Lessico


Vulcano il cornuto

Marte e Venere in alcova osservati dagli Dei
Joachim Wtewael (Utrecht 1566-1638)
olio su rame


Introduzione

Aldrovandi, a pagina 230 del II volume di Ornitologia (1600), è reo di un madornale errore d’interpretazione del testo di Eliano.

Innanzitutto Eliano non afferma affatto che Efesto - o Vulcano - venne imprigionato con una catena invisibile. Inoltre Eliano dice solamente che Efesto fu l’artefice di una catena invisibile - o rete che dir si voglia - senza specificarne il motivo, senz'altro perché il movente era di dominio comune.

Sappiamo infatti dalla mitologia che Vulcano con questa sua opera d’arte irretì Ares nonché Afrodite - cioè Marte e Venere - che lo cornificavano a iosa mentre Alettrione montava di guardia affinché il Sole non potesse riferirlo a Efesto.

Sandro Botticelli - Venere e Marte - 1483
Londra, National Gallery

Ecco il testo di Eliano tratto da La natura degli animali II,30:

“Se desiderate aggiungere alla schiera dei vostri animali o mettere tra gli uccelli domestici un gallo che avete comprato o avuto in dono, non dovete lasciarlo andare in giro libero, né permettere che vada a suo piacimento dove gli capita; se lo fate, fuggirà subito nella casa dove si trovava prima, tra i suoi vecchi compagni, anche se è adesso a grande distanza da loro. È necessario dunque mettergli vicino un custode e legarlo con una catena ancora più invisibile di quella di Efesto nel poema di Omero [Odissea 8, 274 sgg.]. Io suggerisco un provvedimento del genere: poni all’aperto la mensa dove sei solito mangiare, poi prendi il gallo e, dopo avergli fatto fare tre giri attorno alla tavola, lascialo andare libero assieme agli altri uccelli domestici della tua casa. Vedrai che non si allontanerà più, come se fosse incatenato.” (traduzione di Francesco Maspero, 1998)

Ma Aldrovandi - sempre a pagina 230 - è reo anche del fatto di mettere nel dimenticatoio un dialogo di Luciano da lui già citato a pagina 186 per altri motivi. Si tratta de Il sogno ovvero il gallo - Òneiros ë alektryøn - in cui il calzolaio Micillo narra la tresca amorosa fra Venere e Marte con la complicità di Alettrione. Per fortuna Aldrovandi si redime a pagina 275, quando la fatidica tresca viene narrata in modo corretto ricorrendo proprio a Luciano. 

Ecco il testo di Luciano:

3: Micillo: Ecco, ho sentito qualcosa del genere per i tempi andati, al vostro proposito: un ragazzo, un tal Alettrione, era amico di Ares e partecipava alle bevute e ai festini di quel dio, ed era complice delle sue avventure d’amore. Così, tutte le volte che Ares andava a incontrare Afrodite, si portava dietro Alettrione, e siccome diffidava più d’ogni altro della persona del Sole, nel timore che vedesse e andasse a raccontare a Efesto, lasciava sempre il giovane fuori sulla porta per dare l’allarme tutte le volte che il Sole faceva capolino. Poi un giorno successe che Alettrione cadde addormentato, e, involontariamente, non rispettò il suo incarico di vigilanza: il Sole, senza farsi notare, si accostò ad Afrodite e ad Ares che riposava tranquillo nel letto, convinto che Alettrione avrebbe dato l’allarme se fosse arrivato qualcuno. Così Efesto, informato dal Sole, li catturò avvolgendoli e intrappolandoli nelle catene che da tempo aveva pronte per loro. Ares, non appena liberato, nel modo in cui fu liberato, montò in collera con Alettrione e lo trasformò in questo volatile qui (indicando il gallo) insieme con le sue armi, sicché tuttora porta in testa il ciuffo dell’elmo. Ed è per questo motivo che voi, per riparare il torto fatto ad Ares ora che non conta più, quando sentite che il sole sta per levare, lo anticipate di un buon margine con il canto, per segnalare che sorge. (traduzione di Claudio Consonni, 1994)

Se non bastasse, sempre a pagina 230 Aldrovandi dà la prova di misconoscere il sacro testo omerico dell’Odissea in cui tutta la vicenda viene narrata nei minimi dettagli: infatti Omero non viene assolutamente citato. 

Il machiavellismo di Zanichelli

Anche a Elio Corti sarebbe accaduto non solo di misconoscere, ma di non conoscere affatto il sacro testo dell'Odissea, se si fosse basato sull’unica edizione da lui posseduta fin dai tempi del ginnasio, un'edizione che dovrebbe essere integrale, ma che tale non è.

Quest'edizione inspiegabilmente tronca - per motivi morali? per pudicizia? - è quella del 1954 di Nicola Zanichelli (Bologna) che ospita la prestigiosa traduzione di Ettore Romagnoli in cui vengono saltati a pie' pari i cento e più versi omerici che a noi interessano. Il canto VIII, giunto al verso 263, salta di botto al verso 267, per poi slittare impercettibilmente con soli due versi al verso 370. Se non ci fosse l'annotazione numerica, manco ti accorgeresti del taglio. Il discorso fila perfettamente e il lettore viene machiavellicamente turlupinato, così:

Grazie alla collaborazione di Andrea Bertolazzi abbiamo recuperato i versi mancanti e abbiamo tappato un grosso black hole che purtroppo nell'edizione di Zanichelli del 1954 non è l'unico. Infatti, quando Omero accenna al sesso, ecco che il testo viene amputato con un bisturi affilato e impietoso.

Andrea ha cominciato il confronto tra la mia e la sua edizione, che invece è integrale, come puntualizzato nel frontespizio. Questa traduzione con testo greco a fronte è di Mario Giammarco, con la revisione di Enrico Maltese, e viene presentata in ottima veste tipografica da Newton & Compton editori, Roma, 1997.

Da un primo rapido confronto risulta che i tagli di Romagnoli - voluti non si sa da chi - sono assai numerosi. Quando Andrea avrà ultimato l'indagine, i risultati saranno pubblicati in questa pagina. Io spero che Andrea riesca pure a identificare colui che volle perpetrare questa carneficina della poesia omerica.

Il 18 luglio 2006 Andrea concludeva il confronto tra la mia e la sua edizione dell'Odissea, un confronto che è stato sì intrigante, ma che ha richiesto pazienza e accuratezza da Certosino.

Ecco i risultati, dai quali emerge in modo lampante che si tratta di un vero massacro della poesia omerica dettato da un falso e subdolo moralismo, nonché da una mancanza di rispetto nei confronti di Omero e dei lettori del XX secolo.

Una carneficina senz'altro dettata da intenti antimasturbatori. Ma da sempre l'uomo ne inventa una più del diavolo! Infatti proprio un anno prima - dicembre 1953 - il compito di titillare  alla masturbazione la giovane e non più giovane popolazione mondiale veniva assunto da Hugh Hefner con il suo primo numero di Playboy andato letteralmente a ruba: 53.991 le copie della prima tiratura, tutte vendute a 50 centesimi di US$ ciascuna.

Hefner non proponeva - agli sguardi vogliosi - antichi e banali versi poetici , bensì Marilyn Monroe, la prima playmate - compagna di gioco (sessuale) - cui toccò in sorte di accaparrarsi appunto il primo paginone centrale di tale abominio editoriale ispirato da un qualche dio omerico al fine di smantellare una volta per tutte il VI Comandamento di cattolici e luterani che sancisce: non fornicare, neppure con te stesso.

Insomma, con Playboy ormai nelle edicole, non aveva né ebbe più senso castigare la poesia omerica, come adeguatamente profetizzato nello stesso 1953 da Mondadori, scotomizzato invece da Zanichelli nel 1954. Il tragico consiste nel fatto che, anche se letta di corsa, la tresca fra Venere e Marte non ha nulla di pornografico. E se non bastasse, Omero non si esime dall'esprimere un giudizio negativo sulla vicenda, un giudizio morale  senz'altro applicabile a ogni modello di comportamento umano e tale da riecheggiare o da aggiungersi ai 10 Comandamenti, addolcito però da una serenità tutta greca. Infatti al verso 329 così sentenzia:

οὐκ ἀρετᾷ κακὰ ἔργα
non dà gioia il mal fare

Questa mia conclusione sul positivo valore educativo di Omero - in un brano del tutto inaccettabile secondo ignoti pseudomoralisti del 1954, ma in netta antitesi con l'antieducativa pubblicità di Vodafone 2006 che, per una spesa = 0, ci spiattella una sposa senz'altro inaffidabile - il positivo valore educativo di Omero, dicevamo, emerge da un confronto fra il mio punto di vista e quello di amici autentici, quelli che dicono ciò che pensano: Andrea, suo nonno Fernando Civardi, Mario Ivaldi primario cardiologo all'ospedale di Casale Monferrato, il futuro cardiologo Simone Savastano nonché il Professor Roberto Ricciardi revisore della mia traduzione di Aldrovandi. Anch'essi concordano appieno con le mie deduzioni. 

Grazie a Tiziano Zemola di Alessandria, ora Andrea ha tra le mani l'edizione di Mondadori del 1953 tradotta da Ippolito Pindemonte. Anche qui i nostri 100 e più versi dell'adulterio si sono volatilizzati - è quasi superfluo annotarlo - e alla fine del confronto dell'intera opera vedremo se i criteri di amputazione sono stati gli stessi che hanno guidato la mano a Zanichelli.

Oddio! Mi sorge un sospetto. Non è che a Bologna ben prima di Zanichelli - cioè ai tempi di Aldrovandi - fosse d'uopo castrare il sesso omerico su ingiunzione del papato? In tal caso Ulisse non sarebbe colpevole di aver misconosciuto il testo omerico, in quanto a Bologna la pornografia non poteva assolutamente circolare. Io non posseggo un'edizione dell'Odissea dei tempi di Ulisse. Per cui il nostro Ulisse rimane per ora incriminato.

E lo rimarrà fino a prova contraria. Infatti il 26 giugno 2006 abbiamo appurato che dal 1488 in Italia grazie a Bernardo Nerli era disponibile l'editio princeps di Omero il cui testo fu approvato da Demetrio Calcondila. Edita in Firenze il 13 gennaio 1488, questa editio princeps non è assolutamente monca e credo che anche Aldrovandi l'abbia potuta avere tra le mani. Questo intonso brano curato da Bernardo Nerli viene riportato a fondo pagina e messo agli atti

L'adulterio in greco e in italiano

Ed ecco finalmente il famigerato stralcio dell’Odissea relativo all'adulterio tra Marte e Venere, in cui manca Alettrione. Si tratta del canto VIII versi 266-369 (bello questo 69! come finale ci sta a pennello!). Come abbiamo detto, si tratta dell'edizione di Newton & Compton (1997).

 

 

 

 

 

 

 


L'adulterio in italiano

Grazie a www.gregorys.it ecco la traduzione anche in versione elettronica
seguita dalla trascrizione elettronica del testo greco.

Ma il poeta divin, citareggiando,
Del bellicoso Marte, e della cinta
Di vago serto il crin Vener Ciprigna,
Prese a cantar gli amori, ed il furtivo
Lor conversar nella superba casa
Del re del fuoco, di cui Marte il casto
Letto macchiò nefandemente, molti
Doni offerti alla dea, con cui la vinse.
Repente il Sole, che la colpa vide,
A Vulcan nunzïolla; e questi, udito
L'annunzio doloroso, alla sua negra
Fucina corse, un'immortal vendetta
Macchinando nell'anima. Sul ceppo
Piantò una magna incude; e col martello
Nodi, per ambo imprigionarli, ordìa
A frangersi impossibili, o a disciorsi.
Fabbricate le insidie, ei, contra Marte
D'ira bollendo, alla secreta stanza,
Ove steso giaceagli il caro letto,
S'avvïò in fretta, e alla lettiera bella
Sparse per tutto i fini lacci intorno,
E molti sospendeane all'alte travi,
Quai fila sottilissime d'aragna,
Con tanta orditi e sì ingegnosa fraude,
Che né d'un dio li potea l'occhio tôrre.
Poscia che tutto degl'industri inganni
Circondato ebbe il letto, ir finse in Lenno.
Terra ben fabbricata, e, più che ogni altra
Cittade, a lui diletta. In questo mezzo
Marte, che d'oro i corridori imbriglia,
Alle vedette non istava indarno.
Vide partir l'egregio fabbro, e, sempre
Nel cor portando la di vago serto
Cinta il capo Ciprigna, alla magione
Del gran mastro de' fuochi in fretta mosse.
Ritornata di poco era la diva
Dal Saturnìde onnipossente padre
Nel coniugale albergo; e Marte, entrando,
La trovò che posava, e lei per mano
Prese, e a nome chiamò: «Venere», disse,
«Ambo ci aspetta il solitario letto.
Di casa uscì Vulcano; altrove, a Lenno
Vassene, e ai Sinti di selvaggia voce».
Piacque l'invito a Venere, e su quello
Salì con Marte, e si corcò: ma i lacci
Lor s'avvolgean per cotal guisa intorno,
Che stendere una man, levare un piede,
Tutto era indarno; e s'accorgeano al fine
Non aprirsi di scampo alcuna via.
S'avvicinava intanto il fabbro illustre,
Che volta diè dal suo viaggio a Lenno:
Perocché il Sole spïator la trista
Storia gli raccontò. Tutto dolente
Giunse al suo ricco tetto ed arrestossi
Nell'atrio: immensa ira l'invase, e tale
Dal petto un grido gli scoppiò, che tutti
Dell'Olimpo l'udir gli abitatori:
«O Giove padre, e voi», disse, beati
Numi, che d'immortal vita godete,
Cose venite a rimirar da riso,
Ma pure insopportabili. Ciprigna,
Di Giove figlia, me, perché impedito
De' piedi son, copre d'infamia ognora,
Ed il suo cor nell'omicida Marte
Pone, come in colui che bello e sano
Nacque di gambe, dove io mal mi reggo.
Chi sen vuole incolpar? Non forse i soli,
Che tal non mi dovean mettere in luce,
Parenti miei? testimon siate, o numi,
Del lor giacersi uniti, e dell'ingrato

Spettacol che oggi sostener m'è forza.
Ma infredderan nelle lor voglie, io credo,
Benché sì accesi, e a cotai sonni in preda
Più non vorranno abbandonarsi. Certo
Non si svilupperan d'este catene,
Se tutti prima non mi torna il padre
Quei ch'io posi in sua man, doni dotali
Per la fanciulla svergognata: quando
Bella, sia loco al ver, figlia ei possiede,
Ma del proprio suo cor non donna punto».
Disse; e i dèi s'adunâro alla fondata
Sul rame casa di Vulcano. Venne
Nettuno, il dio per cui la terra trema,
Mercurio venne de' mortali amico,
Venne Apollo dal grande arco d'argento.
Le dee non già; ché nelle stanze loro
Ritenevale vergogna. Ma i datori
D'ogni bramato ben dèi sempiterni
Nell'atrio s'adunâr: sorse tra loro
Un riso inestinguibile, mirando
Di Vulcan gli artifici; e alcun, volgendo
Gli occhi al vicino, in tai parole uscìa:
«Fortunati non sono i nequitosi
Fatti, e il tardo talor l'agile arriva.
Ecco Vulcan, benché sì tardo, Marte,
Che di velocità tutti d'Olimpo
Vince gli abitator, cogliere: il colse,
Zoppo essendo, con l'arte; onde la multa
Dell'adulterio gli può tôrre a dritto».
Allor così a Mercurio il gaio Apollo:
«Figlio di Giove, messaggiero accorto,
Di grate cose dispensier cortese,
Vorrestu avvinto in sì tenaci nodi
Dormire all'aurea Venere da presso?»
«Oh questo fosse», gli rispose il nume
Licenzïoso, e ad opre turpi avvezzo;
«Fosse, o sir dall'argenteo arco, e in legami
Tre volte tanti io mi trovassi avvinto,
E intendessero i numi in me lo sguardo
Tutti, e tutte le dee! Non mi dorrìa
Dormire all'aurea Venere da presso».
Tacque; e in gran riso i Sempiterni diero.
Ma non ridea Nettuno; anzi Vulcano,
L'inclito mastro, senza fin pregava,
Liberasse Gradivo, e con alate
Parole gli dicea: «Scioglilo. Io t'entro
Mallevador, che agl'Immortali in faccia
Tutto ei compenserà, com'è ragione».
«Questo», rispose il dio dai piè distorti
Al Tridentier dalle cerulee chiome,
«Non ricercar da me. Triste son quelle
Malleverìe che dànnosi pe' tristi.
Come legarti agl'Immortali in faccia
Potrei, se Marte, de' suoi lacci sciolto,
Del debito, fuggendo, anco s'affranca?»
«Io ti satisfarò», riprese il nume
Che la terra circonda, e fa tremarla.
E il divin d'ambo i piè zoppo ingegnoso:
«Bello non fôra il ricusar, né lice».
Disse, e d'un sol suo tocco i lacci infranse.
Come liberi fûr, saltaro in piede,
E Marte in Tracia corse, ma la diva
Del riso amica, riparando a Cipri
In Pafo si fermò, dove a lei sacro
Frondeggia un bosco, ed un altar vapora.
Qui le Grazie lavaro, e del fragrante
Olio, che la beltà cresce de' numi,
Unsero a lei le delicate membra:
Poi così la vestir, che meraviglia
Non men che la dea stessa, era il suo manto.

 

L'adulterio in greco

αὐτὰρ ὁ φορμίζων ἀνεβάλλετο καλὸν ἀείδειν
ἀμφ᾽ Ἄρεος φιλότητος εὐστεφάνου τ᾽ Ἀφροδίτης,
ὡς τὰ πρῶτα μίγησαν ἐν Ἡφαίστοιο δόμοισι
λάθρῃ, πολλὰ δ᾽ ἔδωκε, λέχος δ᾽ ᾔσχυνε καὶ εὐνὴν
Ἡφαίστοιο ἄνακτος. ἄφαρ δέ οἱ ἄγγελος ἦλθεν            270
Ἥλιος, ὅ σφ᾽ ἐνόησε μιγαζομένους φιλότητι.
Ἥφαιστος δ᾽ ὡς οὖν θυμαλγέα μῦθον ἄκουσε,
βῆ ῥ᾽ ἴμεν ἐς χαλκεῶνα κακὰ φρεσὶ βυσσοδομεύων,
ἐν δ᾽ ἔθετ᾽ ἀκμοθέτῳ μέγαν ἄκμονα, κόπτε δὲ δεσμοὺς
ἀρρήκτους ἀλύτους, ὄφρ᾽ ἔμπεδον αὖθι μένοιεν.         275
αὐτὰρ ἐπεὶ δὴ τεῦξε δόλον κεχολωμένος Ἄρει,
βῆ ῥ᾽ ἴμεν ἐς θάλαμον, ὅθι οἱ φίλα δέμνι᾽ ἔκειτο,
ἀμφὶ δ᾽ ἄρ᾽ ἑρμῖσιν χέε δέσματα κύκλῳ ἁπάντῃ·
πολλὰ δὲ καὶ καθύπερθε μελαθρόφιν ἐξεκέχυντο,
ἠύτ᾽ ἀράχνια λεπτά, τά γ᾽ οὔ κέ τις οὐδὲ ἴδοιτο,          280
οὐδὲ θεῶν μακάρων· πέρι γὰρ δολόεντα τέτυκτο.
αὐτὰρ ἐπεὶ δὴ πάντα δόλον περὶ δέμνια χεῦεν,
εἴσατ᾽ ἴμεν ἐς Λῆμνον, ἐυκτίμενον πτολίεθρον,
ἥ οἱ γαιάων πολὺ φιλτάτη ἐστὶν ἁπασέων.
οὐδ᾽ ἀλαοσκοπιὴν εἶχε χρυσήνιος Ἄρης,                       285
ὡς ἴδεν Ἥφαιστον κλυτοτέχνην νόσφι κιόντα·
βῆ δ᾽ ἰέναι πρὸς δῶμα περικλυτοῦ Ἡφαίστοιο
ἰσχανόων φιλότητος ἐυστεφάνου Κυθερείης.
ἡ δὲ νέον παρὰ πατρὸς ἐρισθενέος Κρονίωνος
ἐρχομένη κατ᾽ ἄρ᾽ ἕζεθ᾽· ὁ δ᾽ εἴσω δώματος ᾔει,           290
ἔν τ᾽ ἄρα οἱ φῦ χειρί, ἔπος τ᾽ ἔφατ᾽ ἔκ τ᾽ ὀνόμαζε·
"δεῦρο, φίλη, λέκτρονδε τραπείομεν εὐνηθέντες·
οὐ γὰρ ἔθ᾽ Ἥφαιστος μεταδήμιος, ἀλλά που ἤδη
οἴχεται ἐς Λῆμνον μετὰ Σίντιας ἀγριοφώνους."
ὣς φάτο, τῇ δ᾽ ἀσπαστὸν ἐείσατο κοιμηθῆναι.                295
τὼ δ᾽ ἐς δέμνια βάντε κατέδραθον· ἀμφὶ δὲ δεσμοὶ
τεχνήεντες ἔχυντο πολύφρονος Ἡφαίστοιο,
οὐδέ τι κινῆσαι μελέων ἦν οὐδ᾽ ἀναεῖραι.
καὶ τότε δὴ γίγνωσκον, ὅ τ᾽ οὐκέτι φυκτὰ πέλοντο.
ἀγχίμολον δέ σφ᾽ ἦλθε περικλυτὸς ἀμφιγυήεις,           300
αὖτις ὑποστρέψας πρὶν Λήμνου γαῖαν ἱκέσθαι·
Ἠέλιος γάρ οἱ σκοπιὴν ἔχεν εἶπέ τε μῦθον.
βῆ δ᾽ ἴμεναι πρὸς δῶμα φίλον τετιημένος ἦτορ·
ἔστη δ᾽ ἐν προθύροισι, χόλος δέ μιν ἄγριος ᾕρει·
σμερδαλέον δ᾽ ἐβόησε, γέγωνέ τε πᾶσι θεοῖσιν·              305
"Ζεῦ πάτερ ἠδ᾽ ἄλλοι μάκαρες θεοὶ αἰὲν ἐόντες,
δεῦθ᾽, ἵνα ἔργα γελαστὰ καὶ οὐκ ἐπιεικτὰ ἴδησθε,
ὡς ἐμὲ χωλὸν ἐόντα Διὸς θυγάτηρ Ἀφροδίτη
αἰὲν ἀτιμάζει, φιλέει δ᾽ ἀίδηλον Ἄρηα,
οὕνεχ᾽ ὁ μὲν καλός τε καὶ ἀρτίπος, αὐτὰρ ἐγώ γε         310
ἠπεδανὸς γενόμην. ἀτὰρ οὔ τί μοι αἴτιος ἄλλος,
ἀλλὰ τοκῆε δύω, τὼ μὴ γείνασθαι ὄφελλον.
ἀλλ᾽ ὄψεσθ᾽, ἵνα τώ γε καθεύδετον ἐν φιλότητι
εἰς ἐμὰ δέμνια βάντες, ἐγὼ δ᾽ ὁρόων ἀκάχημαι.
οὐ μέν σφεας ἔτ᾽ ἔολπα μίνυνθά γε κειέμεν οὕτως        315
καὶ μάλα περ φιλέοντε· τάχ᾽ οὐκ ἐθελήσετον ἄμφω
εὕδειν· ἀλλά σφωε δόλος καὶ δεσμὸς ἐρύξει,
εἰς ὅ κέ μοι μάλα πάντα πατὴρ ἀποδῷσιν ἔεδνα,
ὅσσα οἱ ἐγγυάλιξα κυνώπιδος εἵνεκα κούρης,
οὕνεκά οἱ καλὴ θυγάτηρ, ἀτὰρ οὐκ ἐχέθυμος."             320
ὣς ἔφαθ᾽, οἱ δ᾽ ἀγέροντο θεοὶ ποτὶ χαλκοβατὲς δῶ·
ἦλθε Ποσειδάων γαιήοχος, ἦλθ᾽ ἐριούνης
Ἑρμείας, ἦλθεν δὲ ἄναξ ἑκάεργος Ἀπόλλων.
θηλύτεραι δὲ θεαὶ μένον αἰδοῖ οἴκοι ἑκάστη.
ἔσταν δ᾽ ἐν προθύροισι θεοί, δωτῆρες ἑάων·                  325
ἄσβεστος δ᾽ ἄρ᾽ ἐνῶρτο γέλως μακάρεσσι θεοῖσι
τέχνας εἰσορόωσι πολύφρονος Ἡφαίστοιο.
ὧδε δέ τις εἴπεσκεν ἰδὼν ἐς πλησίον ἄλλον·
"οὐκ ἀρετᾷ κακὰ ἔργα· κιχάνει τοι βραδὺς ὠκύν,
ὡς καὶ νῦν Ἥφαιστος ἐὼν βραδὺς εἷλεν Ἄρηα           330
ὠκύτατόν περ ἐόντα θεῶν οἳ Ὄλυμπον ἔχουσιν,
χωλὸς ἐὼν τέχνῃσι· τὸ καὶ μοιχάγρι᾽ ὀφέλλει."
ὣς οἱ μὲν τοιαῦτα πρὸς ἀλλήλους ἀγόρευον·
Ἑρμῆν δὲ προσέειπεν ἄναξ Διὸς υἱὸς Ἀπόλλων·
"Ἑρμεία, Διὸς υἱέ, διάκτορε, δῶτορ ἑάων,                    335
ἦ ῥά κεν ἐν δεσμοῖς ἐθέλοις κρατεροῖσι πιεσθεὶς
εὕδειν ἐν λέκτροισι παρὰ χρυσέῃ Ἀφροδίτῃ;"
τὸν δ᾽ ἠμείβετ᾽ ἔπειτα διάκτορος ἀργεϊφόντης·
"αἲ γὰρ τοῦτο γένοιτο, ἄναξ ἑκατηβόλ᾽ Ἄπολλον·
δεσμοὶ μὲν τρὶς τόσσοι ἀπείρονες ἀμφὶς ἔχοιεν,            340
ὑμεῖς δ᾽ εἰσορόῳτε θεοὶ πᾶσαί τε θέαιναι,
αὐτὰρ ἐγὼν εὕδοιμι παρὰ χρυσέῃ Ἀφροδίτῃ."
ὣς ἔφατ᾽, ἐν δὲ γέλως ὦρτ᾽ ἀθανάτοισι θεοῖσιν.
οὐδὲ Ποσειδάωνα γέλως ἔχε, λίσσετο δ᾽ αἰεὶ
Ἥφαιστον κλυτοεργὸν ὅπως λύσειεν Ἄρηα.                345
καί μιν φωνήσας ἔπεα πτερόεντα προσηύδα·
"λῦσον· ἐγὼ δέ τοι αὐτὸν ὑπίσχομαι, ὡς σὺ κελεύεις,
τίσειν αἴσιμα πάντα μετ᾽ ἀθανάτοισι θεοῖσιν."
τὸν δ᾽ αὖτε προσέειπε περικλυτὸς ἀμφιγυήεις·
"μή με, Ποσείδαον γαιήοχε, ταῦτα κέλευε·                    350
δειλαί τοι δειλῶν γε καὶ ἐγγύαι ἐγγυάασθαι.
πῶς ἂν ἐγώ σε δέοιμι μετ᾽ ἀθανάτοισι θεοῖσιν,
εἴ κεν Ἄρης οἴχοιτο χρέος καὶ δεσμὸν ἀλύξας;"
τὸν δ᾽ αὖτε προσέειπε Ποσειδάων ἐνοσίχθων·
"Ἥφαιστ᾽, εἴ περ γάρ κεν Ἄρης χρεῖος ὑπαλύξας       355
οἴχηται φεύγων, αὐτός τοι ἐγὼ τάδε τίσω."
τὸν δ᾽ ἠμείβετ᾽ ἔπειτα περικλυτὸς ἀμφιγυήεις·
"οὐκ ἔστ᾽ οὐδὲ ἔοικε τεὸν ἔπος ἀρνήσασθαι."
ὣς εἰπὼν δεσμὸν ἀνίει μένος Ἡφαίστοιο.
τὼ δ᾽ ἐπεὶ ἐκ δεσμοῖο λύθεν, κρατεροῦ περ ἐόντος,     360
αὐτίκ᾽ ἀναΐξαντε ὁ μὲν Θρῄκηνδε βεβήκει,
ἡ δ᾽ ἄρα Κύπρον ἵκανε φιλομμειδὴς Ἀφροδίτη,
ἐς Πάφον· ἔνθα δέ οἱ τέμενος βωμός τε θυήεις.
ἔνθα δέ μιν Χάριτες λοῦσαν καὶ χρῖσαν ἐλαίῳ
ἀμβρότῳ, οἷα θεοὺς ἐπενήνοθεν αἰὲν ἐόντας,                365
ἀμφὶ δὲ εἵματα ἕσσαν ἐπήρατα, θαῦμα ἰδέσθαι.
ταῦτ᾽ ἄρ᾽ ἀοιδὸς ἄειδε περικλυτός· αὐτὰρ Ὀδυσσεὺς
τέρπετ᾽ ἐνὶ φρεσὶν ᾗσιν ἀκούων ἠδὲ καὶ ἄλλοι
Φαίηκες δολιχήρετμοι, ναυσίκλυτοι ἄνδρες.

 

Editio  princeps di Omero
testo approvato da Demetrio Calcondila
edita a Firenze il 13 gennaio 1488 a  cura di Bernardo Nerli
indirizzata a Piero de' Medici

 

Odissea canto VIII - versi 266-369
editio princeps del 1488



 

ODISSEA

Analisi dell’edizione posseduta da Elio Corti
e confronto con l'edizione posseduta da Andrea Bertolazzi

Zanichelli Editore, Bologna (1954)

versus

Newton & Compton editori, Roma (1997)

CANTO I: Completo

CANTO II: Completo

CANTO III: Completo

CANTO IV: Completo

CANTO V

Tagliato dal verso 117 al verso 121

<Così quando Demetra dai bei capelli, a Iasione, cedendo agl’impulsi del cuore, s’unì in amor coniugale in un maggese arato tre volte, Zeus non a lungo ne fu ignaro, e lo uccise scagliandogli un vivido fulmine>.

Tagliato da 144 a 148

<Certo la notte dormiva con lei, magari per forza. Nelle grotte profonde, svogliato con lei che voleva; ma il giorno sugli scogli sedendo, oppure sul lido, lacerandosi il cuore tra lacrime, gemiti e affanni, era lì sempre a scrutare piangendo il mare infecondo>.

Tagliato da 215 a 217

<Ritornati essi poi nei recessi dell’antro spazioso goderono amandosi, l’uno all’altra restando vicini>.

CANTO VI

Tagliato da 126 a 128

<Spezzò dalla fitta selva con mano robusta un ramo frondoso, per coprirsi nel corpo le parti virili>.

Tagliato da 217 a 219

<Io poi non voglio lavarmi in vostra presenza: ho vergogna di stare nudo in mezzo a fanciulle dai bei capelli>.

CANTO VII: Completo

CANTO VIII

Tagliato da 264 a 369
(Vedi il documento scannerizzato riguardante la relazione tra Ares e Afrodite)

CANTO IX: Completo

CANTO X

Tagliato da 294 a 300

<T’inviterà a giacerti nel talamo suo; d’una dea il letto non rifiutare, perché ti sciolga i compagni e di te stesso abbia cura; ma tu falle giurare col gran giuramento dei numi che non ordirà contro te alcun altro perfido inganno, perché non ti renda, dopo spogliato, vile e impotente>.

Tagliato da 331 a 344

<“E adesso noi due sul mio letto saliamo, affinché congiunti in amore nel letto confidare possiamo l’uno nell’altra”. Essa parlò così; io poi rispondendo le dissi: “O Circe, come pretendi ch’io sia con te così stolto, tu che m’hai resi porci nella tua casa i compagni e tenendomi qui, pensando agl’inganni, m’inviti a venire nel talamo e a salire il tuo letto perché tu mi renda, dopo spogliato, vile e impotente! Io per me non vorrei venire dentro il tuo letto, a meno che tu non accetti di far giuramento solenne, o dea, che non m’ordirai alcun altro perfido inganno”. Così dicevo, e lei giurò subito come volevo e, poi ch’ebbe giurato e la formula intera ebbe detto, solo allora io salii sul bellissimo letto di Circe>.

Tagliato da 372 a 373

<Ma non devi proprio temere: perché io t’ho giurato prima col gran giuramento>.

Tagliato da 470 a 472

<S’addormentarono nelle stanze già buie i compagni. Io allora salii sul bellissimo letto di Circe>.

CANTO XI

Tagliato da 237 a 259

(si tratta di un pezzo molto lungo che narra la storia d’amore tra Enipeo, un fiume, e Tiro, moglie di Creteo; Tiro ebbe Pelia e Neleo dalla relazione con Enipeo, mentre da Creteo ebbe Esone, Ferete e Amitaone!)

Tagliato da 260 a 261

<Che tra le braccia di Zeus si vantava di aver dormito>.

Tagliato da 265 a 268

<Dopo di lei vidi Alcmena, la moglie di Anfitrione, che generò l’ardito Eracle, cuor di leone, nelle braccia del grande Zeus, stretta a lui in amore>.

CANTO XII: Completo

CANTO XIII: Completo

CANTO XIV: Completo

CANTO XV

Tagliato da 416 a 419

<Uno dapprima a lei si congiunse in amore – era quella presso la concava nave a lavare – e tal cosa adesca l’animo delle donne più deboli anche se onesto>.

CANTO XVI: Completo

CANTO XVII: Completo

CANTO XVIII

Tagliato da 85 a 86

<Strappandoti le pudende a mangiarle dia crude ai suoi cani>.

Tagliato da 211 a 212

<E di giacerle accanto nel letto bramarono tutti>.

Tagliato da 319 a 320

<E con Eurimaco sempre trescando si univa in amore>.

CANTO XIX: Completo

CANTO XX

Tagliato da 7 a 8

<Le donne che già da tempo solevano unirsi coi Proci>.  

Tagliato da 11 a 13

<Se balzando su loro desse ad ognuna la morte o ancor le lasciasse unirsi coi Proci superbi >.

Tagliato da 318 a 319

<Gli ospiti maltrattati, qua e là violentate le ancelle per entro le belle stanze in maniera indecorosa>.

CANTO XXI: Completo

CANTO XXII

Tagliato da 436 a 437

<Ed esse i piaceri amorosi avranno scordato, coi Proci goduti in amplessi furtivi>.

Tagliato da 454 a 455

<E anche su mia madre, e trescavano coi pretendenti>.

Tagliato da 466 a 467

<Gli tolsero via le pudende, che i cani mangiassero crude>.

CANTO XXIII

Tagliato da 279 a 287

<Preparavano intanto Eurinome e la nutrice il letto con morbide coltri alla luce di fiaccole accese. Com’ebbero steso sollecite le ben ripiegate coperte, la vecchia alla sua stanza tornò per mettersi a letto, ed Eurinome, addetta al talamo, li precedeva reggendo una fiaccola in mano mentre s’avviavano al letto; e al talamo accompagnatili, indietro tornava. Essi poi si recarono lieti all’uso del talamo antico>.

Tagliato da 290 a 292

<Ma poi ch’ebbero i due del dolce amore goduto, piacque lor ridirsi gli eventi, narrando a vicenda>.

CANTO XXIV: Completo

N.B. Per quanto riguarda il numero dei versi citati,
si fa riferimento all'edizione di Zanichelli del 1954.

Odissea
Confronto tra Edizioni scolastiche Mondadori - 1953
e Grandi tascabili economici Newton - 1997

a cura di Andrea Bertolazzi
indagine conclusa il 24 dicembre 2006

Tutti i canti delle due edizioni collimano per integrità, eccetto il canto VIII dell'edizione Mondadori che presenta una vasta decurtazione dal verso 351 al 495 corrispondente ai versi 266/369 di Zanichelli relativa all'adulterio tra Marte e Venere, una tresca che già sappiamo essere integra e presente nell'edizione di Newton del 1997.

È molto strano che l'edizione Mondadori contenga un solo taglio invece delle numerose amputazioni di Zanichelli, 25 per l'esattezza. Essendo l'edizione Zanichelli di un anno più giovane rispetto a quella di Mondadori, ci si aspetterebbe un adeguamento dell'editrice bolognese ai criteri di Playboy del dicembre 1953, forse già debitamente preannunciati da Mondadori.

Per scoprire se le numerose mutilazioni di Zanichelli e l'eliminazione del solo passo del canto VIII di Mondadori siano opera di due editori senza scrupoli culturali, o se invece la versione italiana del famigerato passo del canto VIII fosse venuta alla luce solo di recente, ma subito bollata e debitamente occultata, ci siamo messi alla ricerca di un’edizione italiana più vecchia dell’Odissea,.magari risalente al 1800!

Avendo Andrea la possibilità di accedere alla biblioteca del Liceo Foscolo di Pavia, è stato facile individuarvi un’edizione ottocentesca, ma ovviamente non può mancare l’inghippo dal sapore alquanto vessatorio e dispotico: "È molto difficile consultare un testo così antico, è off-limits per tutti gli studenti."

Grazie mille per la risposta!

Vorremmo sapere a cosa serve avere una biblioteca a disposizione senza poterne consultare i volumi! Abbiamo esposto il problema dell’eliminazione dei versi anche alla professoressa Mara Aschei, responsabile della biblioteca liceale. Ci ha detto che "è facile che versi del genere, soprattutto a sfondo sessuale, vengano eliminati dalle edizioni dell’Odissea e non solo, perché sono testi destinati alle scuole. Questo problema si riscontra anche nelle satire di Orazio o di Giovenale."

Sorge un dubbio: oggigiorno l’edizione di Newton viene fatta acquistare agli studenti che si accingono allo studio di Omero, ma questa edizione contiene tutti i versi, sia quelli a sfondo sessuale che non. Allora come mai nel 1953/54 ciò non succedeva?

Negligenza editoriale? È possibile... È prevista un’incursione alla Zanichelli per trovare una risposta plausibile al fine di risolvere una volta per tutte il problema.

Fantasmi del fascismo? Censura ecclesiastica?

Forse. Omero potrebbe essere stato eccessivo nel descrivere scene di sesso, come quella del passo incriminato, ma Elio Corti ha dimostrato con ulteriori analisi del testo che Omero non era assolutamente un pornografo, anzi, era addirittura un moralista:

V,117 Così quando Demetra dai bei capelli, a Iasione, cedendo agl’impulsi del cuore, s’unì in amor coniugale in un maggese arato tre volte...

VI,126: Spezzò dalla fitta selva con mano robusta un ramo frondoso, per coprirsi nel corpo le parti virili...

VI, 217: Io poi non voglio lavarmi in vostra presenza: ho vergogna di stare nudo in mezzo a fanciulle dai bei capelli...

VIII, 328: E qualcuno guardando diceva così al vicino: "Non dà gioia il mal fare; e il tardo acciuffa lo svelto"...

Io penso che quanto è stato messo in luce dalla ricerca su Vulcano il Cornuto rappresenti un vero e proprio boicottaggio alla cultura partorito dalla collaborazione tra Case Editrici e Santa Madre Chiesa.

Le indagini per dimostrare quest'ultima affermazione ovviamente proseguono. Mai arrendersi! E se siete in possesso di un’Odissea risalente al 1800, o di qualsiasi altra fonte che renda possibile risolvere il dilemma antiomerico, non esitate a contattarci!

Un finale da brivido del 1847
rispettoso di Omero e dei lettori

di Andrea Bertolazzi

Giungiamo così all’ultimo atto di questa carneficina omerica. Il tempo è passato e il liceo è finito. L’università è tutt'altra storia: per richiedere in visione un volume, seppur antico e ben conservato, nella biblioteca della facoltà di lettere è necessario soltanto un documento d'identità.

Così, grazie a Sara Sacchi mia ex compagna del Liceo Foscolo di Pavia, che con le sue antennine da letterata si è presa la briga di sondare gli scaffali in cerca di un'Odissea ottocentesca, ho potuto immergermi nell’atmosfera surreale della biblioteca universitaria di Pavia. Dalle finestre faceva capolino un sole radioso, ma lo spettacolo attorno a me non era da meno.

Centinaia, anzi, migliaia, ma che dico! migliaia e migliaia di volumi disposti ordinatamente su tavoli, tavolini, tavoloni e scaffali mi hanno accompagnato in questa avventura. E là, esattamente nella terza sala, nell’archivio 113.G.101, la tanto agognata Odissea mi aspettava: traduzione del dott. Paolo Maspero, e nientepopodimeno che del 1847!

Mi è sorta un’esclamazione forse paragonabile a quella di Archimede quando scoprì il principio della spinta idrostatica. Con entusiastica impazienza mi sono letteralmente gettato sul volume, ma con estrema compostezza, onde evitare di essere trasferito a continuare le ricerche al Mondino in compagnia degli psicopatici, scusate, dei disabili mentali, scusate ancora, dei diversamente abili mentali.

Trascrivo qui di seguito le caratteristiche del libro:

titolo: Odissea
autore: Omero
anno: 1847
lingua: Italiana (senza testo greco a fronte)
editore: Giuseppe Redaelli, Milano
seconda edizione
traduzione: a cura del dott. Paolo Maspero

Edizione riveduta dal traduttore
con il discorso estetico del professor Antonio Zoncada

Ecco apparire la prima pagina del canto VIII, quello che a noi più interessa, in quanto nelle altre due edizioni analizzate il lungo passo di Vulcano bollato come osé si era dissolto come neve al sole.

Prima di procedere mi dico: se anche in quest'edizione ottocentesca dell’Odissea il brano dell’adulterio di Marte e Venere è stato amputato, senz'altro è da parecchi lustri che i responsabili di questa censura stanno giocando a golf e bevendo Martini col Creatore, e anche stavolta la ricerca si concluderà con un’ipotesi sul perché pari al mistero che avvolge sia il triangolo delle Bermude che lo scozzese Nessie.

Se invece il passo rimosso in edizioni di cinquant'anni fa (1953/54) fosse presente in questa versione dell'Odissea del 1847, mi auguro che gli autori di quel misfatto non stiano sollazzandosi col Creatore, anzi, stiano rodendosi la coscienza per essersi arrogati il diritto di fare un collage pseudo moraleggiante di quest’opera antica e impareggiabile, che immorale assolutamente non è. Ma probabilmente sotto al loro misfatto mano ci cova, una mano ben più potente e lunga della loro, una mano che va a tutti i costi identificata e sbeffeggiata.

Ormai ci siamo. Verso 351:

Per comun voto ad ordinar trascelti
I pubblici conflitti; e, senza indugio
Apportate le turbe, ai danzatori
Un ampio agone preparar. Dal regio
Ostello fece il banditor ritorno
con l’armonica cetra; a tosto in mezzo
Della lizza Demodoco s’assise.
Allor famosi per destrezza, e tutti
Sul fior degli anni, giovani leggiadri
Teneansi in punto a lui d’intorno; e mentre
Conducevan velocissimi nel circo
Maestre danze, il folgorar de’ piedi
Stava Ulisse a guardar maraviglioso.
Posto fine alla danza, il gentil vate
Demodoco cantò del bellicoso
Marte, gli amori e della Dea di Cipro;
Quando, vinta per molti incliti doni,
Col fiero Nume giacquesi furtiva
Di Vulcan nella reggia, indegnamente
Il divin letto nuzial macchiando.
Ma commisti in amor li vide il Sole,
Che tutto vede, e l’onta abbominosa
A Vulcan raccontò.

continua con il racconto di tutta la tresca

Se pagarti ei ricusa, io stesso in tutto
Soddisfarti prometto. – Ormai, Nettuno,
Riprese allora il generoso fabbro,
Contrastar più non deggio al tuo desio.
E in questo dire i saldi lacci infranse
Liberi dalla rete, ambo spediti
Balzar dal letto; e corse Marte in Tracia,
e in Pafo Citerea, del riso amica,
Ove una selva a lei verdeggia, e fuma
Un odorato altare. Ivi le Grazie
...

Rullo di tamburi.... olé, il passo c’è! Riconsegno il libro che torna a riposare nel suo scaffale e lascio dietro di me secoli di cultura mentre mi avvio verso l’uscita.

Appena si chiude la porta mi azzardo a pensare che la ricerca è conclusa, almeno per la parte inerente al testo. Bisognerà ora vedere cosa sarà riferito a Elio Corti dalla Zanichelli e se riusciranno a intortarlo (cosa quasi impossibile) o se gli autori del misfatto (perché sono più di uno) salteranno fuori chiedendo scusa – senz'altro indirettamente, per ovvi motivi cronologici – per aver operato come quei chirurghi che asportano un rene senza nemmeno aver pronunciato il giuramento di Ippocrate... alla faccia di Omero e alla nostra!

Motta Visconti
domenica 29 giugno 2008
sotto gli auspici dei Santi Pietro e Paolo