Lessico


Lombardo

Oreficeria longobarda
Cavaliere - lastrina in bronzo dorato dello Scudo di Stabio
VII secolo - Berna - Historisches Museum

Anticamente la parola lombardo ebbe un’estensione più ampia rispetto a quanto accade oggi, in quanto indicava genericamente gli abitanti dell’Italia settentrionale, esclusi tutt’al più quelli della Romagna (cioè di quella regione storica divisa tra Emilia-Romagna, Marche, Toscana e Repubblica di San Marino, sede dell'Esarcato di Ravenna istituito dai Bizantini per consolidare la difesa del Paese progressivamente invaso dai Longobardi).

Fuori dall’Italia, a partire del XII secolo, lombardo fu anche il nome attribuito ai mercanti italiani in genere, benché fossero in prevalenza piemontesi e toscani. Nel sud dell’Italia si conservò generalmente la forma non sincopata, cioè longobardo, tant’è che nel XII secolo si faceva distinzione tra Lombardi - Italiani del Nord - e Longobardi, Italiani del Sud, esclusi gli isolani.

Ma, contrariamente alle premesse, in un latino rinascimentale e post-rinascimentale i vocaboli Longobardus e Longobardia potrebbero non identificare solamente il sud dell’Italia, ma anche il nord, come dimostra il titolo e il contenuto di un erbario relativo ai funghi lombardi di Fridiano Cavara (1857-1929): Fungi Longobardiae exsiccati sive mycetum specima in Longobardia collecta 1891-1895.

Lo stesso si può pensare per il significato dell’aggettivo Longobardicae attribuito da Gisbert Longolius alle galline Patavinae: si trattava verosimilmente di galline del nord dell’Italia, per cui dovremmo tradurre con una certa tranquillità questo suo Longobardicae con Lombarde, nel senso che erano galline dell’Italia settentrionale, dove appunto si trova Padova.

E proprio a Padova insegnò medicina e filosofa naturale un padovano d'adozione, Pietro d'Abano (ca. 1250 - ca. 1315), il quale, secondo quanto afferma la Catholic Encyclopedia, a Parigi ricevette l'appellativo di the great Lombard. Ciò dovrebbe costituire una chiara testimonianza che nel Medioevo Padova si trovava in Lombardia. Così come si trovava ovviamente in Lombardia Lomello, dove Teodolinda vedova di Autari si sposò con Agilulfo nell'autunno del 590.

Etimologia di Lombardo e Longobardo

Molto discussa è l’etimologia di lombardo e di longobardo. Le ipotesi più varie sono giustapposte dal Dizionario della lingua italiana (N. Tommaseo - B. Bellini, Torino, 1865-1879) alla voce lombardo: da lang ‘lungo’ + barthe ‘scure’ o bart ‘barba’ o bord, börde “piano fertile accanto ad un fiume; dalla pianura dell'Elba, sede originaria de' Longobardi”; o da land ‘paese’ + wart ‘forza’: “uomo valente, gagliardo”. Si può ancora aggiungere la versione più antica, che si legge all'inizio della Origo gentis Longobardorum (sec. VII), ma considerata già ridicola fabula nella Historia Langobardorum di Paolo Diacono (sec. VIII): sarebbe stato lo stesso dio Wotan a esclamare, vedendo schierati i barbuti soldati: “Chi sono questi dalla lunga barba?”. Ma sarà lo stesso Paolo Diacono a spiegare: “Nam iuxta illorum linguam lang longam, bart. barbam significat” (F. van der Rhee in “Romanobarbarica” V, 1980, 278) e a riportare il testo di un'iscrizione funeraria, dove la barba lunga sembra segno di onorevole distinzione (III 19): “Terribilis visu facies, sed mentem benignus, / Longaque robusto pectore barba fuit”, cioè, “Il volto [del duca Droctulfo] era tremendo all'aspetto, ma l'animo buono, / e la sua barba fu lunga sul petto robusto”. (da Cortelazzo-Zolli, Dizionario etimologico della lingua italiana)

Lombardia

Lombardia è la forma sincopata del termine medievale Longobardia in uso nell’Italia bizantina per designare la parte della penisola dominata dai Longobardi, in opposizione alla rimanente, allora detta Romània. Più esattamente si dovrebbe parlare di Langobardia e di Langobardi: in greco infatti si diceva Laggobardìa, e in latino Langobardi, rispecchiandone la discussa etimologia. Dopo l’888 si indicò col nome di Longobardia la marca carolingia comprendente Milano. Ma ancora nel basso medioevo l’accezione del toponimo valicava di molto i confini dell’attuale Lombardia, avvicinandosi a comprendere l’intera Italia settentrionale. Solo dalla costituzione del Regno d’Italia (1861) il toponimo si riferisce all’attuale suddivisione amministrativa. Si sottolinea che per Medioevo si intende abitualmente il periodo compreso fra la deposizione dell’ultimo Imperatore Romano d’Occidente (Romolo Augustolo, 476) e la scoperta dell’America (1492).

Longobardia Minore

La Longobardia Minore corrisponde all’Italia meridionale longobarda sfuggita alla conquista franca. Essa fu l’erede del ducato longobardo di Benevento fondato alla fine del VI secolo. Dopo la conquista del regno longobardo da parte dei Franchi, il duca di Benevento, Arechi II, assunse il titolo di principe (758-787), elevò il ducato a principato e pose la capitale a Salerno, riuscendo a salvaguardare l’indipendenza del suo dominio di fronte agli eserciti di Carlo Magno. Nel corso dell’XI secolo la Longobardia Minore cadde sotto la dominazione normanna.

Longobardi

Popolo germanico del ramo occidentale, con lingua abbastanza vicina all’antico alto tedesco, dominarono in Italia dal 568 al 774, sconfitti dai Franchi che appartenevano allo stesso ramo dei popoli germanici. I Longobardi in numero di 200-300.000, cui si erano uniti gruppi di Gepidi, Svevi, Slavi e un forte contingente di 20.000 Sassoni, si mossero dalla Pannonia al seguito di Alboino il 2 aprile del 568, penetrarono in Italia attraverso la valle del Vipacco (Alpi Giulie) nel 569, conquistarono Cividale del Friuli (il loro primo ducato) e tutto il Veneto. Proseguirono poi nella Pianura Padana senza incontrare resistenze degne di nota, se si esclude Pavia (antica capitale del regno gotico), che si arrese solo nel 572 dopo 3 anni di assedio e che divenne la capitale del regno longobardo.

In pochi anni conquistarono gran parte dell’Italia in quanto debolmente presidiata dai Bizantini, riducendone di molto i possessi. Sotto Agilulfo (590-616) fu stipulata una prima pace con l’impero bizantino, che riconobbe il regno longobardo nella sua configurazione territoriale: comprendeva l’Italia del nord (con l’eccezione della fascia costiera del Veneto e della Liguria), la Tuscia, il cuore dell’Umbria e delle Marche, e vaste e non ancora precisabili regioni del Sud continentale. Il re risiedeva a Pavia. Re Rotari (636-652) conquistò la Liguria e avanzò in Emilia e verso il litorale veneto, prendendo Oderzo e cacciando i Bizantini in laguna.

All’inizio dell’VIII secolo, ormai cattolici e non più ariani, avendo abbandonato la loro lingua per adottare il latino d’Italia, i Longobardi si fusero con la popolazione locale. Il termine Romani nelle fonti del tempo indica solo gli abitanti delle regioni italiane sottoposte all’impero di Bisanzio. Il momento di massima potenza politica del regno si ebbe con Liutprando (712-744) che riuscì a estendere i possessi longobardi in Emilia, a prendere per breve tempo Ravenna, ad arrivare sino alle porte di Roma e a sottomettere i due ducati longobardi di Spoleto e Benevento (quest’ultimo, a questa data, comprendeva la quasi totalità dell’Italia meridionale continentale).

Fu il papato che impedì a Liutprando di spazzare via definitivamente i Bizantini (Gregorio II, Gregorio III e Zaccaria). Nel 750 Ravenna fu conquistata da Astolfo e allora papa Stefano II si rivolse ai Franchi: re Pipino il Breve scese due volte in Italia, con sconfitta, ma non sottomissione, dei Longobardi. La sottomissione avvenne nel 774 da parte del figlio di Pipino, Carlo Magno, dopo che l’ultimo re longobardo, Desiderio, aveva rinnovato le aggressioni contro i territori romani.

Ducati longobardi

I ducati longobardi furono le principali organizzazioni politiche create dai Longobardi in Italia. Dopo l'invasione guidata da Alboino nel 568, il territorio conquistato fu ripartito secondo criteri principalmente militari e assegnato a quanti, tra i nobili longobardi, si erano distinti in combattimento: i duchi, appunto. La carica non era nuova ed era legata all'istituzione della fara, unità base della struttura sociale e militare dei Longobardi, ma dopo l'insediamento in Italia assunse nuove caratteristiche.

Il primo ducato a essere costituito fu, già all'indomani della conquista (569), quello del Friuli, affidato da Alboino a Gisulfo. Particolare rilievo storico ebbero i due ducati eretti nell'Italia centro-meriodionale (la Langobardia Minor), Spoleto (ca. 571) e Benevento (570), che godettero spesso di ampia autonomia all'interno del regno longobardo.

Nei primi anni del dominio longobardo in Italia, i ducati si ressero autonomamente per un decennio, senza che ci fosse un re centrale (Periodo dei Duchi, 574-584). In seguito, di fronte all'inefficienza e alla pericolosa debolezza militare di una simile frammentazione, i duchi tornarono a eleggere un re (Autari), ma i rapporti tra il potere centrale e i ducati rimasero deboli. Soltanto con il tempo l'accentramento del potere regio, almeno nella Langobardia Major (Italia centro-settentrionale), ebbe la meglio sui particolarismi dei ducati.

Il ducato rappresentò per diversi nobili longobardi una sorta di "trampolino di lancio" verso il trono di Pavia (tra i tanti esempi, spiccano molti tra i più grandi tra i sovrani longobardi: Autari, Agilulfo, Rotari, Grimoaldo, Rachis, Astolfo, Desiderio). Non sempre però il colpo andava a buon fine, e il tentativo di usurpazione culminava con la morte del duca ribelle (Alachis, Rotarit).

I ducati longobardi, tanto nella Langobardia Major quanto nella Langobardia Minor, non furono soppressi alla caduta nel regno (774), ma furono inglobati nell'Impero carolingio. Unica eccezione, il Ducato di Benevento: presto elevato al rango di Principato (ma poi anche indebolito da secessioni), conservò la sua autonomia e anzi rivestì un importante ruolo politico fino all'arrivo dei Normanni (XI secolo).

Elenco dei ducati longobardi e data di costituzione

Ducato del Friuli - 569
Ducato di Ceneda – 568/667
Ducato di Treviso - 568
Ducato di Vicenza - 569
Ducato di Verona - 568
Ducato di Trento - 568
Ducato di Parma – 579/593
Ducato di Reggio – 584/593
Ducato di Piacenza – ca. 593
Ducato di Brescia – 568/569
Ducato di Bergamo – 570/575
Ducato di San Giulio Isola del lago d’Orta – ca. 575
Ducato di Pavia – dal 572 al 774 capitale del regno
Ducato di Torino – 568/569
Ducato di Asti - 569
Ducato di Tuscia – 574
Ducato di Spoleto - 571/576
Ducato di Benevento – 570/576

Fonti

Paolo Diacono, Storia dei Longobardi, Lorenzo Valla/Mondadori, Milano 1992

Jörg Jarnut, Storia dei Longobardi, Torino, Einaudi, 2002. ISBN 8846440854

Sergio Rovagnati, I Longobardi, Milano, Xenia, 2003. ISBN 8872734843

Longobardi

I Longobardi erano una popolazione germanica orientale, protagonista tra il II e il VI secolo di una lunga migrazione che la portò dal basso corso dell'Elba fino all'Italia. Il movimento migratorio ebbe inizio nel II secolo, ma soltanto nel IV l'intero popolo avrebbe lasciato il basso Elba. Durante lo spostamento, avvenuto risalendo il corso del fiume, i Longobardi approdarono prima al medio corso del Danubio (fine V secolo), poi in Pannonia (VI secolo), dove consolidarono le proprie strutture politiche e sociali, si convertirono - almeno parzialmente - al cristianesimo ariano e inglobarono elementi etnici di varia origine.

Entrati a contatto con il mondo bizantino e la politica dell'area mediterranea, nel 568, guidati da Alboino, si insediarono in Italia, dove diedero vita a un regno indipendente che estese progressivamente il proprio dominio su quasi tutta la parte continentale della Penisola. Il dominio longobardo fu articolato in numerosi ducati, che godevano di una marcata autonomia rispetto al potere centrale dei sovrani insediati a Pavia. Nel corso dei secoli, tuttavia, grandi figure di sovrani come Autari, Agilulfo (VI secolo), Rotari, Grimoaldo (VII secolo), Liutprando, Astolfo e Desiderio (VIII secolo) estesero progressivamente l'autorità del re, conseguendo progressivamente un rafforzamento delle prerogative regie e della coesione interna del regno. Il Regno longobardo, che tra il VII e l'inizio dell'VIII secolo era arrivato a rappresentare una potenza di rilievo europeo, cessò di essere un organismo autonomo nel 774, a seguito della sconfitta subita dai Franchi guidati da Carlo Magno.

Nel corso dei secoli i Longobardi, inizialmente casta militare rigidamente separata dalla massa della popolazione romanica, si integrarono progressivamente con il tessuto sociale italiano, grazie all'emanazione di leggi scritte in latino (Editto di Rotari, 643), alla conversione al cattolicesimo (fine VII secolo) e allo sviluppo, anche artistico, di rapporti sempre più stretti con le altre componenti socio-politiche della Penisola (bizantine e romane). La contrastata fusione tra l'elemento germanico longobardo e quello romanico pose le basi, secondo il modello comune alla maggior parte dei regni latino-germanici altomedievali, per la nascita e lo sviluppo della società italiana dei secoli successivi.

Etnonimo

È lo stesso Paolo Diacono, che con la sua Historia Langobardorum (Storia dei Longobardi) è la principale fonte di conoscenza della storia longobarda, a fornire l'etimologia dell'etnonimo "Longobardi" (Langbärte in antico germanico, latinizzato in Langobardi): "Ab intactae ferro barbae longitudine [...] ita postmodum appellatos. Nam iuxta illorum linguam "lang" longam, "bart" barbam significat." - "Furono chiamati così [...] in un secondo tempo per la lunghezza della barba mai toccata dal rasoio. Infatti nella loro lingua lang significa lunga e bart barba." (Paolo Diacono, Historia Langobardorum, I, 9)

Paolo Diacono, che riporta anche le tradizionale spiegazione mitica di questo appellativo, rileva come sia anche congruente con l'acconciatura tipica dei Longobardi, caratterizzata in effetti dalle lunghe barbe che li differenziano, per esempio, dai Franchi accuratamente rasati. L'etimologia proposta dallo storico è stata accolta anche dalla moderna ricerca, che conferma come l'acconciatura tradizionale fosse a sua volta avvalorata da una forma rituale di culto al dio Odino. Al contrario, la storiografia ha ormai abbandonato l'ipotesi alternativa che spiegava l'etnonimo come popolo "dalle lunghe lance", dall'alto tedesco antico "barta" (lancia).

Storia - Le origini

Il mito

Secondo le loro tradizioni, riportate nell'Origo gentis Langobardorum e riprese da Paolo Diacono nella sua Historia Langobardorum (dove tuttavia lo storico rigetta la leggenda, qualificandola come "ridiculam fabulam", "fiaba ridicola", e bollando i fatti narrati come "risu digna et pro nihilo habenda", "degni di riso e privi di qualsiasi valore"), i Longobardi in origine si chiamavano Winnili e abitavano la Scania. Sotto la guida dei fratelli Ibor e Aio, figli di Gambara, migrarono verso sud, sulle coste meridionali del Mar Baltico, e si stabilirono nella regione chiamata Scoringa. Presto vennero in conflitto con i vicini Vandali, anch'essi Germani, e si trovarono in difficoltà poiché il loro valore non bastava a compensare l'esiguità numerica. Narra la leggenda che i capi dei Vandali pregarono Odino di concedere loro la vittoria, ma il dio supremo disse che avrebbe decretato il successo al popolo che, il mattino della battaglia, avrebbe visto per primo. Gambara e i figli invece ricorsero alla moglie di Odino, Frigg, che diede loro il consiglio di presentarsi sul campo di battaglia al sorgere del sole: uomini e donne insieme, queste con i capelli sciolti fin sotto il mento come fossero barbe. Al sorgere del sole Frigg fece sì che Odino si girasse dalla parte dei Winnili e il dio, quando li vide, chiese: "Chi sono quelli con le lunghe barbe?". Al che la dea rispose: "Poiché gli hai dato un nome, dai loro anche la vittoria".

L'aneddoto riguarda non solo la leggenda di formazione del nome del popolo, ma informa anche di una sorta di passaggio delle consegne fra gli dèi dell'antica religione dei Vanir, che probabilmente avevano il patronato della stirpe dei Winnili e tra cui primeggiava la dea Frigg/Freyja, e la nuova religione degli Asi capeggiati da Odino/Wotan. Si trattò quindi dell'evoluzione da una religione orientata al culto della fertilità a una che promuoveva i valori della guerra e la classe dei guerrieri. Non solo nelle abitudini dei Germani, ma in numerose altre culture il diritto di imporre il nome ad un'altra persona impone una serie di doveri che corrono nei due sensi, una sorta di padrinaggio.

Una conferma indiretta del mito di fondazione del popolo longobardo è forse contenuta in Giordane che, nel 551, parlò di una tribù chiamata "Vinoviloth" per la quale è stata ipotizzata una connessione con "Winnili". Stando pero allo stesso Giordane, a quel tempo i "Winnili" vivevano ancora in Scandinavia: si ritiene quindi comunemente che si trattasse di tutt'altro popolo, forse finnico.

Le testimonianze storiche e archeologiche

Le principali tappe della migrazione dei Longobardi

La coincidenza della Scandinavia meridionale con la patria originaria dei Longobardi è comunemente accettata dalla storiografia moderna. Tuttavia, l'assenza di ritrovamenti archeologici chiaramente riconducibili ai Longobardi in Scandinavia ha fatto pensare alcuni storici che le tarde testimonianze di Paolo Diacono e della Origo gentis Langobardorum siano in realtà scorrette, forse ispirate per analogia alla tradizione dei Goti (spesso assunti come esempio dagli altri popoli germanici). Alcune tracce rinvenute in Scandinavia sono però compatibili con una presenza longobarda nel I secolo aC, specie tenendo conto di similitudini tra la mitologia longobarda e quella nordica e tra il diritto e la società dei Longobardi e quella degli antichi popoli della Scandinavia.

Gli storici concordano anche nel collocare la prima tappa della loro migrazione verso sud, la "Scoringa", presso le coste sudoccidentali del Mar Baltico, identificandola forse con l'isola di Rügen, forse con la Zelanda o Lolland. Tale movimento migratorio avvenne con ogni probabilità ancora nel I secolo aC.

Superati gli ostacoli rappresentati dai Vandali e dagli Assipitti, i Longobardi ripresero la loro marcia verso sud e si stabilirono prima in "Mauringa", dove incrementarono le fila dei combattenti concedendo il rango di liberi a numerosi schiavi, e poi in "Golanda". L'identificazione di questi territori è ancora oggetto di dibattito tra gli storici, ma si tratta comunque di aree comprese tra le sponde del Baltico e il fiume Elba, dove sono state rinvenute tombe longobarde con corredi di armi, di ornamenti e di caratteristiche ceramiche, identici a quelli rinvenute nelle successive aree di migrazione dei Longobardi.

I contatti con i Germani occidentali e l'Impero romano

I popoli germanici nel I secolo, secondo la Germania di Tacito. I Longobardi erano stanziati presso il basso e medio Elba, in prossimità dei Popoli germanici occidentali (tanto da essere dallo stesso Tacito inseriti tra gli Herminones, appunto Germani occidentali).

Il primo contatto dei Longobardi con i Romani risale al 5 dC, durante la campagna germanica di Tiberio. Ricorda Velleio Patercolo (ca. 19 aC - dopo il 31 dC), che accompagnava la spedizione di Tiberio: "Fracti Langobardi, gens etiam Germana feritate ferocior; denique [...] ad quadringentesimum miliarium a Rheno usque ad flumen Albim, qui Semnonum Hermundurorumque fines praeterfluit, Romanus cum signis perductus exercitus. " -  " Furono vinti i Longobardi, popolo addirittura più feroce della ferocia germanica. Da ultimo [...] l'esercito romano con le insegne fu condotto fino a quattrocento miglia dal Reno, fino al fiume Elba, che scorre tra le terre dei Semnoni e degli Ermunduri." (Velleio Patercolo, Historiae romanae ad M. Vinicium libri duo, II, 106.2)

Dopo la sconfitta subita a opera delle legioni di Tiberio, i Longobardi si rifugiarono sulla riva destra dell'Elba e si raccolsero, insieme a tutti i Germani della regione non ancora sottomessi dall'esercito romano, sotto la guida di Maroboduo, re dei Marcomanni. A quest'epoca i Longobardi erano un popolo numericamente esiguo, tanto da dover entrare in più ampie coalizioni militari con i vicini popoli germanici occidentali, all'interno delle quali il valore militare consentì tuttavia loro di affermarsi contro i propri vicini, in particolare i Semnoni.

Pochi anni dopo si allearono però con Arminio, il re dei Cherusci vittorioso sulle legioni di Varo nella Battaglia di Teutoburgo, e nel 18 dC sconfissero lo stesso Maroboduo. L'apporto longobardo all'interno delle coalizioni germaniche del tempo fu tanto influente da consentire loro di restaurare sul trono dei Cherusci il re Italico, che era stato deposto dal suo popolo (47 dC).

La successiva menzione storica dei Longobardi si deve a Tacito, che nel suo saggio Germania (98 dC) conferma lo stanziamento alle foci dell'Elba, presso l'odierna Amburgo. Tacito considera i Longobardi una tribù degli Svevi (Germani occidentali) e ne sottolinea il valore, confermando indirettamente le tradizioni riportate da Paolo Diacono e dall'Origo: "Plurimis ac valentissimis nationibus cincti non per obsequium, sed proeliis ac periclitando tuti sunt." -  "Nonostante l'esiguità del loro numero e il fatto di essere circondati da nazioni molto potenti, derivano la propria sicurezza non dalla sottomissione o da tributi, ma dal valore in battaglia." (Publio Cornelio Tacito, Germania, XL)

Circa settant'anni dopo la Germania di Tacito, i Longobardi sono annoverati fra le popolazioni coinvolte nella prima campagna (167-169) di combattimenti fra le legioni romane di Marco Aurelio e numerosi popoli, tra cui spiccavano Marcomanni, Quadi, Vandali e Sarmati, che premevano ai confini dell'Impero romano. La guerra, che chiudeva un lungo periodo di pace, mise in evidenza il valore dei Longobardi, e al tempo stesso consentì loro di conoscere nuove regioni, di apprendere nuove tattiche militari e, soprattutto, di arricchirsi con le razzie. Nel 167 i Longobardi presero parte, insieme ad altre tribù della Germania settentrionale, all'incursione in Pannonia superiore. Una colonna di seimila armati tra Longobardi e Osii attraversò le terre dei Quadi, superò il Danubio e invase i territori dell'Impero. Si trattava soltanto dell'incursione di un reparto di guerrieri, poiché l'intera tribù avrebbe continuato a risiedere ancora per secoli sulle due sponde del basso corso dell'Elba. È possibile che la colonna longobarda avesse percorso parte della valle dell'Elba fino all'odierna Slesia, per proseguire poi in direzione del fiume Váh, che si trovava di fronte alla fortezza legionaria di Brigetio (presso l'attuale Gyor, in Ungheria). Qui però i guerrieri furono intercettati da alcune unità di fanteria e di cavalleria romane, che li sconfissero e li ricacciarono nelle loro terre, respinti ancor prima che potessero arrecare danni all'interno della provincia. In seguito a questi eventi anche i Longobardi, come altre dieci tribù, mandarono ambascerie a Iallo Basso, governatore della Pannonia superiore, per chiedere la pace; ottenutala, i messi tornarono nelle loro terre.

Dopo la sconfitta della coalizione marcomannica, la diminuzione del potere dei Longobardi seguita alla ritirata del 167 li portò probabilmente ad allearsi a popoli vicini più forti, come i Sassoni, mantenendosi comunque indipendenti. Rimasero presso l'Elba fino alla seconda metà del IV secolo, anche se un nuovo processo migratorio verso sud aveva già avuto avvio agli inizi del III.

La migrazione dall'Elba al Danubio

La risalita dell'Elba

Nel periodo successivo alle Guerre marcomanniche la storia dei Longobardi è sostanzialmente sconosciuta. L'Origo riferisce di un'espansione nelle regioni di "Anthaib", "Bainaib" e "Burgundaib"; in Paolo Diacono le medesime regioni sono indicate come "Anthab", "Banthaib" e "Vurgundaib". I tentativi di identificare con esattezza tali aree da parte della storiografia moderna non sono andate oltre allo stadio di ipotesi, ma è comunque certo che si tratta di spazi compresi tra il medio corso dell'Elba e l'attuale Boemia settentrionale. Si trattò di un movimento migratorio dilazionato nel corso di un lungo periodo, compreso tra il II e il IV secolo, e non costituì un processo unitario, quanto piuttosto una successione di piccole infiltrazioni in territori abitati contemporaneamente anche da altri popoli germanici.

Tra la fine del IV e l'inizio del V secolo, i Longobardi tornarono a darsi un re, Agilmondo, e dovettero confrontarsi con gli Unni, chiamati "Bulgari" da Paolo Diacono. Nonostante un'iniziale sconfitta e la morte sul campo dello stesso sovrano, secondo la tradizione longobarda riuscirono a non essere ridotti al rango di loro vassalli grazie al valore del nuovo re, Lamissone. La storiografia moderna, tuttavia, non è concorde sul credito che si deve accordare a questa ricostruzione: se è possibile che in effetti i Longobardi avessero conservato la propria indipendenza, o almeno un'autonomia, rispetto agli Unni, i nomi dei successori di Lamissone - Leti (da cui prese nome la prestigiosa stirpe regia dei Letingi), Ildeoc e Godeoc - sembrano indicare un'onomastica alla unna (unno -juks), e quindi una reale e forse non breve sottomissione. La battaglia vinta da Lamissone non sarebbe stato quindi che un fortunato episodio di rivolta al nuovo dominatore contro le genti germaniche, iraniche e slave dell'Europa centrale.

Sempre tra IV e V secolo ebbe avvio la trasformazione dell'organizzazione tribale longobarda verso un sistema guidato da un gruppo di duchi; questi comandavano proprie bande guerriere sotto un sovrano che, ben presto, si trasformò in un re vero e proprio. Il re, eletto come generalmente accadeva in tutti i popoli indoeuropei per acclamazione dal popolo in armi, aveva una funzione principalmente militare, ma godeva anche di un'aura sacrale (lo "heill", "carisma"); tuttavia, il controllo che esercitava sui duchi era generalmente debole.

Lo stanziamento sul medio Danubio

Nel 488-493 i Longobardi, guidati da Godeoc e poi da Claffone, "ritornarono" alla storia e, attraversata la Boemia e la Moravia, si insediarono nella "Rugilandia", le terre a ridosso del medio Danubio lasciate libere dai Rugi a nord del Norico dove, grazie alla fertilità della terra, poterono rimanere per molti anni; per la prima volta entrarono in un territorio marcato dalla civiltà romana. In quel momento, infatti, a causa delle lotte in Italia fra Odoacre e Teodorico, si era verificato un vuoto di potere a nord del Danubio: i Rugi che l'occupavano erano stati vinti da Odoacre e costretti a cercare rifugio tra gli Ostrogoti di Teodorico. All'epoca i Longobardi erano ormai diventati un vasto popolo che, nel corso dei suoi spostamenti, aveva inglobato o sottomesso diversi individui, gruppi e forse anche intere tribù, germaniche o di altra origine, incontrate durante la migrazione.

Giunti presso il Norico, i Longobardi ebbero conflitti con i nuovi vicini, gli Eruli, e finirono per stabilirsi nel territorio detto "Feld" (forse la Piana della Morava, situata a oriente di Vienna), molto probabilmente sotto pressione degli Eruli di cui sembrano essere stati tributari. Tuttavia, sotto il nuovo re, Tatone, sfidato e insultato dal re degli Eruli, Rodolfo, i Longobardi si sollevarono e li sterminarono, eliminando anche lo stesso Rodolfo (508). La sconfitta degli Eruli fu tale da causare la scomparsa di questo popolo dalle cronache, mentre i Longobardi accrebbero la loro ricchezza e importanza in modo considerevole. Il fatto che Rodolfo fosse legato a Teodorico, che l'aveva cresciuto e addestrato alla guerra secondo la pratica germanica del fosterage, è un indizio che questo cambio drammatico di fortune fu solo un episodio nel generale conflitto concentrico scatenato da Franchi e Bizantini contro gli Ostrogoti, e porta a ritenere che Tatone fosse un membro - di importanza crescente - di questa alleanza.

Verso il 510 Tatone fu ucciso dal nipote Vacone, che si autoproclamò re, anche se non riuscì ad estinguere del tutto i discendenti di Tatone: il nipote Idelchi riuscì a fuggire presso i Gepidi, che pensarono di servirsene come arma anti-longobarda, ma il loro progetto fu frustrato dalla straordinaria aggressività sia militare sia politica di Vacone. Il nuovo re infatti si sposò tre volte, la prima volta con la principessa turingia Ranicunda, la seconda con la principessa gepida Austrigusa e infine con la principessa erula Silinga, mettendo così a segno, di volta in volta, alleanze strategiche con Turingi, Gepidi e infine con ciò che restava degli Eruli. Il culmine della politica matrimoniale di Vacone fu però il matrimonio di sua figlia Visegarda con Teodeberto I, re dei Franchi (530). Morta poco dopo Visegarda, il legame fu reiterato col matrimonio tra la sorella più giovane di Visegarda, Valderada, con Teodebaldo, figlio del re franco.

Lo stanziamento in Pannonia

L'alleanza con Bisanzio e i Franchi permise a Vacone di mettere a frutto le convulsioni che scossero il regno ostrogoto, soprattutto dopo la morte del re Teodorico nel 526: sottomise così gli Svevi presenti nella regione e occupò la Pannonia I e Valeria (l'attuale Ungheria a ovest e a sud del Danubio). Nel 539 Vacone respinse un'offerta di alleanza (o piuttosto, visti gli estremi cui gli Ostrogoti erano giunti, una supplica) del re ostrogoto Vitige col pretesto della propria alleanza con l'imperatore Giustiniano: l'episodio conferma come in quel momento i Longobardi fossero una potenza sempre più integrata nello schieramento franco-bizantino.

Ormai saldamente al potere e disponendo delle risorse di un grandissimo territorio, che dalla Boemia raggiungeva ormai la Pannonia, Vacone era uno dei più importanti re d'Europa. Alla sua morte (540) il figlio Valtari era minorenne; quando, pochi anni dopo, morì, il suo reggente Audoino usurpò il trono ignorando i diritti dei Letingi. La situazione politica erodeva lo spazio di manovra dei Longobardi, col sempre crescente potere dei Franchi che, accordatisi con il nuovo re ostrogoto Totila, erano riusciti a occupare il Norico e a fare ulteriori passi in Italia settentrionale, mettendo così anche a rischio i piani di Giustiniano sull'Italia.

Audoino modificò il quadro delle alleanze del predecessore, accordandosi (nel 547 o nel 548) con Giustiniano per occupare, in Pannonia, la provincia Savense (il territorio che si stende fra i fiumi Drava e Sava) e parte del Norico, in modo da schierarsi nuovamente contro i vecchi alleati Franchi e Gepidi e consentire a Giustiniano di disporre di rotte di comunicazione sicure con l'Italia. Il nuovo stato di cose fu suggellato dal matrimonio di Audoino con una principessa turingia, figlia di un re (Ermanafrido) assassinato dai Franchi e di una principessa di stirpe amala, nipote di Teodorico. Il matrimonio con una principessa diretta discendente di Teodorico consentiva ad Audoino, un usurpatore, di sfruttare l'estremo prestigio sempre goduto dagli Amali e metteva in difficoltà il re degli Ostrogoti, Totila, che non poteva vantare connessioni di questo tipo.

Grazie anche al contributo militare di un modesto contingente bizantino e, soprattutto, dei cavalieri avari, i Longobardi affrontarono i Gepidi e li vinsero (551), mettendo fine alla lotta per la supremazia nell'area norico-pannonica. In quella battaglia si distinse il figlio di Audoino, Alboino. Ma uno strapotere dei Longobardi in quella zona non serviva gli interessi di Giustiniano e quest'ultimo, pur servendosi di contingenti longobardi anche molto consistenti contro Totila e perfino contro i Persiani, cominciò a favorire nuovamente i Gepidi. Audoino cercò di riavvicinarsi ai Franchi, ma quando morì e salì al trono Alboino i cattivi rapporti con i Gepidi, sempre più spalleggiati dai Bizantini, esplosero in un conflitto che terminò nel 565 con una sconfitta longobarda. Per risollevare le proprie sorti Alboino dovette stipulare un'alleanza con gli Avari, che però prevedeva in caso di vittoria sui Gepidi che tutto il territorio occupato dai Longobardi andasse agli Avari. Nel 567 un doppio attacco ai Gepidi (i Longobardi da ovest, gli Avari da est) si concluse con due cruente battaglie, entrambe fatali ai Gepidi, che scomparivano così dalla storia; i pochi superstiti vennero assorbiti dagli stessi Longobardi. Gli Avari si impossessavano di quasi tutto il loro territorio, salvo Sirmio e il litorale dalmata che tornarono ai Bizantini.

L'invasione dell'Italia

Sconfitti i Gepidi, la situazione era cambiata assai poco per Alboino, che al loro posto aveva dovuto lasciar insediare i non meno pericolosi Avari; dalla sanguinosa campagna non aveva ricavato nient'altro che gloria e i suoi vassalli, che vedevano gli Avari impossessarsi del bottino per cui avevano combattuto, cominciarono a mostrarsi poco convinti della sua guida. Decise quindi di lanciarsi verso le pianure dell'Italia, appena devastate dalla sanguinosa Guerra gotica e quindi meno pronte a una difesa a oltranza; per guardarsi le spalle si accordò ancora con gli Avari, che poterono stanziarsi nella Pannonia lasciata dai Longobardi (e quindi tagliare le linee di comunicazione di Bisanzio); in caso di ritorno dei precedenti proprietari, gli Avari avrebbero dovuto restituire la regione.

I domini longobardi dopo la morte di Alboino (572)
e le conquiste di Faroaldo e Zottone (575 circa)

Nel 568 i Longobardi, sempre guidati da Alboino, invasero l'Italia attraversando l'Isonzo. Insieme a loro c'erano contingenti di altri popoli, come i ventimila Sassoni che rimasero sempre in qualche modo separati dai Longobardi, fino a che lo scoppio di disaccordi sul loro diritto a non essere assorbiti non portò alla loro ritirata a nord delle Alpi, nel 573. Jörg Jarnut stima la consistenza numerica totale dei popoli in migrazione tra i cento e i centocinquantamila fra guerrieri, donne e non combattenti. Non esiste tuttavia pieno accordo tra gli storici a proposito del loro reale numero; altre stime parlano di non meno di trecentocinquantamila persone in totale.

Secondo la leggenda, riportata dall'Origo gentis Langobardorum e ripresa da Paolo Diacono ma storicamente infondata, i Longobardi mossero verso l'Italia su invito del generale bizantino Narsete, che avrebbe così cercato vendetta contro l'imperatore Giustino che l'aveva rimosso dal governo dell'Italia: "Narsis [...] legatos mox ad Langobardorum gentem dirigit, mandans, ut paupertina Pannoniae rura desererent et ad Italiam cunctis refertam divitiis possidendam venirent. Simulque multimoda pomorum genera aliarumque rerum species, quarum Italia ferax est, mittit, quatenus eorum ad veniendum animos possit inlicere. Langobardi laeta nuntia et quae ipsi praeoptabant gratanter suscipiunt de que futuris commodis animos adtollunt." -  "Narsete [...] inviò subito messaggeri alla gente longobarda, dicendo che lasciassero le povere terre della Pannonia e venissero a prendere possesso dell'Italia, ricolma di ogni ricchezza. E insieme, per invogliarli a venire, manda loro molti tipi di frutti e di altri prodotti di cui l'Italia è generosa. I Longobardi accolgono con gioia il lieto messaggio, che desideravano più che tutto, e si esaltano al pensiero dei beni futuri." (Paolo Diacono, Historia Langobardorum, II, 5)

La resistenza bizantina fu debole; le ragioni della facilità con la quale i Longobardi sottomisero l'Italia sono tuttora oggetto di dibattito storico. All'epoca la consistenza numerica della popolazione era al suo minimo storico, dopo le devastazioni seguite alla Guerra gotica; inoltre i Bizantini, che dopo la resa di Teia, l'ultimo re degli Ostrogoti, avevano ritirato le migliori truppe e i migliori comandanti dall'Italia perché impegnati contemporaneamente anche contro Avari e Persiani, si difesero solo nelle grandi città fortificate. Gli Ostrogoti che erano rimasti in Italia verosimilmente non opposero strenua resistenza, vista la scelta fra cadere in mano ai Longobardi, dopotutto Germani come loro, o restare in quelle dei Bizantini.

La prima città a cadere nelle mani di Alboino fu Cividale del Friuli (allora "Forum Iulii"), dove il sovrano insediò suo nipote Gisulfo come duca. Poi cedettero, in rapida successione, Aquileia, Vicenza, Verona e quasi tutte le altre città dell'Italia nordorientale. Nel settembre 569 aprirono le porte agli invasori Milano e Lucca e nel 572, dopo tre anni di assedio, cadde anche Pavia; Alboino ne fece la capitale del suo regno. Negli anni successivi i Longobardi proseguirono la loro conquista discendendo la penisola fino all'Italia centro-meridionale, dove Faroaldo e Zottone, forse con l'acquiescenza di Bisanzio, conquistarono gli Appennini centrali e meridionali, divenendo rispettivamente i primi duchi di Spoleto e di Benevento. I Bizantini conservarono alcune zone costiere dell'Italia continentale: l'Esarcato (la Romagna, con capitale Ravenna), la Pentapoli (comprendenti i territori costieri delle cinque città di Ancona, Pesaro, Fano, Senigallia e Rimini) e gran parte del Lazio (inclusa Roma) e dell'Italia meridionale (le città della costa campana, Salerno esclusa, la Puglia e la Calabria).

Inizialmente il dominio longobardo fu molto duro, animato da spirito di conquista e saccheggio: un atteggiamento ben diverso, quindi, da quello comunemente adottato dai barbari foederati, per più lungo tempo esposti all'influenza latina. Se nei primi tempi si registrarono anche veri e propri massacri, già verso la fine del VI secolo l'atteggiamento dei Longobardi si addolcì, anche in seguito all'avvio del processo di conversione dall'arianesimo al credo niceno della Chiesa di Roma.

La fondazione del regno longobardo

L'assassinio a Verona di Alboino re dei Longobardi nel 572
di Charles Landseer (1856)

Con l'irruzione dei Longobardi, l'Italia si trovò divisa tra questi e i Bizantini, secondo confini che nel corso del tempo subirono notevoli oscillazioni. I nuovi venuti si ripartirono tra la Langobardia Major (l'Italia settentrionale e il Ducato di Tuscia) e Langobardia Minor (i ducati di Spoleto e Benevento), mentre la terra rimasta sotto controllo bizantino ("Romània") aveva come fulcro l'Esarcato di Ravenna. Dopo il Ducato del Friuli, creato nel 569 dallo stesso Alboino, altri ducati furono creati nelle principali città del Regno longobardo: la soluzione fu dettata da esigenze in primo luogo militari (i duchi erano prima di tutto comandanti), ma gettò il seme della strutturale debolezza del potere regio longobardo. Nel 572, dopo la capitolazione di Pavia e la sua elevazione a capitale del regno, Alboino cadde vittima di una congiura ordita a Verona dalla moglie Rosmunda e da alcuni guerrieri.

Il VI secolo

Più tardi nello stesso anno i duchi acclamarono re Clefi. Il nuovo sovrano estese i confini del regno, completando la conquista della Tuscia, e tentò di continuare coerentemente la politica di Alboino, eliminando l'antica aristocrazia latina per acquisirne terre e patrimoni. Clefi fu ucciso, forse su istigazione dei Bizantini, nel 574; i duchi non nominarono un altro re e per un decennio regnarono da sovrani assoluti nei rispettivi ducati (Periodo dei Duchi).

Nel 584 i duchi, davanti alla chiara necessità di una forte monarchia centralizzata per far fronte alla pressione dei Franchi e dei Bizantini, incoronarono re Autari e gli consegnarono metà dei loro beni. Autari riorganizzò i Longobardi e il loro insediamento in forma stabile in Italia e assunse il titolo di Flavio, con il quale intendeva proclamarsi anche protettore di tutti i romani. Nel 585 respinse, nell'attuale Piemonte, i Franchi e indusse i Bizantini a chiedere, per la prima volta, una tregua. Nel 590 sposò la principessa bavara Teodolinda, di sangue letingio.

Autari morì in quello stesso 590 e a succedergli fu chiamato il duca di Torino, Agilulfo, che sposò a sua volta Teodolinda; a sceglierlo come nuovo marito e sovrano, secondo la leggenda, fu la stessa giovane vedova. L'influenza della regina sulla politica di Agilulfo fu notevole e le decisioni principali vengono attribuite a entrambi.

Teodolinda in una miniatura delle Cronache di Norimberga

Agilulfo e Teodolinda garantirono i confini del regno attraverso trattati di pace con Franchi e Avari; le tregue con i Bizantini, invece, furono sistematicamente violate e il decennio fino al 603 fu segnato da una marcata ripresa dell'avanzata longobarda. Al nord Agilulfo occupò, tra le varie città, anche Parma, Piacenza, Padova, Monselice, Este, Cremona e Mantova, mentre anche a sud i duchi di Spoleto e Benevento ampliavano i domini longobardi.

I domini longobardi alla morte di Agilulfo (616)

Il rafforzamento dei poteri regi avviato da Autari prima e Agilulfo poi segnò anche il passaggio a una nuova concezione territoriale basato sulla stabile divisione del regno in ducati. Ogni ducato era guidato da un duca, non più solo capo di una fara ma funzionario regio, depositario dei poteri pubblici e affiancato da funzionari minori (sculdasci e gastaldi). Con questa nuova organizzazione il Regno longobardo avviò la sua evoluzione da occupazione militare a Stato. L'inclusione dei vinti Romanici era un passaggio inevitabile e Agilulfo compì alcune scelte simboliche volte ad accreditarlo presso la popolazione latina: per esempio, si definì Gratia Dei rex totius Italiae ("Per grazia di Dio, re dell'Italia intera") e non più soltanto Rex Langobardorum ("Re dei Longobardi"). In questa direzione si inscrive anche la forte pressione - svolta soprattutto da Teodolinda, che era in rapporti epistolari con lo stesso papa Gregorio Magno - verso la conversione al cattolicesimo dei Longobardi, fino a quel momento ancora in gran parte pagani o ariani, e la ricomposizione dello Scisma tricapitolino.

Paolo Diacono esalta la sicurezza finalmente raggiunta, dopo gli sconvolgimenti dell'invasione e del Periodo dei Duchi, sotto il regno di Autari e Teodolinda: "Erat hoc mirabile in regno Langobardorum: nulla erat violentia, nullae struebantur insidiae; nemo aliquem iniuste angariabat, nemo spoliabat; non erant furta, non latrocinia; unusquisque quo libebat securus sine timore." - "C'era questo di meraviglioso nel regno dei Longobardi: non c'erano violenze, non si tramavano insidie; nessuno opprimeva gli altri ingiustamente, nessuno depredava; non c'erano furti, non c'erano rapine; ognuno andava dove voleva, sicuro e senza alcun timore." (Paolo Diacono, Historia Langobardorum, III, 16)

Il VII secolo

Alla morte di Agilulfo, nel 616, il trono passò al figlio minorenne Adaloaldo. Teodolinda, reggente e detentrice effettiva del potere anche dopo l'uscita dalla minorità del figlio, proseguì la sua politica filo-cattolica e di pacificazione con i Bizantini, suscitando però una sempre più decisa opposizione tra i Longobardi; il conflitto esplose nel 624 e fu capeggiato da Arioaldo, che nel 625 depose Adaloaldo e si insediò al suo posto. Il "colpo di Stato" aprì una stagione di conflitti tra le due componenti religiose maggioritarie nel regno, dietro alle quali si celava l'opposizione tra i fautori di una politica di pacificazione con i Bizantini e di integrazione con i "Romanici" (Bavaresi) e i propugnatori di una politica più aggressiva ed espansionista (nobiltà ariana). Il regno di Arioaldo fu travagliato da questi contrasti, oltre che dalle minacce esterne.

La Corona Ferrea VII secolo Ø 15 cm
Duomo di Monza - Cappella di Teodolinda

Il manufatto, che secondo la tradizione è modellato in oro e pietre intorno a una lamina ottenuta dal ferro di un chiodo della crocifissione di Gesù, è stato utilizzato per le incoronazioni dei re d'Italia fino al XIX secolo.

Nel 636 ad Arioaldo successe l'ariano Rotari, duca di Brescia, che regnò fino al 652 e conquistò quasi tutta l'Italia settentrionale, occupando Oderzo e la Liguria. La sua memoria è legata al celebre Editto, promulgato nel 643, che codificava le norme germaniche, ma introduceva anche significative novità (come la sostituzione della faida con il guidrigildo).

I domini longobardi alla morte di Rotari (652)

Nel 653, con Ariperto I, ritornava sul trono la dinastia Bavarese, segno del prevalere della fazione cattolica su quella ariana. Ariperto si segnalò per la dura repressione dell'arianesimo; alla sua morte (661) divise il regno tra i due figli, Pertarito e Godeperto. L'inusuale partizione entrò immediatamente in crisi: tra i fratelli si accese un conflitto che coinvolse anche il duca di Benevento, Grimoaldo, che scalzò entrambi e ottenne l'investitura dai nobili longobardi. Grimoaldo favorì l'opera di integrazione tra le diverse componenti del regno ed esercitò i poteri sovrani con una pienezza fino ad allora mai raggiunta dai suoi predecessori.

Alla morte di Grimoaldo, nel 671, Pertarito rientrò in Italia e sviluppò una politica in linea con la tradizione della sua dinastia. Ottenne la pace con i Bizantini e rintuzzò una prima ribellione del duca di Trento, Alachis, che però tornò a sollevarsi, coalizzando intorno a sé gli oppositori alla politica filo-cattolica, alla morte di Pertarito, nel 688. Il suo figlio e successore Cuniperto soltanto nel 690 riuscì a venire a capo della ribellione, uccidendo Alachis. La crisi era figlia della divergenza che vedeva contrapposte le due regioni della Langobardia Major: da un lato le regioni occidentali ("Neustria"), fedeli ai sovrani Bavaresi, filo-cattoliche e sostenitrici della politica di pacificazione con Bisanzio e Roma; dall'altra le regioni orientali ("Austria"), che non si rassegnavano a una mitigazione del carattere guerriero del popolo.

L'VIII secolo

La morte di Cuniperto, nel 700, aprì di una grave crisi dinastica, con scontri civili, reggenze effimere e ribellioni; solo nel 702 Ariperto II riuscì a sconfiggere Ansprando e Rotarit, che gli si opponevano, e poté sviluppare una politica di pacificazione. Nel 712 Ansprando, rientrato dall'esilio, spodestò Ariperto, ma morì dopo appena tre mesi di regno.

Sul trono salì Liutprando, il figlio di Ansprando già associato al potere; il suo regno fu il più lungo di tutti quelli dei Longobardi in Italia, che sotto di lui toccarono l'apogeo della loro parabola storica. Il suo popolo gli riconobbe audacia, valor militare e lungimiranza politica, ma a questi valori tipici della stirpe germanica (elementi in declino dell'identità longobarda, che lo stesso sovrano tentò di rivitalizzare) Liutprando, re di una nazione ormai in stragrande maggioranza cattolica, unì quelle di piissimus rex.

Testimonianza dell'ammirazione che gli tributarono i Longobardi è il panegirico tessuto da Paolo Diacono nel descriverne la figura: "Fuit vir multae sapientiae, consilio sagax, pius admodum et pacis amator, belli praepotens, delinquentibus clemens, castus, pudicus, orator pervigil, elemosinis largus, litterarum quidem ignarus, sed philosophis aequandus, nutritor gentis, legum augmentator." -  "Fu uomo di molta saggezza, accorto nel consiglio, di grande pietà e amante della pace, fortissimo in guerra, clemente verso i colpevoli, casto, virtuoso, instancabile nel pregare, largo nelle elemosine, ignaro sì di lettere ma degno di essere paragonato ai filosofi, padre della nazione, accrescitore delle leggi." (Paolo Diacono, Historia Langobardorum, VI, 58)

Liutprando si alleò con i Franchi, attraverso un patto coronato dalla simbolica adozione del giovane Pipino il Breve, e con gli Avari, ai confini orientali: una doppia garanzia contro i potenziali nemici esterni che gli consentì di avere le mani libere nello scacchiere italiano. Nel 726 si impadronì di molte città dell'Esarcato e della Pentapoli, atteggiandosi a protettore dei cattolici; per non inimicarsi il papa, tuttavia, rinunciò all'occupazione di Sutri, che restituì non all'imperatore ma "agli apostoli Pietro e Paolo". Questa donazione, nota come Donazione di Sutri, fornì il precedente legale per attribuire un potere temporale al papato, che avrebbe infine prodotto lo Stato della Chiesa. Un momento di forte tensione si ebbe quando Liutprando mise l'assedio a Roma: il papa chiese aiuto a Carlo Martello che, intervenendo diplomaticamente, riuscì a far desistere il sovrano longobardo (739). Negli anni successivi Liutprando portò anche i ducati di Spoleto e di Benevento sotto la sua autorità: mai nessun re longobardo aveva ottenuto simili risultati. La solidità del suo potere si fondava, oltre che sul carisma personale, anche sulla riorganizzazione delle strutture del regno che aveva intrapreso fin dai primi anni. Il nuovo papa Zaccaria ottenne nuove cessioni territoriali da Liutprando, che nel 742 trasferì al pontefice diverse terre dell'ex "Ducato romano".

Dopo la morte di Liutprando (744) una rivolta destituì suo nipote Ildebrando e insediò al suo posto il duca del Friuli, Rachis, che tuttavia si dimostrò un sovrano debole. Cercò sostegno presso la piccola nobiltà e i Romanici, inimicandosi la base dei Longobardi che lo costrinse presto a tornare all'offensiva e ad attaccare la Pentapoli. Il papa lo convinse a desistere e il suo prestigio crollò; i duchi elessero come nuovo re suo fratello, Astolfo, e Rachis si ritirò a Montecassino.

La massima estensione dei domini longobardi
dopo le conquiste di Astolfo (751)

Astolfo, espressione della corrente più aggressiva dei duchi, intraprese una politica energica ed espansionistica e all'inizio colse notevoli successi, culminati nella conquista di Ravenna (751); le sue campagne portarono i Longobardi a un dominio quasi completo dell'Italia, con l'occupazione (750-751) anche dell'Istria, di Ferrara, di Comacchio e di tutti i territori a sud di Ravenna fino a Perugia, mentre nella Langobardia Minor riuscì a imporre il suo potere anche a Spoleto e, indirettamente, a Benevento. Proprio nel momento in cui Astolfo pareva ormai avviato a vincere tutte le opposizioni su suolo italiano, Pipino il Breve, nuovo re dei Franchi, si accordò con papa Stefano II che, in cambio della solenne unzione regale, ottenne la discesa in Italia dei Franchi. Nel 754 l'esercito longobardo fu sgominato dai Franchi e Astolfo dovette accettare consegne di ostaggi e cessioni territoriali. Due anni dopo riprese la guerra contro il papa, che richiamò i Franchi. Sconfitto di nuovo, Astolfo dovette accettare patti molto più duri: Ravenna passò al papa, incrementando il nucleo territoriale del Patrimonio di San Pietro e il re dovette accettare una sorta di protettorato.

Alla morte di Astolfo, nel 756, Rachis uscì dal monastero e tentò, inizialmente con qualche successo, di ritornare sul trono. Si oppose Desiderio, duca di Tuscia, che riuscì a ottenere l'appoggio del papa e dei Franchi. I Longobardi gli si sottomisero e Rachis ritornò a Montecassino. Desiderio riaffermò il controllo longobardo sul territorio facendo di nuovo leva sui Romanici, creando una rete di monasteri governati da aristocratici longobardi e arrivando a patti con il nuovo papa, Paolo I. Sviluppò una disinvolta politica matrimoniale sposando una figlia al duca di Baviera, Tassilone, e un'altra al futuro Carlo Magno.

La caduta del regno

Nel 771 la morte del fratello Carlomanno lasciò mano libera a Carlo Magno che, ormai saldo sul trono, ripudiò la figlia di Desiderio. L'anno successivo un nuovo papa, Adriano I, del partito avverso a Desiderio, pretese la consegna di alcuni territori promessi e mai ceduti da Desiderio e portandolo così a riprendere la guerra contro le città della Romagna. Carlo Magno venne in aiuto del papa e tra il 773 e il 774 scese in Italia e conquistò la capitale del regno, Pavia.

Il figlio di Desiderio, Adelchi, trovò rifugio presso i Bizantini; Desiderio e la moglie furono deportati in Francia. Carlo si fece chiamare da allora Gratia Dei rex Francorum et Langobardorum, realizzando un'unione personale dei due regni, mantenendo le Leges Langobardorum ma riorganizzando il regno sul modello franco, con conti al posto dei duchi. "Così finì l'Italia longobarda, e nessuno può dire se fu, per il nostro Paese, una fortuna o una disgrazia. Alboino e i suoi successori erano stati degli scomodi padroni, più scomodi di Teodorico, finché erano rimasti dei barbari accampati su un territorio di conquista. Ma oramai si stavano assimilando all'Italia e avrebbero potuto trasformarla in una Nazione, come i Franchi stavano facendo in Francia. Ma in Francia non c'era il Papa. In Italia, sì."

Dopo il 774 - la Langobardia Minor

I domini longobardi dell'Italia centro-meridionale (quella che si chiamava Langobardia Minor, rispetto a quella più vasta del settentrione), subirono destini differenti. Il Ducato di Spoleto cadde immediatamente in mano franca, mentre quello di Benevento si mantenne, invece, autonomo. Il duca Arechi II, al potere al momento del crollo del regno, aspirò inutilmente al trono reale; assunse poi il titolo di principe.

Nei secoli seguenti gli Stati longobardi del meridione (dal Principato di Benevento si staccarono presto il Principato di Salerno e la Signoria di Capua) furono travagliati da lotte intestine e da contrasti con le potenze maggiori (il Sacro Romano Impero e l'Impero bizantino), con i vicini ducati campani della costa e con i Saraceni. Vennero infine (XI secolo) assorbiti dai Normanni, come tutta l'Italia meridionale.

L'Italia intorno all'anno 1000
alla vigilia dell'arrivo dei Normanni

Benevento, conquistata da Roberto il Guiscardo nel 1053, entrò a far parte dello Stato pontificio, anche se continuarono a essere nominati duchi longobardi (direttamente dal papa) fino al 1081. Sempre dopo il Mille, il Principato di Salerno, sotto il principe Guaimario IV, si espanse ed inglobò quasi tutta l'Italia meridionale continentale (1050); tuttavia anche questo principato divenne normanno con l'arrivo di Roberto il Guiscardo, che sposò Sichelgaita (figlia di Guaimario IV). Nel 1139 il principato (che fu anche chiamato "longobardo-normanno") evolse nel Regno di Sicilia (durato - con vari nomi - sette secoli, fino al 1861).

La persistenza di Stati autonomi permise ai Longobardi di salvaguardare una propria identità culturale e mantenne gran parte dell'Italia del Sud nell'orbita culturale occidentale, anziché in quella bizantina.

Società

I Longobardi si definivano "gens Langobardorum": una gens, quindi, ovvero un gruppo di individui che aveva ben chiara la consapevolezza di formare una comunità e convinto di condividere un'ascendenza comune. Questo, tuttavia, non significava che i Longobardi fossero un gruppo etnicamente omogeneo; durante il processo migratorio inclusero al loro interno individui isolati o frammenti di popoli incontrati durante i loro spostamenti, soprattutto attraverso l'inserimento di guerrieri. Per accrescere il numero di uomini in armi ricorsero spesso all'affrancamento degli schiavi. La maggior parte degli individui via via inclusi era probabilmente composta da elementi germanici, ma non mancavano origini etniche diverse (per esempio, Avari del ceppo turco) e perfino Romani del Norico e della Pannonia.

I Longobardi erano un popolo in armi guidato da un'aristocrazia di cavalieri e da un re guerriero. Il titolo non era dinastico ma elettivo: l'elezione si svolgeva nell'ambito dell'esercito, che fungeva da assemblea degli uomini liberi (arimanni). Alla base della piramide sociale c'erano i servi, che vivevano in condizioni di schiavitù; a livello intermedio si trovavano gli aldii, che avevano limitata libertà ma una certa autonomia in ambito economico. Al momento dell'invasione dell'Italia (568), il popolo era suddiviso in varie fare, raggruppamenti familiari con funzioni militari che ne garantivano la coesione durante i grandi spostamenti. A capo di ogni fara c'era un duca.

In Italia le fare si insediarono sul territorio ripartendosi tra gli insediamenti fortificati già esistenti e una prima fase respinsero ogni commistione con la popolazione di origine latina (i Romanici), arroccandosi a difesa dei propri privilegi. Minoranza, coltivarono i tratti che li distinguevano sia dai loro avversari Bizantini sia dai Romanici: la lingua germanica, la religione pagana o ariana, il monopolio del potere politico e militare. L'irruzione dei Longobardi sulla scena italiana sconvolse i rapporti sociali della Penisola. La maggior parte del ceto dirigente latino (i nobiles) fu uccisa o scacciata, mentre i pochi scampati dovettero cedere ai nuovi padroni un terzo dei loro beni, secondo il procedimento dell'hospitalitas.

Anche una volta insediati in Italia, i Longobardi conservarono il valore attribuito all'assemblea del popolo in armi, il "Gairethinx", che decideva l'elezione del re e deliberava sulle scelte politiche, diplomatiche, legislative e giudiziarie più importanti. Con il radicarsi dell'insediamento in Italia, il potere divenne territoriale, articolato in ducati. Gli sculdasci governavano i centri più piccoli, mentre i gastaldi di nomina regia amministravano la porzione dei beni dei Longobardi assegnati, a partire dall'elezione di Autari (584), al sovrano.

Una volta stabilizzata la presenza in Italia, nella struttura sociale del popolo iniziarono a manifestarsi segnali di evoluzione, registrati soprattutto nell'Editto di Rotari (643). L'impronta guerriera, che portava con sé elementi di collettivismo militaresco, lasciò progressivamente il passo a una società differenziata, con una gerarchia legata anche alla maggiore o minore ampiezza delle proprietà fondiarie. L'Editto lascia intendere che, anziché in fortificazioni più o meno provvisorie, i Longobardi vivessero ormai nelle città, nei villaggi o - caso forse più frequente - in fattorie indipendenti (curtis). Con il passare del tempo anche i tratti segregazionisti andarono stemperandosi, soprattutto con il processo di conversione al cattolicesimo avviato dalla dinastia Bavarese. Il VII secolo fu segnato da questo progressivo avvicinamento, parallelo a un più ampio rimescolamento delle gerarchie sociali. Tra i Longobardi vi fu chi discese fino ai gradini più bassi della scala economico-sociale, mentre al tempo stesso cresceva il numero dei Romanici capaci di conquistare posizioni di prestigio. A conferma della rapidità del processo c'è anche l'uso esclusivo della lingua latina in ogni scritto.

Sebbene le leggi rotariane proibissero, in linea di principio, i matrimoni misti, era tuttavia possibile per un longobardo sposare un schiava, anche romanica, purché emancipata prima delle nozze. Gli ultimi re longobardi, come Liutprando o Rachis, intensificarono gli sforzi d'integrazione, presentandosi sempre più come re d'Italia anziché re dei Longobardi. Le novità legislative introdotte dallo stesso Liutprando mostrano anche il ruolo sempre più rilevante rivestito da nuove categorie, come quelle dei mercanti e degli artigiani. Con l'VIII secolo, i Longobardi erano in tutto adattati agli usi e ai costumi della maggioranza della popolazione del loro regno.

Religione

Gli indizi contenuti nel mito lasciano intuire che inizialmente, prima del passaggio dalla Scandinavia alla costa meridionale del Mar Baltico, i Longobardi veneravano gli dei della stirpe Vanir; in seguito, a contatto con altre popolazione germaniche, adottarono il culto degli Æsir: un'evoluzione che segnava il passaggio dall'adorazione di divinità femminili, legate alla fertilità e alla terra, al culto di dei maschili di ispirazione guerriera. In seguito, durante lo stanziamento tra Norico e Pannonia, si avviò il processo di conversione al cristianesimo. L'adesione alla nuova religione fu, almeno inizialmente, spesso superficiale (tracce dei culti pagani sopravvissero a lungo) se non strumentale. Ai tempi di Vacone (intorno agli anni quaranta del VI secolo), alleato dei Bizantini cattolici, ci fu un avvicinamento al cattolicesimo; appena un paio di decenni dopo Alboino, progettando la calata in Italia, scelse invece l'arianesimo, al fine di ottenere l'appoggio dei Goti ariani contro gli stessi Bizantini. Queste conversioni "politiche" riguardavano esclusivamente il sovrano e pochi altri esponenti dell'aristocrazia; la massa del popolo rimaneva fedele agli antichi culti pagani.

In Pannonia i Longobardi vennero in contatto con altri popoli nomadi e guerrieri, tra i quali i Sarmati; questa stirpe, indoeuropea di lingua iranica, aveva subito influssi culturali di origine orientale. Da loro i Longobardi trassero, in ambito simbolico-religioso, l'usanza delle "pertiche": lunghe aste sormontate da figure di uccelli (particolarmente frequente la colomba), derivate dalle insegne portate in battaglia. I Longobardi ne fecero un uso funerario: quando una persona moriva lontano da casa o risultava dispersa in battaglia, la famiglia compensava l'impossibilità di celebrarne i funerali piantando nel terreno una di queste aste, con il becco dell'uccello orientato verso il punto in cui si credeva fosse morto il famigliare.

Giunti in Italia, il processo di conversione al cattolicesimo si intensificò al punto da indurre Autari a vietare espressamente ai Longobardi di far battezzare con rito cattolico i propri figli. Anche in questo caso, più che mossa da interessi spirituali, la misura mirava evitare spaccature politiche tra i Longobardi e a scongiurare i pericoli di assimilazione da parte dei Romanici. Già con il suo successore Agilulfo, tuttavia, l'opposizione al cattolicesimo si fece meno radicale, soprattutto per influsso di Teodolinda, cattolica. Dopo un iniziale appoggio allo Scisma tricapitolino, la regina (che era in corrispondenza con papa Gregorio Magno) favorì sempre più l'ortodossia cattolica. Un segnale decisivo fu il battesimo cattolico impartito, nel 603, all'erede al trono Adaloaldo.

Rimaneva comunque costante lo scarso coinvolgimento spirituale di gran parte dei Longobardi nelle controversie religiose, tanto che la contrapposizione tra cattolici, da un lato, e pagani, ariani e tricapitolini, dall'altro, assunse ben presto valenze politiche. I sostenitori dell'ortodossia romana, capeggiati dalla dinastia Bavarese, erano politicamente i fautori di una maggior integrazione con i Romanici, accompagnata da una strategia di conservazione dello status quo con i Bizantini. Ariani, pagani e tricapitolini, radicati soprattutto nelle regioni nord-orientali del regno ("Austria"), si facevano invece interpreti della conservazione dello spirito guerriero e aggressivo del popolo.

Sarcofago di Teodolinda - 1308
Cappella di Teodolinda
Duomo di Monza

Così, alla fase "filo-cattolica" di Agilulfo, Teodolinda e Adaloaldo seguì, dal 626 (ascesa al trono di Arioaldo) al 690 (sconfitta definitiva dell'antire Alachis), una lunga fase di ripresa dell'arianesimo, incarnato da sovrani militarmente aggressivi come Rotari e Grimoaldo. Tuttavia la tolleranza verso i cattolici non venne mai messa in discussione dai vari re, salvaguardata anche dall'influente apporto delle rispettive regine (in gran parte scelte, per motivi di legittimazione dinastica, tra le principesse cattoliche della dinastia Bavarese).

Con il progredire dell'integrazione con i Romanici, il processo di conversione al cattolicesimo divenne di massa, soprattutto grazie alla sempre più stabili convivenza sullo stesso territorio e, al tempo stesso, del progressivo allontanamento delle province italiane dall'Impero bizantino (veniva così meno uno dei principali motivi politico-diplomatici di avversione al cattolicesimo). Ancora nel VII secolo, nel ducato di Benevento, si ha notizia di una diffusione ancora molto ampia, almeno nell'ambito aristocratico - nominalmente convertito - di riti che comprendevano sacrifici animali o idolatria (per lo più di vipere) e competizioni rituali di carattere chiaramente germanico, che venivano praticati in piccoli boschi sacri che daranno origine alle leggende sul noce di Benevento.

L'intero popolo divenne, almeno nominalmente, cattolico sul finire del regno di Cuniperto (morto nel 700), e i suoi successori (su tutti, Liutprando) fecero coscientemente leva sull'unità religiosa (cattolica) di Longobardi e Romanici per ribadire il loro ruolo di rex totius Italiae. All'interno del ceto guerriero, particolarmente diffusa era la devozione all'Arcangelo Michele, il "guerriero di Dio", al quale furono intitolate numerose chiese.

Diritto

Il diritto longobardo, a lungo tramandato oralmente nelle Cawarfidae, iniziò a svilupparsi realmente a partire dal regno di Autari, per poi trovare una prima sistematizzazione con l'Editto di Rotari, promulgato nel 643. Accanto alla conferma della personalità della legge (il diritto longobardo era cioè valido per i soli Longobardi, mentre i Romanici rimanevano soggetti al diritto romano), l'Editto introdusse significative novità, come la limitazione della pena capitale e della faida, sostituita con risarcimenti in denaro (guidrigildo). Il corpus delle leggi longobarde fu in seguito ampliato e aggiornato, evolvendosi verso una maggiore integrazione con il diritto romano e con quello canonico, da diversi sovrani (particolarmente estesa fu l'azione di Liutprando).

Tra le figure fondamentali del diritto civile longobardo spicca il mundio, ovvero il diritto di protezione-tutela accordato al capo di una fara e che portava tutti gli altri componenti del gruppo famigliare (in particolare le donne) a essere sottoposti alla sua autorità. Dal punto di vista penale, invece, particolare rilievo aveva il guidrigildo: sostituendosi alla faida come strumento di riparazione delle offese personali, questo istituto giuridico era regolato da una minuziosa elencazione, più volte rimaneggiata nel tempo, dell'esatto ammontare in denaro che doveva corrispondere ai danni arrecati. Particolarmente significativo, poi, l'estrema rarità del ricorso alla pena di morte tra i Longobardi, che ne ritenevano passibili soltanto i più gravi reati di tradimento (regicidio, congiura contro il re, sedizione, diserzione, uxoricidio).

Lingua

I Longobardi parlavano originariamente una lingua germanica; probabilmente apparteneva al gruppo orientale ed era affine al gotico. Non esistono testimonianze scritte del longobardo, se non alcune parole sporadicamente contenute in testi giuridici, come l'Editto di Rotari, o storici (soprattutto l'Historia Langobardorum di Paolo Diacono).

L'uso del longobardo declinò rapidamente dopo l'insediamento in Italia, soppiantato fin dai primi documenti ufficiali dal latino. Anche nell'uso quotidiano l'idioma germanico, parlato da un'esigua minoranza della popolazione italiana dell'epoca, si perse nel volgere di pochi decenni. Non si trattò tuttavia di una dissoluzione nel nulla; anzi, l'influsso germanico ha significativamente contribuito al passaggio dal latino volgare ai vari volgari italiani, che si sarebbero poi evoluti nei vari dialetti e nella stessa lingua italiana. La prima attestazione del volgare italiano, l'Indovinello veronese, risale alla fine dell'VIII secolo.

Letteratura

Non ci sono pervenute testimonianze originali della cultura letteraria germanica, propria dei Longobardi. Il patrimonio delle saghe, tramandato oralmente, è andato perduto, eccezion fatta per quanto conservato nel testo, redatto in latino, della Origo gentis Langobardorum, conservato in alcuni manoscritti delle Leges Langobardorum e quanto tramandato in forma di aneddoti, o addirittura ridicolizzato come "ridiculam fabulam", da Paolo Diacono.

In seguito all'integrazione tra Longobardi e Romanici, avviata con decisione a partire dagli inizi del VII secolo, risulta difficile isolare i contributi propri dell'una o dell'altra tradizione nella produzione letteraria dell'Alto Medioevo italiano (inclusi gli anni successivi alla caduta del Regno longobardo, nel 774, che non comportò la sparizione del popolo). Esemplare di questa commistione è la più alta figura della cultura longobarda: Paolo Diacono. Originario del Ducato del Friuli, orgogliosamente longobardo, adottò tuttavia nelle sue opere (su tutte, la capitale Historia Langobardorum) la lingua latina.

Arte

Durante la lunga fase nomade (I-VI secolo), i Longobardi svilupparono un linguaggio artistico che aveva molti tratti in comune con quello delle altre popolazioni germaniche dell'Europa centro-settentrionale. Popolo nomade e guerriero, non poté dedicarsi allo sviluppo di tecniche artistiche che presupponessero un insediamento stanziale e l'uso di materiali di difficile trasporto. Nelle loro tombe troviamo quasi solo armi e gioielli, che rappresentano l'essenza della creazione artistica materialmente eseguita da artefici longobardi. La situazione si modificò con l'insediamento in Pannonia prima e, soprattutto, in Italia poi, quando i Longobardi vennero a contatto con l'influsso classico e si avvalsero di maestranze romaniche, quando non addirittura di artisti bizantini. Il risultato, al di là dell'appartenenza etnica degli artisti, è stata comunque una produzione artistica per molti versi di sintesi, sviluppata con tratti anche originali durante l'epoca del regno longobardo lungo l'intera Penisola.

Architettura

L'attività architettonica sviluppata in Langobardia Major è andata in gran parte perduta, per lo più a causa di successive ricostruzioni degli edifici sacri e profani eretti tra VII e VIII secolo. A parte il Tempietto longobardo di Cividale del Friuli, rimasto in gran parte integro, altre costruzioni a Pavia (il Palazzo reale, la basilica di San Pietro in Ciel d'Oro), a Monza (la Residenza estiva, il Duomo) o in altre località (per esempio, la Basilica Autarena di Fara Gera d'Adda e la chiesa di Santo Stefano Protomartire di Rogno, presso Bergamo, o la chiesa di San Salvatore e il monastero di Santa Giulia a Brescia) sono state ampiamente rimaneggiate nei secoli seguenti.

Ancora fedele alla pianta originale è invece, nella Langobardia Minor, la chiesa di Santa Sofia a Benevento, fondata nel 760 da Arechi II. Caratterizzata da una pianta centrale, con un'originale struttura con nicchie stellari, possiede tre absidi e notevoli resti di affreschi sulle pareti. Benevento conserva ancora un ampio tratto delle mura e la Rocca dei Rettori, unici esempi superstiti di architettura militare longobarda.

Notevole, in ambito religioso, fu l'impulso dato da diversi sovrani longobardi (Teodolinda, Liutprando, Desiderio) alla fondazione di monasteri, strumenti al tempo stesso di controllo politico del territorio e di evangelizzazione in senso cattolico di tutta la popolazione del regno. Tra i monasteri fondati in età longobarda, spicca l'Abbazia di Bobbio, fondata da san Colombano.

Scultura

La scultura longobarda rappresenta una delle più eleganti manifestazioni dell'Arte altomedievale. Tipici della scultura longobarda sono le rappresentazioni zoomorfe e il disegno geometrico; tra le sue manifestazioni sopravvissute fino ai nostri giorni, si annoverano pannelli d'altare, fonti battesimali e soprattutto splendide lapidi dai bassorilievi fitomorfi. Ne sono un esempio i Plutei di Teodote, entrambi conservati a Pavia: si tratta di due lastre tombali risalenti alla prima metà dell'VIII secolo che rappresentano, rispettivamente, l'albero della vita tra draghi marini alati e pavoni che bevono da una fonte sormontata dalla Croce (simbolo della fonte della Grazia divina). Sempre a Pavia è custodita la Lastra tombale del duca Adaloaldo, risalente al 718 e recante una lunga iscrizione arricchita da bassorilievi a soggetto vegetale, mentre mirabile è la raffinatezza esecutiva della Lastra tombale di san Cumiano, presso l'abbazia di Bobbio: risalente agli anni del regno di Liutprando, reca anch'essa un'iscrizione centrale, racchiusa da una doppia cornice a motivi geometrici (serie di croci) e fitomorfi (tralci di vite).

Tra le opere scultoree sopravvissute fino ai nostri giorni, spicca, nel Tempietto longobardo di Cividale del Friuli, l'Altare di Rachis, tipico esempio artistico della "Rinascenza liutprandea": la tendenza, nota appunto a partire dal regno di Liutprando, volta a integrare l'arte longobarda con gli influssi romani. L'altare, realizzato nella prima metà dell'VIII secolo, è decorato da alcuni pannelli scolpiti a bassorilievo che riportano scene della vita di Gesù Cristo. Sempre a Cividale è conservato, presso il Museo archeologico nazionale, il Fonte battesimale del patriarca Callisto, anch'esso risalente all'VIII secolo; ottagonale, reca alcuni eleganti bassorilievi nella parte inferiore (la Croce, i simboli degli evangelisti) ed è sormontato da un tegurio. Anch'esso ottagonale, questo è sostenuto da colonne corinzie ed è scandito da ampi archi a tutto sesto, a loro volta adornati da iscrizioni e da motivi vegetali, animali e geometrici.

Pittura

Tra i rari esempi di arte di epoca longobarda sopravvissuti ai secoli, spiccano gli affreschi della chiesa di Santa Maria foris portas a Castelseprio, in provincia di Varese. Anche se è improbabile l'origine etnica longobarda dell'autore, il cosiddetto Maestro di Castelseprio, la sua opera, compiuta nell'VIII o nel IX secolo, resta un'alta e originale espressione dell'arte sviluppata nel regno longobardo. Gli affreschi, rinvenuti casualmente nel 1944, rappresentano scene dell'infanzia di Cristo ispirate, sembra, soprattutto ai Vangeli apocrifi. Sorprendente è la tecnica compositiva, che lascia emergere una sorta di schema prospettico di diretta ascendenza classica, oltre a un chiaro realismo nella rappresentazione di ambienti, figure umane e animali. Il ciclo di affreschi testimonia così la permanenza, in tarda età longobarda, di elementi artistici classici sopravvissuti all'innesto della concezione germanica dell'arte, priva di attenzione ai risvolti prospettici e naturalistici e più concentrata sul significato simbolico delle rappresentazioni. Anche dal punto di vista dei contenuti simbolici il ciclo esprime una visione della religione perfettamente congruente con l'ultima fase del regno longobardo; eliminata - almeno nominalmente - la concezione di Cristo ariana, quella messa in luce dagli affreschi di Castelseprio è specificamente cattolica, poiché insiste nel ribadire la consustanzialità delle due nature - umana e divina - del Figlio di Dio.

Diversi esempi di pittura di epoca longobarda si sono conservati anche in Langobardia Minor. Una testimonianza è costituita dal ciclo pittorico nella cripta del monastero di San Vincenzo al Volturno (fondato alla fine dell'VIII secolo), risalente al tempo dell'abate Epifanio (797-817). Altri esempi di pittura nell'area beneventana si trovano nella chiesa di san Biagio a Castellammare di Stabia, nella chiesa dei Santi Rufo e Carponio a Capua, nella Grotta di San Michele a Olevano sul Tusciano e nella chiesa di Santa Sofia a Benevento.

Oreficeria

Chioccia con 7 pulcini - V o VI secolo
Monza - Museo del Duomo

Croce di Agilulfo
Monza - Museo del Duomo

La branca artistica della quale si sono conservate le più note e abbondanti testimonianze di età longobarda è l'oreficeria, che annovera tra gli altri capolavori come la Chioccia con i pulcini, la Croce di Agilulfo (o di Adaloaldo), la Corona Ferrea o l'Evangeliario di Teodolinda. L'oreficeria era l'arte prediletta dei Germani che, come tutti i nomadi e guerrieri, potevano portare con sé solo armi adorne di metalli preziosi e ornamenti per il corpo o per la cavalcatura; oggetti piccoli, dotati di valore intrinseco, sempre a portata di mano per un dono o per uno scambio, facili da portar via in caso di fuga. Di conseguenza, l'arte orafa può essere vista come in gran parte eseguita da artigiani o artisti di etnia longobarda. Elementi fondamentali dell'arte orafa dei maestri longobardi sono l'uso della lamina d'oro, della lavorazione a sbalzo e delle pietre preziose e semipreziose. Tra i numerosi reperti orafi longobardi, si contano fibule, orecchini, guarnizioni da fodero in lamina d'oro lavorata a giorno degli scramasax (la tipica spada longobarda, corta e dritta a un solo taglio), guarnizioni di sella, piatti di legatura, croci e reliquiari.

L'oreficeria e l'artigianato longobardi, ben rappresentati dai numerosi reperti tombali, mostra un processo evolutivo evidente. Nel VI secolo, fino agli inizi del VII, predominano gli elementi della tradizione germanica, soprattutto bestie mostruose che testimoniano la percezione di una natura ostile e minacciosa. A partire dalla metà del VII secolo, invece, prendono rapidamente il sopravvento motivi simbolici più eleganti e leggeri, con influenze mediterranee. Uno degli esempi più noti dell'oreficeria longobarda di questo periodo è la Lamina di re Agilulfo, frontale di elmo che reca una rappresentazione simbolica del potere sovrano, ma che attinge a una simbologia tipicamente romana. A partire dalla fine del VII secolo gli elementi di distinzione tra l'arte longobarda e quella romano-bizantina si affievoliscono fino quasi a scomparire, tanto che il termine stesso di "arte longobarda" assume il significato più ampio di arte creata nel regno longobardo, indipendentemente dall'origine etnica e linguistica degli artisti e degli artigiani.

Oreficeria longobarda
Cavaliere - lastrina in bronzo dorato dello Scudo di Stabio
VII secolo - Berna - Historisches Museum

Un elemento caratteristico dell'arte orafa longobarda è costituito dalle crocette in foglia d'oro. Di origine bizantina, le croci erano tagliate in lamine d'oro; venivano poi cucite ai vestiti o deposti nelle tombe. Nel corso del VII secolo, di pari passo con la conversione al cattolicesimo dei Longobardi, le crocette presero il posto delle monete bratteate di ascendenza germanica, già ampiamente diffuse come amuleti. Le croci che le sostituirono mantennero, accanto a quello devozionale cristiano, lo stesso valore propiziatorio; dal punto di vista formale, mostrano elementi ornamentali che rielaborano antichi elementi provenienti dalla mitologia pagana, segno di una fase sincretista nel passaggio dal paganesimo al cristianesimo.

Miniatura

La miniatura in età longobarda conobbe, soprattutto all'interno dei monasteri, un particolare sviluppo, tanto che è definita Scuola longobarda (o "franco-longobarda") una peculiare tradizione decorativistica. Questa espressione artistica raggiunse la più alta espressione nei codici redatti monasteri dalla seconda metà dell'VIII secolo.

Scisma tricapitolino

Con scisma tri-capitolino (o Scisma dei Tre Capitoli, in greco trîa kephálaia) si indica una divisione all’interno della Chiesa avvenuta tra i secoli VI e VIII, causata da un folto gruppo di vescovi per lo più occidentali che interruppero le relazioni con gli altri vescovi e con il papa.

La disputa

L’imperatore Giustiniano I di Bisanzio, per salvaguardare l'unità dell'impero romano d'Oriente nel suo disegno di restaurazione del potere romano, cercò di ingraziarsi gli eretici monofisiti (numerosi e con molti agganci politici, compresa l'imperatrice Teodora, alla corte di Costantinopoli). I Monofisiti rifiutavano di riconoscere autorità dogmatica al Concilio di Calcedonia (451), ma l'imperatore, poiché non avrebbe potuto rigettare un concilio ecumenico già celebrato un secolo prima e riconosciuto da gran parte delle Chiese, decise di condannare alcuni teologi del passato che a Calcedonia avevano goduto di grande autorevolezza. Pertanto, con un editto imperiale intorno all'anno 545, Giustiniano condannò come eretici:

- la persona e tutti gli scritti del teologo antiocheno Teodoro di Mopsuestia (morto intorno al 428),

- gli scritti di Teodoreto di Cirro contro il patriarca di Alessandria Cirillo,

- una lettera di Iba di Edessa a difesa dello stesso Teodoro.

Questi scritti, raccolti appunto in “Tre Capitoli", venivano considerati di tendenza nestoriana, poiché negavano valore al termine Theotokos ed erano ambigui nella difesa della duplice natura del Cristo (Teodoro soprattutto tendeva a giustapporre le due nature più che a vederle unite). Teodoreto e Iba avevano già, col tempo, anatemizzato Nestorio, per cui Giustiniano evitò di condannarli in toto. Da notare che erano tutti e tre esponenti della scuola teologica di Antiochia, ed erano morti da tempo. La confutazione dei "Tre Capitoli" era stata preparata da Teodoro Askida, vescovo di Cesarea. Il vescovo africano Facondo di Ermiane, contrario alla condanna, pubblicò la "Difesa dei Tre Capitoli" esponendo in modo circostanziato i motivi della sua contrarietà.

Giustiniano convocò anche un concilio ecumenico, il secondo Costantinopolitano, aperto il 5 maggio 553, in modo che l'assemblea dei vescovi recepisse l'editto e desse alla condanna dei tre teologi un valore ancora maggiore. Gran parte dei patriarchi e vescovi orientali accettò la cosa senza grandi reazioni. Più difficile era ottenere l'assenso del papa romano, Vigilio, che venne trasferito a forza a Costantinopoli, fu imprigionato, e dopo vari tentennamenti firmò la condanna dei Tre Capitoli (8 dicembre 553).

Lo scisma

Molti vescovi dell'Italia Settentrionale, della Gallia e del Norico non accettarono questa imposizione (anche perché durante il Concilio di Calcedonia nel 451 i teologi antiocheni erano stati riammessi nelle loro sedi) e pertanto non si considerarono più in comunione con gli altri vescovi che avevano accettato supinamente la cosa. Tra questi vescovi “ribelli” all'autorità imperiale e conciliare c’erano i vescovi delle province ecclesiastiche di Milano e Aquileia. Frattanto la Chiesa di Aquileia si rese gerarchicamente indipendente e il suo vescovo Paolino I (557-569) fu nominato Patriarca dai suoi vescovi suffraganei (568 patriarcato autonomo) per sottolineare la propria indipendenza gerarchica. Il dissenso si acuì col successore di Vigilio, papa Pelagio I, il quale, dopo tentativi di chiarimento e persuasione, invitò Narsete a ridurre lo scisma con la forza. Narsete non corrispose l'invito del papa.

Il sinodo scismatico

Lo scisma aveva un seguito popolare e quando il patriarca Severo, successore del patriarca Elia, tradotto con forza a Ravenna dall'esarca bizantino Smaragdo, aveva dovuto sottomettersi al Papa; una volta rientrato a Grado, allora sede del patriarcato di Aquileia, trovò grande ostilità proprio nel popolo che non volle riceverlo finché non avesse ritrattato l'abiura. Radunò un sinodo a Marano Lagunare, nel 590, dove convocò i vescovi:

Pietro di Altino
Chiarissimo di Concordia
Ingenuino di Sabiona nella Rezia Seconda
Agnello di Trento
Juniore di Verona
Oronzio di Vicenza
Rustico di Treviso
Fonteio di Feltre
Agnello di Asolo
Lorenzo di Belluno
Massenzio di Giulio Carnico
Andriano di Pola
Severo di Trieste
Giovanni di Parenzo
Patrizio di Emona (odierna Lubiana)
Vindemio di Cissa (in Istria, città scomparsa nei pressi di Rovigno)
Giovanni di Celeja (odierna Celje, Slovenia).

Qui dichiarò che l'abiura ai tre Capitoli, fatta a Ravenna, gli era stata strappata a forza e che intendeva perseverare nella posizione tricapitolina in separazione da Roma.

Sviluppi politici

Nel 568 i Longobardi iniziarono l'invasione del Nord Italia. Paolino trasferì sede e reliquie a Grado (Aquileia Nova) rimasta bizantina. Nel 571 un Sinodo elegge Elia, tricapitolino, a vescovo e patriarca. Nel 579, papa Pelagio II, concede al patriarca Elia la metropolia sulla Venezia e sull'Istria, per avvicinare la composizione dello scisma. Lo stesso patriarca avvia, nel 580 la riedificazione della basilica di Sant'Eufemia patriarcale in Grado. Nel 586 viene eletto Severo. Nel 606, alla morte di Severo, il Patriarcato di Aquileia si divise in due sedi: Aquileia e Grado. Ad Aquileia venne nominato il patriarca Giovanni, tricapitolino con il sostegno dei Longobardi (duca del Friuli Gisulfo II); a Grado, alla cui sede venne riservata la giurisdizione sui territori di dominazione bizantina, fu nominato il patriarca Candidiano cattolico, sostenuto dall'esarca bizantino Smaragdo.

La chiesa scismatica tricapitolina, come ribadì il Sinodo convocato a Grado nel 579 dal patriarca Elia, rimase rigorosamente calcedoniana (mantenne il credo niceno-costantinopolitano, non professò alcuna eresia cristologica, anzi, fu decisamente antimonofisita e venerò Maria "madre di Dio"); contestò vigorosamente, fino alla rottura, l'atteggiamento che riteneva ondivago del Papato, il quale, secondo gli scismatici, non contrastò adeguatamente l'ingerenza del potere politico, espresso dall'imperatore, nelle questioni dottrinarie.

L'arcidiocesi di Milano tornò abbastanza presto in comunione con il resto della Chiesa: l'arcivescovo Onorato, quando incalzato dall'invasione longobarda intorno all'anno 570 si trasferì con il clero maggiore a Genova (ancora città bizantina), rientrò in piena comunione con l'ortodossia romana e greco-orientale. Il clero minore, rimasto sul territorio diocesano, dal 568 sotto la dominazione longobarda, fu prevalentemente tricapitolino ancora per diversi anni.

La diocesi di Como il cui vescovo Sant'Abbondio aveva avuto un ruolo diplomatico importante durante la preparazione del concilio di Calcedonia - che nel frattempo aveva reciso il rapporto di dipendenza dalla arcidiocesi di Milano ed era diventata suffraganea di Aquileia - e le altre diocesi dipendenti dall'altro metropolita di Aquileia (quello con sede ad Aquileia, longobarda) rimasero scismatiche.

E in ambito longobardo avvennero i fatti che condussero alla conclusione dello scisma. Nella definitiva battaglia di Coronate (oggi Cornate d'Adda), il re longobardo e cattolico Cuniperto sbaragliò Alachis duca longobardo del fronte anticattolico, e gli oppositori dell'Austria longobarda (Italia nord-orientale); con quella vittoria l'elemento cattolico si impose definitivamente sui dissidenti che ancora insistevano nello scisma dei Tre Capitoli. Cuniperto convocò un sinodo a Pavia nel 698 dove vescovi cattolici e tricapitolini ricomposero l'unità dottrinaria e gerarchica.

La diocesi di Como venera ancora con il titolo di santo un vescovo, Agrippino (vescovo dal 607 al 617), che si mantenne in modo intransigente su posizioni scismatiche in opposizione anche alla sede romana.