fama all'autore. Alle descrizioni minuziose dei naturalisti del primo Settecento che ricercavano nella natura la perfezione meccanica del grande disegno divino, ricostruito nei termini di una scienza e di una filosofia di derivazione cartesiana, Buffon contrappose una visione plastica e immediata degli animali, specialmente quadrupedi e uccelli, più vicini all'esperienza quotidiana dell'uomo agricoltore e cacciatore; nello stesso tempo elaborò una nuova concezione della scienza e della natura, superando, sulla scorta di Newton e Locke, la concezione meccanicistica cartesiana: la materia non è passiva, ma attiva. La natura non deve quindi essere riportata a un disegno statico e prestabilito, ma a un ordine autonomo di leggi, a una continua interazione fra cause ed effetti che va ricercata risalendo al passato. In tal modo la storia naturale diventa storia della natura.
[2] Le Isole Salomone, arcipelago dell'Oceano Pacifico facente parte della Melanesia, furono toccate per la prima volta nella seconda metà del XVI secolo dallo spagnolo Mendaña de Neira, per essere riscoperte nel 1768 da Bougainville.
[3] Palla significa donna di sangue reale. Come abbiamo detto, Chimpu Ocllo, ancora giovinetta, si salvò insieme al fratello - don Francisco Huallpa Tupac Inca Yupanqui - durante l’epurazione avviata da Atahualpa per disfarsi degli stretti parenti di suo fratello Huáscar dopo averlo imprigionato.
[4] Garcilaso de la Vega, nei Commentari, è più ricco di particolari: “Per coloro che si interessano di linguistica, diremo che la parlata generale del Perù comporta due sostantivi che significano figlio; il padre lo chiama churi, la madre huahua (in realtà, il sostantivo andrebbe scritto senza le acca, ma soltanto con le quattro vocali, che andrebbero pronunciate in due dittonghi: ua-ua; se aggiungo le acca, è perché non le si scambi per due sillabe). Entrambi comunque significano figlio, riferendoli rampolli d'ambo i sessi, e usati allo stesso modo al singolare come al plurale; non è lecito ai genitori scambiarli, pena altrimenti di fare del maschio una femmina e della femmina un maschio. Per distinguere i sessi, aggiungono i sostantivi che significano maschio e femmina; ma, per indicare i figli, al plurale o al singolare, il padre, ripeto, dice sempre churi e la madre uaua."
Lo zigano, detto anche romani (cib) o romanés, è una lingua indeuropea che ha come base un dialetto neoindiano nord-occidentale. Il romanés europeo può essere suddiviso in:
1) romani vlax (parlato dai Rom stanziati originariamente nella regione danubiana): kalderásh, lovári, ciurári; questo gruppo linguistico è maggiormente influenzato dal romeno, dal russo, dall'ungherese;
2) romani balcanico (parlato dai Rom originari dei Balcani): xoraxané, serbijája, ecc; gli influssi linguistici di questo gruppo derivano dalle lingue slave del sud quali serbo-croato, macedone, bulgaro e dal turco;
3) sinto-romani, parlato dai Sinti, diffusi prevalentemente nell'Europa del nord (Germania, Belgio, Olanda) e nell'Europa occidentale (Austria, Nord Italia, Francia), e presenti in misura minore anche in alcune nazioni dell'Europa Orientale. I dialetti sinti e manouche (nome attribuito ai Sinti nei paesi di lingua francese) sono influenzati in misura consistente dal tedesco, in misura minore dal francese e dall'italiano (forme dialettali di queste ultime lingue);
4) varianti isolate come il “po romane” dei Rom Havati e dei Rom Istriani, il “romanésë” parlato dai Rom dell'Italia centro Meridionale (Abruzzesi, Molisani, Cilentani, Calabresi, ecc.); il “kaale” dei Rom finlandesi, ecc.;
5) forme creole: il “caló” dei Gitani (Spagna, Francia del sud, Portogallo); l'“anglo-romani” - detto anche “pogadi cib” - parlato dai Gypsies del Regno Unito.
A questi si sommano i dialetti degli Zingari extra-europei (India, Pakistan, Afghanistan, Armenia, Medio Oriente, Nord Africa). Le varianti romani parlate nel resto del mondo (Americhe, Australia, Mongolia, Cina, ecc.) appartengono ovviamente al romanés europeo in quanto sono conseguenza della diaspora dei Rom dall'Europa verso gli altri continenti.
Questa importante nota linguistica è dovuta alla rara competenza di Sergio Franzese, che ringrazio vivamente.
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