Ulisse Aldrovandi

Ornithologiae tomus alter - 1600

Liber Decimusquartus
qui est 
de Pulveratricibus Domesticis

Libro XIV
che tratta delle domestiche amanti della polvere

trascrizione di Fernando Civardi - traduzione di Elio Corti - revisione di Roberto Ricciardi

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Vinaceis vero omnino abstinere iusserim, [232] quod quanvis tolerabiliter pascant, ex eorum tamen usu, raro pariant, et ova exigua faciant. Sint igitur ipsis cibus post autumnum, cum a partu cessant. Quod etiam Columellae praeceptum est. Eo tempore, inquit[1], quo parere desinent aves, id est, ab idibus Novembris pretios<i>ores cibi subtrahendi sunt, et vinacea praebenda, quae satis commode pascunt adiectis interdum tritici excrementis. Vitentur herbae amarae, maxime {absynthium} <absinthium>, siquidem ex eius esu ova amarissima pariunt. Sunt qui ex impura cibaria pascentibus Gallinis putrida plerunque venenataque ova nasci velint, et excrementosa, si humanas faeces comederint. Lupinis etiam abstinere debent ob eandem causam, tum vero quod sub oculis grana gignant, ut Crescentiensis observavit[2], quae nisi acu, teste Palladio[3], leviter apertis pelliculis auferantur, oculos extinguunt.

Ma io vorrei raccomandare che le galline si astengano assolutamente dalle vinacce in quanto, anche se nutrono discretamente, tuttavia in seguito al loro impiego depongono uova raramente e fanno delle uova piccole. Pertanto debbono essere un loro cibo dopo l’autunno quando smettono di deporre. Questo è anche un suggerimento di Columella. Egli dice: Nel periodo in cui le galline smettono di deporre le uova, cioè, a partire dalle idi di novembre - 13 novembre, si debbono togliere i cibi più costosi e bisogna dare delle vinacce che nutrono abbastanza bene, aggiungendo di tanto in tanto degli scarti di frumento. Bisogna evitare le erbe amare, soprattutto l’assenzio, dal momento che mangiandolo fanno delle uova molto amare. Vi sono alcuni che sarebbero dell’avviso che dalle galline che si nutrono di cibi impuri nascerebbero delle uova per lo più putride e avvelenate, nonché con sapore di escrementi se hanno mangiato feci umane. Debbono anche astenersi dai lupini per lo stesso motivo, ma anche perché sotto agli occhi si producono delle granulosità, come ha osservato Pier de’ Crescenzi, le quali, testimone Palladio, se non vengono asportate mediante un ago dopo aver aperto con delicatezza la pellicina che le ricopre, fanno perdere la vista.

Uvae, quarum alioqui sapore maxime afficiuntur, propter  vinacea prohibentur, quae steriles reddunt, tum etiam, quod pituitam generent communem huius avium generis pestem, maxime si immaturae fuerint. Idem incommodum ficus adferunt, quorum esu non minus gaudent, et perperam Ornithologus[4] aut lectum ab Hermolao[5], aut male intellectum hoc Graecum carmen suspicatur.

Σῦκα φιλ'ὀρνίθε{ο}<σ>σι, φυτεύειν δ’οὐκ ἐθέλουσιν, id est:

Ficus amant aves, plantare vero nolunt.

L’uva, dal cui sapore vengono peraltro moltissimo attratte, è proibita a causa dei vinaccioli, che le rendono sterili, ma anche perché provocano la pipita, una comune pestilenza di questo genere di uccelli, soprattutto se non è matura. La stessa malattia la provocano i fichi, nel mangiare i quali non provano minor diletto, e l’Ornitologo sospetta che il seguente verso greco sia stato o malamente letto o erroneamente inteso da Ermolao Barbaro.

Sûka phil’orníthessi, phyteúein d’ouk ethélousin, cioè:

Gli uccelli amano i fichi, ma non vogliono piantarli.

Cum ceu proverbialiter recenseat Gallinaceos amantibus {ficus} <ficum>[6] ne serito: quasi vero Barbarus Gallinaceos neget ficus amare. Sed hoc voluit indicare, ut qui eiusmodi aves lucri causa educant, ficus non offerant, quod, ut dixi, pituitam generent. Ut igitur huic malo obviam eas, caprificum una cum cibo decoctam offeres, atque ita, teste Columella, ficus fastidire facies. Item uvarum fastidium inducit uva labrusca de vepribus immatura lecta. Plinius alibi simpliciter cibo incoctam dari iubet, alibi cum farre mistam[7]. Columella[8] cum farre triticeo minuto coctam esurientibus obijci vult, polliceturque eius sapore offendi ita aves, ut omnem aspernentur uvam. Sed videndum est, num eandem plantam intellexerit, quam Plinius. Hic enim alibi[9] etiam uvae florem id praestare scripsit his verbis: Uvae florem in cibis si edere Gallinacei, uvas non attingunt. Fortassis {oenantem} <oenanthen>[10] e Graeco uvae florem transtulit. A Dioscoride quidem memoratur genus vitis sylvestris sterile, quod fructum non profert, sed florem tantum, {quen} <quem> oenanthen vocant[11]. Sed Labrusca alioqui fructum fert, at exiguum eumque prius admodum austerum, post mellitum, atque dulcissimum.

Dal momento che attraverso una sorta di proverbio ordina: non pianterai un fico per coloro che amano i polli; come se Ermolao Barbaro affermasse che i polli non amano i fichi. Ma ha voluto indicare questo: affinché coloro che allevano siffatti uccelli per motivo di lucro non diano loro dei fichi, in quanto, come ho detto, causano la pipita. Pertanto, per ovviare a questa malattia, dovrai dare da mangiare insieme al vitto del caprifico - o fico selvatico - ben cotto, e così, testimone Columella, provocherai un’avversione per i fichi. Parimenti l’uva selvatica - o lambrusca, raccolta acerba tra i cespugli spinosi, provoca avversione per i vari tipi di uve. Plinio in un passo consiglia di farla cuocere e di darla come cibo così com’è, in un altro passo di darla mischiata alla farina di farro. Columella consiglia che venga data cotta con farina fine di grano alle galline affamate, e promette che i volatili vengono talmente disgustati dal suo sapore da rifiutare qualunque tipo di uva. Ma bisogna vedere se ha inteso la stessa pianta che ha inteso Plinio. Infatti costui in un passo ha scritto che anche il fiore dell’uva è in grado di fare ciò, con queste parole: Se i polli mangiano nei loro cibi il fiore dell’uva, non toccano i grappoli d’uva. Forse ha tradotto dal greco oenanthe con fiore dell’uva. Però da Dioscoride viene menzionato un genere sterile di vite selvatica che non dà frutto, ma solo un fiore che chiamano oenanthe. Ma del resto la lambrusca produce un frutto, che però è piccolo e che prima è assai aspro, poi ha sapore del miele ed è dolcissimo.

Caeterum quaecunque dabitur esca per cohortem vagantibus, monet Columella[12], ut die incipiente, et iam in vesperam inclinante bis dividatur, ne scilicet mane a cubili latius evagentur, et ante crepusculum vespertinum propter cibi spem tempestivius ad officinam redeant, possitque numerus capitum saepius recognosci. Nam omne volatile pecus pastoris custodiam facile decipit. Quantum autem cuique avi exhibendum est difficulter exprimi posse putem. Palladius[13] tamen duobus hordei cyathis[14], unam, quae vaga est, Gallinam bene pasci dixit.

Ma Columella suggerisce che, qualunque tipo di alimento si darà loro quando vagano per il cortile, si deve dividere in due volte, all’inizio del giorno e quando ormai volge verso la sera, affinché al mattino non si allontanino troppo dal pollaio, e affinché tornino di buonora al pollaio prima del crepuscolo serale per la speranza di cibo, e il numero dei capi possa essere contato più volte. Infatti qualunque branco di volatili facilmente inganna il controllo del custode. Ma la quantità che deve essere data a ciascun volatile a mio avviso può essere difficilmente formulata. Tuttavia Palladio ha detto che una gallina che è libera di vagare può essere adeguatamente nutrita con due ciati di orzo.

Qui vero saginare eas, et ad mensae luxum educare volunt, diligentius, et maiori impensa eas nutriunt, ut ea dignam mercedem consequantur. Quae res antiquissima certe est, et quam Deliaci primi exercuisse perhibentur, de quibus ita Plinius[15]: Gallinas saginare Deliaci coepere: unde pestis exorta {optimas} <opimas> aves, et suopte corpore unctas devorandi. Hoc primum antiquis caenarum interdictis exceptum invenio iam lege C. Fannii Cos. XI. annis ante tertium Punicum bellum, ne quid {volucrum} <volucre> poneretur praeter unam Gallinam, quae non esset altilis: quod deinde caput translatum per omnes leges ambulavit. Meminit eorundem Cicero[16]: Vides ne, inquiens, ut in proverbio sit ovorum inter se similitudo? Tamen hoc accepimus, Deli fuisse complures salvis rebus illis, qui Gallinas alere permultas, quaestus causa solerent. {Hi} <Ei> cum ovum inspexerant, quae id Gallina peperisset dicere solebant. <A> Petronio Arbitro[17] Deliaci Gallinarum curatores <dicti sunt> Molles, veteres, Deliaci manu recisi, id est castrati, ut Scaliger exponit.

Ma coloro che vogliono ingrassarle e allevarle per il piacere della tavola, le nutrono con maggiore attenzione e con maggior dispendio economico, allo scopo di poterne conseguire un guadagno adeguato. Senza dubbio tale pratica è antichissima e gli abitanti di Delo sono ritenuti i primi ad averla messa in atto, e di loro Plinio scrive così: Furono gli abitanti di Delo che cominciarono a ingrassare le galline, e da questo ebbe origine la pessima abitudine di mangiare pollame grasso, unto del suo stesso grasso. Fra gli antichi divieti riguardanti le portate, già nella legge del console Gaio Fannio, stilata 11 anni prima della terza guerra punica - 161 aC - trovo per la prima volta la proibizione di porre in tavola alcun volatile, tranne una sola gallina non ingrassata; questo articolo fu in seguito ripreso e passò da una legge all’altra. Di loro ha fatto menzione Cicerone dicendo: Ti rendi conto di come è proverbiale la somiglianza delle uova tra loro? Nondimeno, siamo venuti a sapere questo, che a Delo, senza danno per quelle cose, sono stati parecchi ad allevare abitualmente numerosissime galline per motivi di lucro. Essi, quando osservavano un uovo, erano soliti dire quale gallina l’avesse deposto. Da Petronio Arbitro gli allevatori di galline di Delo sono detti Gli antichi effeminati abitanti di Delo recisi con la mano, cioè castrati, come spiega Giulio Cesare/Giuseppe Giusto Scaligero.

Saginantur autem hyeme melius, quam aestate. Sunt tamen qui asserunt Gallinas potissimum pinguescere, quo tempore arbores  florent: maxime, si flores depascantur: ova vero tunc etiam cito corrumpi ac putrescere. Locus ad saginandum {calidissimus} <tepidus> deligendus, et modici luminis, quod motus earum, et lux pinguedini inimica sit, ut Varro[18] tradit, et experientia suffragatur: unde et Martialis[19] ganeae non imperitus fuisse videri potest, cum non tantum nobis tradiderit, quo loco saginentur, verum etiam, quo cibo maxime. Ait autem:

Pascitur et dulci facili<s>  Gallina farina,

Pascitur et tenebris{,}<.> {ingenios agula est} <Ingeniosa gula est>.

Vocat autem dulcem farinam, quae ex milio fit mulso lacteve elotam, unde etiam Plinius[20] dicebat: Inventumque diverticulum est in fraude<m> earum Gallinaceos quoque pascendi lacte madidis cibis, multo ita gratiores approbantur.

Ma vengono ingrassate meglio in inverno che in estate. Tuttavia vi sono alcuni che affermano che le galline diventano grasse soprattutto nella stagione in cui fioriscono gli alberi: soprattutto se si nutrono dei fiori: ma allora le uova si guastano anche in fretta e imputridiscono. Il locale destinato all’ingrasso va scelto tiepido e con poca luce, in quanto il loro movimento e la luce sarebbero nemici della pinguedine, come dice Varrone e come viene suffragato dall’esperienza: per cui può sembrare che anche Marziale non fu un inesperto nel gozzovigliare, dal momento che non solo ci ha tramandato in quale locale vadano ingrassate, ma anche soprattutto con quale cibo. Infatti dice:

La gallina viene facilmente nutrita anche con la dolce farina,

viene nutrita anche dalle tenebre. Il palato è ingegnoso.

E chiama farina dolce quella che proviene dal miglio, bagnata con idromele oppure con latte, per cui anche Plinio diceva: Si trovò una scappatoia per ingannare queste leggi allevando anche i galli con cibi inzuppati nel latte: vengono così considerati di sapore molto più raffinato.

Pinguescunt fere viginti quinque diebus, singulae caveis inclusae, quae ab utraque parte foramina habeant, unum, quo caput alterum, quo caudam exerant, ut scilicet cibum capere, et excrementa deponere queant.

Ingrassano nel giro di circa 25 giorni, rinchiuse in gabbie separate, che da ambo i lati debbono avere delle aperture, una attraverso la quale possano mettere fuori la testa, attraverso l’altra la coda, cioè affinché possano prendere il cibo e deporre gli escrementi.


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[1] De re rustica VIII,5,25: Eodem quoque tempore cum parere desinent aves, id est ab Idibus Novembribus, pretiosiores cibi subtrahendi sunt et vinacea praebenda, quae satis commode pascunt, adiectis interdum tritici excrementis.

[2] Pier de’ Crescenzi non ha osservato un bel niente. Egli si limita a ripetere pedissequamente quanto riferito telegraficamente da Palladio. Per cui non vale neppure la pena citare quanto contenuto nel suo Ruralium commodorum - Libro IX - Di tutti gli animali che si nutricano in villa - capitolo LXXXVI - Delle galline - pagina 241 (traduzione italiana stampata nel 1490, di proprietà della Army Medical Library (n° 32563) Washington DC, USA - pubblicata da http://gallica.bnf.fr)

[3] Opus agriculturae I, XXVII De gallinis, 2: Si amarum lupinum comedant, sub oculis illis grana ipsa procedunt. Quae nisi acu leviter apertis pelliculis auferantur, extinguunt. – A mio avviso non si tratta di un effetto dei lupini, bensì della manifestazione cutanea del difterovaiolo aviario. Vedi il lessico alla voce Pipita.

[4] Conrad Gessner Historia Animalium III (1555), pag. 410: Gallinaceos amantibus ficum ne serito, Hermolaus Corollario 194. Veluti proverbiale recenset. Ego Graecum carmen, Sûka phil’orníthessi, phyteúein d’ouk ethélousin: hoc est, Aves amant ficus, sed plantare recusant, perperam aut lectum ab eo, aut male intellectum suspicor.

[5] Corollarium in Dioscoridem 194 (1516). - Ermolao Barbaro alla fine di questo corollario elenca alcuni proverbi relativi al fico e si astiene dal riferirne sia la fonte che il significato. Quindi Ermolao non accenna affatto di aver letto il verso greco di fonte gessneriana. Siamo di fronte a una tortuosa elaborazione da parte di Aldrovandi delle considerazioni sinteticamente espresse in via puramente ipotetica da Gessner. Ecco l'asettico testo di Ermolao per il quale voglio rispettare maiuscole e minuscole che a mio avviso ricorrono a casaccio: produntur & de hac arbore proverbia. ficum post piscem. legumina post carnem. gallinaceos amantibus ficum ne serito. Assentari nescio ficum ficum. Panem panem dico. Sacra ficus athenis vocabatur via quae ducit ad eleusinem.

[6] Ermolao Barbaro – così come citato da Gessner – ha ficum e non ficus.

[7] Naturalis historia XIV,99: Universi numquam maturescunt, et si prius quam tota inarescat uva incocta detur cibo gallinaceo generi, fastidium gignit uvas adpetendi. - Roberto Ricciardi afferma che non si trova in Plinio un passo in cui si parli della labrusca cum farre. È quindi assai verosimile che Aldrovandi si sia affidato ciecamente a Conrad Gessner Historia Animalium III (1555), pag. 431: Id vitium maxime nascitur cum frigore et penuria cibi laborant aves. item cum ficus aut uva immatura nec (videtur menda) ad satietatem permissa est, quibus scilicet cibis abstinendae sunt aves: eosque ut fastidiant efficit uva labrusca de vepribus immatura lecta, quae cum farre triticeo minuto cocta (Plinius simpliciter cibo incoctam dari iubet, alibi cum farre miscendam) obijcitur esurientibus: eiusque sapore offensae aves, omnem aspernantur uvam, Columella.

[8] De re rustica VIII,5,23: Id porro vitium maxime nascitur cum frigore et penuria cibi laborant aves, item cum per aestatem consistens in cohortibus fuit aqua, item cum ficus aut uva inmatura nec ad satietatem permissa est, quibus scilicet cibis abstinendae sunt aves. Eosque ut fastidiant efficit uva labrusca de vepribus inmatura lecta, quae cum hordeo triticeo minuto cocta obicitur esurientibus, eiusque sapore offensae aves omnem spernantur uvam. Similis ratio est etiam caprifici, quae decocta cum cibo praebetur avibus, et ita fici fastidium creat.

[9] Naturalis historia XIV,98-99: Fit e labrusca, hoc est vite silvestri, quod vocatur oenanthinum, floris eius libris duabus in musti cado maceratis. Post dies XXX utuntur. Praeter hoc radix labruscae, acini coria perficiunt. [99] Hi paulo post quam defloruere singulare remedium habent ad refrigerandos in morbis corporum ardores, gelidissima, ut ferunt, natura. Pars eorum aestu moritur prius quam reliqua, quae solstitiales dicuntur. Universi numquam maturescunt, et si prius quam tota inarescat uva incocta detur cibo gallinaceo generi, fastidium gignit uvas adpetendi.

[10] Il vocabolo greco di genere femminile oinánthë significa: gemma della vite, vite silvestre, fiore della vite, fiore della clematide.

[11] Nell'edizione del De materia medica di Jean Ruel del 1549 - e di conseguenza in quella di Pierandrea Mattioli del 1554 - si parla della vite selvatica oenanthe nel libro V capitolo 5.

[12] De re rustica VIII,4,3: Sed cum plane post autumnum cessa[n]t a fetu, potest hoc cibo sustineri. Ac tamen quaecumque dabitur esca per cohortem vagantibus, die incipiente et iam in vesperum declinato, bis dividenda est, ut et mane non protinus a cubili latius evagentur, et ante crepusculum propter cibi spem temperius ad officinam redeant, possintque numerus capitum saepius recognosci. Nam volatile pecus facile custodiam pastoris decipit.

[13] Opus agriculturae I, XXVII De gallinis, 1: Duobus cyathis hordei bene pascitur una gallina, quae circuit.

[14] Cìato: dal greco kýathos. 1) Ciotola, provvista di lungo manico, in uso nell'antichità tra la fine del sec. VI e la metà del V aC per travasare il vino dal cratere nelle brocche. 2) Antica unità di misura di capacità corrispondente a ½ decilitro scarso. Un decilitro = 100 ml. Quattro ciati corrispondono a circa 200 ml. Orbene, 200 ml di granaglie corrispondono in media a 150 grammi. Infatti 200 ml di granaverde di riso = 150 gr, di mais intero = 145 gr, di mais macinato medio insieme alla sua farina = 140 gr. La farina di frumento tipo 00 ha un peso specifico basso: 200 ml pesano solo 100 grammi. - Vedi anche: Pesi e misure.

[15] Naturalis historia X,139: Gallinas saginare Deliaci coepere, unde pestis exorta opimas aves et suopte corpore unctas devorandi. Hoc primum antiquis cenarum interdictis exceptum invenio iam lege Gai Fanni consulis undecim annis ante tertium Punicum bellum, ne quid volucre poneretur praeter unam gallinam quae non esset altilis, quod deinde caput translatum per omnes leges ambulavit.

[16] Academica II 57: Videsne ut in proverbio sit ovorum inter se similitudo? Tamen hoc accepimus, Deli fuisse complures salvis rebus illis, qui gallinas alere permultas quaestus causa solerent: ei cum ovum inspexerant, quae id gallina peperisset dicere solebant.

[17] Satyricon XXIII: Huc huc convenite nunc, spatalocinaedi, | pede tendite, cursum addite, convolate planta, | femore facili, clune agili et manu procaces, | molles, veteres, Deliaci manu recisi. – Si emenda il testo di Aldrovandi senza troppi fronzoli grafici, altrimenti ne scaturirebbe una confusione maggiore di quanto la tipografia ci propone.

[18] Rerum rusticarum III,9,19: De tribus generibus gallinae saginantur maxime villaticae. Eas includunt in locum tepidum et angustum et tenebricosum, quod motus earum et lux pinguitudinis vindicta, ad hanc rem electis maximis gallinis, nec continuo his, quas Melicas appellant falso, quod antiqui, ut Thetim Thelim dicebant, sic Medicam Melicam vocabant.

[19] Epigrammi XIII, 62, Gallinae altiles. Pascitur et dulci facilis gallina farina, | pascitur et tenebris. Ingeniosa gula est.

[20] Naturalis historia X,139-140: Gallinas saginare Deliaci coepere, unde pestis exorta opimas aves et suopte corpore unctas devorandi. Hoc primum antiquis cenarum interdictis exceptum invenio iam lege Gai Fanni consulis undecim annis ante tertium Punicum bellum, ne quid volucre poneretur praeter unam gallinam quae non esset altilis, quod deinde caput translatum per omnes leges ambulavit. [140] Inventumque deverticulum est in fraudem earum gallinaceos quoque pascendi lacte madidis cibis: multo ita gratiores adprobantur. § Non si capisce in cosa consista la scappatoia stando alle parole di Plinio. Per la legge Fannia non si poteva porre in tavola alcun volatile eccetto una gallina che non doveva essere stata ingrassata. Ma i galli, nutriti con cibi inzuppati nel latte per renderli di sapore più raffinato, erano anch'essi dei volatili, salvo che li facessero passare per galline asportando cresta e speroni, oppure che i cibi inzuppati nel latte fossero capaci  - ma non lo erano - di castrarli e di farli somigliare a galline. Misteri interpretativi! Oltretutto, grazie al latino di Plinio, quae non esset altilis potrebbe magari tradursi con gallina che non fosse grassa = che doveva essere grassa, come ci permettiamo noi italiani di usare il non con il condizionale con finalità affermative anziché negative. Ma se la gallina doveva essere grassa, addio parsimonia nelle spese per le mense, perché ingrassare un volatile costa di più.